Leggere Caravaggio (prima parte).

di Michele FRAZZI

Presentiamo con piacere la prima parte di un lavoro che Michele Frazzi, valoroso studioso da tempo collaboratore di About Art, ha completato dopo lunghe e impegnative ricerche archivistiche sulla figura e sull’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio. L’originalità dell’approccio ad un tema che si sa essere da tempo oggetto dell’impegno di studiosi di grande competenza e capacità, e che ha appassionato importanti accademici, figure istituzionali di rilevo ma anche fruitori non meno affascinati dalla personalità del genio lombardo, ha consentito al nostro autore di raggiungere risultati di gran rilievo con acquisizioni del tutto inedite che ha concesso a noi di pubblicare in anteprima e che ben volentieri mettiamo a disposizione oltre che degli specialisti, di tutti gli amanti delle belle arti. Si tratta di nuovi motivi e spunti che vengono presentati in una serie di contributi che certamente contribuiranno a favorire una ‘nuova lettura’ di quanto concerne il genio lombardo e che per questo abbiamo deciso semplicemente di intitolare Leggere Caravaggio; come scrive l’autore: “si aprirà alla vista del lettore tutta una serie di relazioni personali, di ambienti culturali e soprattutto di idee che hanno permesso al pittore di realizzare la sua rivoluzione, dipaneremo questa trama nascosta attraverso notizie e documenti nuovi” .

Leggere Caravaggio

 “Solo dare / un senso a ciò che si è / guardato significa vedere “

                                                                                     Herta Müller

                                                      Premio Nobel per la letteratura 2009

                                                                                    Lo sguardo estraneo 

La giovinezza in Lombardia

Prologo: un nuovo modo di vedere il  mondo 

L’ epoca barocca fu un momento di straordinaria energia per tutte le espressioni artistiche che sotto la pressione di un nuova spinta culturale e animate da una esigenza di  rinnovamento pervenirono ad una radicale trasformazione; si stabilì un nuovo modello e un diverso punto di equilibrio estetico rispetto agli esiti precedenti, fu un momento paragonabile solo agli sconvolgimenti artistici ed ai successivi aggiustamenti maturati in seno al Rinascimento. Il Barocco come tutti i movimenti rinnovatori nacque in opposizione e quasi in polemica con la cultura precedente tanto da costituire a tutti gli effetti un  diverso e Secondo Rinascimento, come lo chiamò lo storico Fernand Braudel ed ebbe conseguenze ancora più vaste e profonde del Primo. Come l’importante studioso ebbe a concludere, il ‘600:

fu il periodo di massimo irradiamento della civiltà italiana”e “ questa Italia crea il Barocco una nuova forme di gusto e di cultura, una “civiltà che rivestirà l’intera Europa”(1) .

Questo studio vorrebbe contribuire ad una profonda riflessione sul significato dei raggiungimenti culturali ottenuti nel corso del XVII secolo e ribadire la sua fondamentale importanza nella storia della cultura e per molti versi riscoprire la sua perdurante attualità. Questa fu l’epoca del vitalismo, delle passioni, della germinazione, del movimento, tutte caratteristiche per le quali si distingue nettamente dalla cultura precedente che invece aveva dato luogo a forme estetiche più statiche, mentali ed astratte; il ‘600 è il tempo in cui ci si concentra sulla  rappresentazione della vita stessa. Se il Rinascimento cerca l’equilibrio perfetto e immutabile, il Barocco all’opposto cerca il continuo movimento ed è quindi sempre in equilibrio precario ed instabile, fuori dal proprio centro, ed è proprio questo ‘eccentrico’, secondo il termine  portoghese o spagnolo che viene utilizzato per indicare una perla di forma non tonda ma irregolare: per l’appunto ‘barocca’. Fu un periodo di rottura e di mutamento  che aprì vie nuove, fu la stagione della teatralità, della retorica, della libera immaginazione, dello sfarzo, della propaganda, che portò alla creazione di quella civiltà dell’immagine nella quale anche noi oggi forse non faticheremo a ritrovarci.

Cercheremo dunque di capire  quali erano i cardini su cui ruotava questo mondo e il modo in cui gli uomini dell’epoca percepivano e di conseguenza reagivano agli avvenimenti che avvenivano attorno a loro; cercheremo di calarci nel loro modo di pensare, di vedere le cose, di comprendere quali erano i loro punti cardinali di riferimento. In particolare ci concentreremo sulla vita e  sulle opere di Caravaggio con l’intenzione non solo di ricostruire le tensioni e la direzione verso cui si muoveva la sua arte, ma di restituire anche un affresco sufficientemente preciso del mondo contemporaneo così come lo vedevano gli occhi dei suoi abitanti, attraverso le loro passioni, i loro interessi, le loro idee. Nello svolgimento dell’opera si aprirà alla vista del lettore tutta una serie di relazioni personali, di ambienti culturali e soprattutto di idee che hanno permesso al pittore di realizzare la sua rivoluzione, dipaneremo questa trama nascosta attraverso notizie e documenti nuovi, perché questo è un lavoro di ricerca. Compiremo questo cammino con il proposito di far si che il lettore una volta completato il percorso sia provvisto degli  strumenti che gli sono necessari per “leggere” la pittura del Caravaggio e cioè gli sia possibile interpretare il significato che il pittore voleva trasmettere coi suoi dipinti; al di là del piacere estetico all’epoca infatti il messaggio che l’opera doveva essere in grado di trasmettere era considerata la cosa più importante, la comprensione di questo messaggio permetteva il pieno godimento dell’oggetto da parte dello spettatore.

Inoltre cercheremo anche capire di quali mezzi tecnici si è servito per costruirli: come ha utilizzato la luce, quale tipo di spazio voleva rappresentare, come ha organizzato la scena, i movimenti dei personaggi, la loro gestualità ed espressione, insomma cercheremo di distinguere ed analizzare i singoli elementi formali dei suoi dipinti, permettento così di ammirare la sua opera con occhi nuovi, lucidamente consapevoli  dei motivi per cui ci attira così tanto.

Questa ricerca dunque è rivolta a tutti coloro che affascinati dalla sua pittura vogliono andare oltre il godimento di un piacere puramente estetico e capire qualcosa in più sulla profondità della sua arte. Avendo scelto questo tipo di approccio e cioè un avvicinamento graduale al cuore della pittura caravaggesca, lo studio risulterà tanto più interessante ed appagante quanto più si progredirà nella sua lettura, ogni argomento che è stato trattato è funzionale al raggiungimento del risultato finale appena descritto. Chi ha già avuto modo di conoscere la storia del pittore potrà notare molte novità, l’approccio storico e filologico che ho più sopra delineato ha suggerito di raggruppare i suoi lavori per aree tematiche pur seguendo  un  filo cronologico che le suddivide sostanzialmente in tre macrogruppi: il primo periodo romano, il secondo periodo romano e la fase postromana ( 2).

1584 – L’ambiente culturale milanese, le radici del Caravaggio

In questa prima sezione cercheremo di delineare il clima intellettuale che si respirava nella Milano dell’epoca soprattutto in relazione all’ambiente culturale frequentato dal Caravaggio che per imparare a dipingere risiedette per 4 anni a Milano nella casa del suo maestro: il bergamasco Simone Peterzano. Andremo dunque alla ricerca delle prime e più profonde radici culturali da cui egli trasse la linfa necessaria alla sua arte. Per questo motivo ci sforzeremo di mettere a fuoco le idee più importanti che circolavano nel panorama artistico milanese facendo particolare attenzione anche alle le relazioni sia personali che intellettuali che il microcosmo lombardo ha intrecciato con gli intellettuali del centro Italia, in modo da comprendere se questi rapporti possono in qualche modo essere stati d’aiuto al Caravaggio nel suo trasferimento e durante la sua permanenza a Roma.

Gli avvenimenti del  clima culturale milanese saranno trattati in maniera piuttosto precisa perchè giungere ad una dettagliata definizione dei suoi inizi servirà a fornire al lettore i mezzi per verificare il rapporto con la contemporanea cultura romana e  potrà tornare utile quando affronteremo la lettura dei suoi primi quadri.

Il 1584 fu un anno fondamentale  per la pittura italiana, in questa data i giovani tre Carracci iniziarono un ciclo di affreschi, quelli di Palazzo Fava, che li portò alla ribalta della scena pittorica bolognese e fece conoscere a tutti il loro nuovo modo di fare arte; essi erano tutti concentrati nel lucido sforzo di  ritrarre i soggetti dal naturale. Contemporaneamente Giovanni Paolo Lomazzo, pittore oltre che importante teorico milanese, diede alle stampe il suo libro più famoso il Trattato sulla pittura che ebbe una vasta influenza e risonanza non solo in Italia ma in tutta Europa. Infine sempre nello stesso anno: il 1584, il giovane ed allora tredicenne Michelangelo Merisi da Caravaggio entrava nella bottega milanese del Peterzano per apprendere i rudimenti della pittura ed iniziare così il suo affascinante viaggio artistico che stupì ed ancora stupisce tutto il mondo.

Giovanni Paolo Lomazzo

Il 1584 fu un anno fondamentale per il clima culturale milanese infatti fu l’anno in cui  il pittore  Giovanni Paolo Lomazzo (1538-1592) pubblicò il suo Trattato sulla pittura (dedicato a Carlo Emanuele di Savoia),  un testo che godrà di una larga fama non solo in Lombardia ma anche in tutto il panorama artistico europeo, infatti nel 1598 venne tradotto in inglese e poi parzialmente anche in francese; l’eco delle sue idee arrivò anche in Spagna e traspare nel Trattato sulla Pittura di Francisco Pacheco, il maestro di Velasquez. Lomazzo fu dal punto di vista pittorico un artista di estrazione tardo manierista influenzato dalle ricerche luministiche e prospettiche del Foppa, i cui effetti si ravvisano soprattutto nella Cappella di san Marco a Milano (3), egli ebbe fra i suoi allievi Ambrogio Figino, un pittore che il Caravaggio apprezzò e studiò accuratamente, facendo anche uso dei suoi modelli.

Fig. 1 Ambrogio Figino, Piatto metallico con pesche e foglie di vite. Coll. privata

Il Figino precedendo di pochi anni il Merisi realizzò una delle prime nature morte italiane: un piatto di pesche (Fig.1), nella quale dimostra una precisione ottica e un realismo degna della pittura fiamminga. Il suo maestro Lomazzo in effetti ebbe importanti rapporti con i fiamminghi,  tra il 1559 ed il 1565 fece molti viaggi di studio e dopo essersi recato a Roma e a Firenze andò anche ad Anversa qui conobbe Frans FlorisMaarten van Heemskerck. Inoltre lavorò anche per il nipote del più importante artista tedesco del Rinascimento Albrecht Dürer, che per un certo tempo fu attivo a Milano; per lui realizzò un Cristo sulla croce e questo forse spiega il suo persistente interesse ed il suo amore per l’arte tedesca (3). Nel 1572  quando il pittore aveva solo 38 anni divenne cieco e  fu costretto a dedicarsi all’attività letteraria di cui il famoso Trattato sulla pittura suddiviso in 7 libri costituisce la punta di diamante. In questo testo Lomazzo illustra il suo concetto di arte  appoggiandosi su alcuni principi importanti. In primo luogo pone come fondamentale la necessità dell’adesione alla apparenza naturale: un’artista si deve assolutamente attenere a questo principio che egli fissa a fondamento del suo Trattato.  Fin dalla prima pagina del testo fornisce la definizione di cosa sia la pittura in questo modo:

”La Pittura è arte, perchè piglia per regola esse cose naturali; è imitatrice, e è come a dire simia, de la natura istessa”;

dunque le rappresentazioni pittoriche per lui devono essere in primis uno specchio fedele della realtà. Un altro principio fondamentale che gli è caro è quello del legame tra la pittura e le lettere. Lomazzo è un accanito sostenitore del’idea che la pittura sia una poesia muta:

la pittura era poesia mutola. Anci pare per non so quale conseguenza che non possa essere pittore, che insieme non habbia spirito di poesia”,

e quindi deve contenere al suo interno dei concetti poetici e letterari, questo secondo caposaldo è una ulteriore chiara colonna portante del suo testo ( pag. 280-282,486,487):

La poesia è come ombra della pittura, e l’ombra non può stare senza il suo corpo che non è altro, ch’ essa  pittura”.

Questo tema verrà efficacemente illustrato ed approfondito nel sesto e nel settimo libro dove il teorico fornisce al pittore dei modelli letterari che possono servire come spunto per rappresentare le passioni umane e i temi pittorici più ricorrentiù; qui il Lomazzo riporta fedelmente ad uso dell’artista molti brani adatti a questo scopo, vi figurano Virgilio, Teocrito, Ariosto, Tasso, Bembo, Ovidio, Stazio, Pontano, Alamanni, Dante, Omero, che sono fra gli altri i protagonisti della sua colta ricerca.

La connessione tra poesia e pittura rappresenta una costante della cultura milanese del periodo (4) e quindi questo paradigma fu sicuramente assorbito dal giovane Caravaggio e molto probabilmente avrà un impatto considerevole sulla sua pittura. A questi esempi letterari Lomazzo aggiunge poi con lo stesso intento, e cioè di essere utili al pittore, nel libro VI  numerose descrizioni di come si devono rappresentare le scene nel loro complesso, ad esempio: le Battaglie, i Giochi, le Osterie, le scene di sacrificio, oppure una città con i suoi edifici, o una situazione che genera spavento o  meraviglia. Inoltre fornisce anche precisi riferimenti a dipinti e sculture realizzate da importanti maestri del passato da cui l’artista può trarre esempio per la realizzazione delle sue opere, insomma dota il lettore un una guida ed valido supporto Iconografico. A questo aggiunge anche un decalogo di simboli allegorici, di emblemi che lui chiama Ieroglifici ( Pag.438-451), cioè delle immagini a cui vengono associati dei significati ben precisi e nascosti, dando luogo così ad un vero e proprio piccolo trattato di Iconologia.

Dalla sintesi dei due primi principi fondamentali di cui abbiamo appena parlato, ciò che emerge come logica conseguenza è che un bravo pittore deve dipingere quadri ispirandosi ad immagini poetiche ed attenersi il più possibile al vero nella loro illustrazione e nel caso desideri fare delle addizioni personali queste devono essere finalizzate allo scopo di conseguire un ben preciso effetto:

la buona composizione, parte tanto principale nella pittura, che tanto ha del grave, e del buono, quanto è più simile al vero in tutte le parti. Et sè pure in alcuna parte si vuol variare, si ha da avvertire alla convenevolezza, e anco all’accrescimento dell’effetto, ad imitazione de’ poeti a quali i pittori sono in molte parti simili, massimo che così nel dipingere, come nel poetare vi occorre il furor di apolline” ( pag. 282).

Nell’ultima parte di questo brano troviamo un altro concetto veramente fondamentale del suo pensiero, laddove Lomazzo ha cercato di indagare profondamente e di comprendere che cosa sia e da dove si origina il talento artistico: l’ ispirazione,  per lui è una sorta di furore, un raptus irrazionale che guida l’artefice e lo conduce alla realizzazione della sua opera come se egli fosse fuori di sè; una nozione che deriva da Platone che  descrive il Furor poetico in diverse opere: nel Fedro, nel Timeo, nello Ione ed anche nel Convito. Quest’ultimo testo verrà adeguatamente tradotto e commentato anche da Marsilio Ficino nel Sopra lo Amore, che sarà l’opportunità per il fiorentino di riprendere il concetto del Furor platonico e rilanciarne l’idea nel periodo rinascimentale.

Facciamo questa puntualizzazione perchè Platone e Ficino furono due filosofi che Lomazzo conosceva bene e che richiama esplicitamente nel Della forma delle Muse, e la sua idea del concetto di bellezza si avvicina molto a quella neoplatonica espressa da Ficino nel Sopra lo Amore quando parla dei gradi di elevazione dell’uomo verso Dio (5).

Fondamentale nella dottrina lomazziana è poi anche lo studio dei moti dell’animo e naturalmente la modalità della loro rappresentazione; questo interesse rappresenta una naturale conseguenza del principio appena espresso sulla fedeltà al naturalismo, un tipo di attenzione che del resto accomuna tutta la pittura lombarda, così attenta e sensibile alla realtà.

Lomazzo nel suo secondo libro concentra tutti i suoi sforzi nella descrizione sia delle differenti espressività umane che dei gesti del corpo che sono segnali visibili ed altrettanto  tangibili della particolare emozione che un personaggio sta provando in quel determinato momento. Una ulteriore declinazione di questa attenzione agli aspetti caratteriali dell’uomo  che dà luogo ad un capitolo decisamente importante del Trattato è costituito dalla fisiognomica e cioè lo studio delle diverse caratteristiche somatiche umane. All’epoca si pensava che la il carattere di un uomo fosse governato dalla influenza di 4 umori o fluidi interni al corpo: Flemma, Bile Nera, Sangue, Bile Gialla, la predominanza di uno di questi fluidi dava poi luogo ai diversi  tipi psicologici e somatici umani, che non a caso appunto prendono nome dagli umori corrispondenti, essi venivano raggruppati in 4 categorie: flemmatico, melanconico, sanguigno e collerico. A questi 4 tipi corrispondono diverse caratteristiche fisiche ed attitudini caratteriali, diversi colori ed apparenza delle carnagioni, ed infine diverse passioni ed espressioni emotive,  da queste credenze deriva il fatto che l’aspetto delle persone e il loro carattere alla fine costituiscano un tutt’uno che egli chiama Complessione, l’aspetto esterno è la tangibile conseguenza di una particolare interiorità (6). La conseguenza logica di questo ragionamento è che dalla apparenza estetica di un uomo si può arrivare  a dedurre quale siano le sue inclinazioni e quindi le sue attitudini.

Infine negli altri libri, il terzo, il quarto ed il quinto, non meno importanti e di cui approfondiremo gli argomenti più avanti, il Lomazzo si dedica agli argomenti tecnici più specifici della pittura; tratta di come si costruisce la prospettiva, le proporzioni, di come si realizzano i colori e quali sono le simbologie ad essi legate, della tipologia delle luci e dei loro effetti sugli oggetti. A questo importante studio seguì un altro libro più breve che riprende molti degli argomenti già affrontati nel Trattato si tratta dell’ Idea del tempio della Pittura (1590) ed infine un terzo sempre indirizzato ai pittori ed agli scultori: Della forma delle muse (1591) dedicato a Ferdinando Granduca di Toscana, dove tratta più estesamente ed in maniera specifica di quell’argomento fondamentale di cui abbiamo accennato prima e cioè di quale sia la natura dell’ispirazione artistica che in sintesi per lui è un Furore di ispirazione divina ed in questo segue il pensiero di Ficino e di Platone (pag. 16-18) :

Chi s’accosta alla porta delle muse senza il furore è uno sciocco ... essendo  l’Energia inspiratrice  della  poetica,& dell’altre discipline & pur si suol dire senza  furore o insania non  possedersi,  o  acquistarsi e  da  simile  afflato sono pigliati  ancor  gli  indovini, …secondo il  Ficino  da  altre Muse  sono  rapite  altre anime, e  secondo  che à diverse  sfere, e stelle furon  attribuite  diverse  anime,  il  che  conferma  Platone nel   Timeo,  &  di  qui  nasce  la  diversità  de  gli  spiriti,  &  de concetti ne Poeti appresso  al  qual  Platone  l’occupatione  dinota il rapto  dell’anima,… e diviene insuperabile; perciò dopo esser rapita  supera  tutte  le  cose,  ne  può  per  alcuna  delle  inferiori  cose esser  vinta,o  macchiata, eccita  dal  sonno  i  corpi  al vigilar  della  mente, dalle  tenebre  della ignoranza alla luce, & dalla morte alla vita, & dall’oblivion  letea  alla  reminiscenza, o la cognitione  delle  cose  divine, essagita, stimula e  infiamma a spiegar in  versi le cose  che  contempla e presagisce. E  però disse il Ficino, che si  sprezzano, e si  aviliscon le muse da chi importunamente  segue  le orme loro, o ci  framette  amor  lascivo,&  di  qui  si  suol dire secondo me che il coito  loro  le  separa da  Apolline  di  qui  la  castimonia  necessaria.

Cos’è dunque l’ispirazione che guida un artista e lo conduce a realizzare opere straordinarie ? è una specie di furore,  di rapimento che estrania l’uomo dalla normalità e gli fa fare o sentire cose furi dal comune, in maniera simile a quello che accade ai profeti o agli indovini che vanno fuori di sé. L’uomo quando è in questo particolare stato l’anima si risveglia al suo essere divino e perciò assume una forza insuperabile e parlando in versi racconta le sue visioni. Lomazzo terminando il suo libro arrivando alla conclusione finale che il furore poetico  deriva di rettamente da Dio ( pag. 36-39):

il furor poetico ci insegnò Platone perciò provenirci, e inalzar la mente sopra la natura humana, e quasi che trasferirci in Dio.. Or questo Apollo non è che Dio sommo, il quale fu detto dal gran Pittagora universale.”

Lomazzo non si dedicò solo alla compilazione di libri dedicati alla pittura ma fu un personaggio che influenzò profondamente tutto l’ambiente intellettuale della Milano di quel periodo, realizzando anche opere di poesia vere e proprie (e a questo punto comprendiamo meglio il suo richiamo al legame tra pittura e poesia), egli scrisse le Rime Ad Imitazione dei Grotteschi ( 1587), composto di 7 libri, che egli chiama Grotteschi perchè gli ultimi 4  sono costituiti da poesie che sono il frutto della più libera immaginazione fantastica e visionaria, quasi di stampo surrealista, come lo furono anche le composizioni pittoriche dell’Arcimboldo, e non a caso la parola che si incontra di più nel testo frequente fu vidi, cioè descrive delle visioni.

La Grottesca per Lomazzo è il vero campo di libertà per l’ispirazione artistica:

“nell’ invenzioni delle grottesche, più che in ogn’altra, vi corre un certo furore et una natural bizarria, della quale, essendone privi quei tali, con tutta l’arte loro non fecero nulla; si come anco poco più hanno conseguito coloro, che quantunque siano stati bizarri e capricciosi, non le hanno però saputo rappresentar con arte. Perché in ciò l’una e l’altra hanno da concorrere insieme giuntamente furia naturale et arte ” (Trattato a pag.369 ).

Un’altra notazione rilevante riguarda l’utilizzo della discezionalità che i Grotteschi permettono al loro creatore, infatti essi non sono solo dei puri esercizi di immaginazione ma costituiscono anche la maniera migliore per nascondere sotto una diversa apparenza un significato occulto ma ben riconoscibile per gli accoliti.

Questo era anche il motivo per cui venivano chiamate grottesche, perchè nascondevano il loro significato nell’oscurità, Lomazzo lo scrive chiaramente a pag. 423 del Trattato:

”...egli è parere di molti dotti e esperti nelle lettere, che queste grottesche non solo siano così dette dalle grotte…; ma perchè a proposito venivano fatte non altrimente che enimmi, o cifre, o figure egittie, dimandate ieroglifici, per significare un concetto od un pensiero sotto altre figure, come noi usiamo negli emblemi e nelle imprese. Et per me credo che ciò fosse perchè non ci è via più accomodata per disegnare over mostrare qual concetto si voglia della Grottesca;”.

Quanto descritto dal Lomazzo e cioè la pratica di utilizzare delle immagini per occultare e veicolare significati nascosti non deve affatto stupire all’interno dell’ambiente milanese dato che il più grande conoscitore di questi strumenti era appunto un milanese, si tratta di Andrea Alciato che con il suo Emblemata del 1531 codificò e diffuse un ampia serie di simboli dai contenuti allegorici, il suo  libro ebbe molto successo  e se ne stamparono nel giro di un secolo almeno 20 edizioni. La necessità per la pittura di esprimere i suoi concetti più profondi attraverso un linguaggio emblematico spinge il Lomazzo ad aggiungere esplicitamente un ulteriore elemento al binomio Pittura-Poesia quello appunto dell’emblema :

dà ampia materia al pittore di far sí che egli possa esprimere in pittura il suo concetto o bezzeria che essa sia, sí come il poeta in versi, con questo ordine, che esso abbia cognizione de molti essempli di favole, enigmi, e significati, de quali l’Alciati ne è stato acuratissimo.” (Gli sogni e Raggionamenti).

Il linguaggio enigmatico fatto di doppi sensi ed allegorie era molto utilizzato all’interno delle Accademie artistiche dell’epoca che mantenevano sempre una certa atmosfera di riservatezza rispetto al mondo esterno, il parlare cifrato diviene allora una sorta di protezione necessaria a garantire che i contenuti della congregazione non diventassero di pubblico dominio, Lomazzo apparteneva appunto ad una di queste: l’Accademia della val di Blenio (dei Rabisch). Il terzo libro dei Grotteschi riveste un particolare interesse poiché vi sono contenute varie liriche dedicate ad alcuni letterati che ci pemettono di comprendere quali erano i riferimenti poetici di Lomazzo, troviamo in primis un sonetto dedicato all’importante poeta napoletano Jacopo Sannazaro, ideatore dell’Arcadia, che probabilmente gli fu congeniale per il suo richiamo alla naturale spontaneità dei suoi personaggi (7), un altro invece è indirizzato al poeta milanese Giuliano Goselini che fu uno degli amici più vicini al Lomazzo e da ultimo il lombardo dedica una poesia al poeta perugino Cesare Caporali (1531-1601).

Il Caporali fu una figura di spicco della Accademia perugina degli Insensati di cui faceva parte con il soprannome de lo Stemperato, era uno dei poeti più importanti di quella Accademia assieme al Tasso, al Guarini ed Aurelio Orsi, fu in rapporti di amicizia anche con Cervantes che si ispirò ai suoi lavori in un opera,  Lomazzo potrebbe anche averlo conosciuto di persona dato che condividevano lo stesso stampatore: il milanese Pietro Tini che nello stesso anno: 1585 pubblicò sia il suo Trattato della pittura che le La Piacevoli Rime del Caporali. Simile per intonazione ai Grotteschi è il successivo Rabisch cioè Arabeschi che il Lomazzo pubblicò nel 1589, pochi anni prima di morire nel 1592, è scritto in lingua dialettale bregnese, si tratta di un testo dove dove le poesie che sono contenute narrano i fatti relativi alla Accademia della Valle di Blenio. Inizialmente la lettura di questo  testo dovette essere riservata agli appartenenti alla Accademia, come scrive Barbara Tramelli:

It is fairly reasonable to assume that the Rabisch was supposed to be read in the context of the Accademia de la Val di Blenio and that it was most probably not aimed at a wider audience” (8) .

Lomazzo a partire dal 1568  fino alla sua morte ricoprì la carica più importante in seno all’Accademia, ne fu l’Abate e proprio in queste vesti si raffigurò in un autoritratto, adorno di tutti i suoi attributi accademici e  carico di simboli bacchici,  indossa uno strano costume che lui stesso descrive nei suoi poemi. Le loro riunioni erano segrete e nessun esterno vi poteva partecipare, tutti gli aderenti avevano un  soprannome accademico che non poteva essere utilizzato fuori del consesso e tantomeno si poteva pubblicare qualche documento senza l’approvazione del Consiglio Accademico, queste sono regole che del resto valevano generalmente anche per tutte le altre Accademie italiane (9).

L’accademia della Val di Blenio

L’accademia della Val di Blenio fu veramente la realtà culturale più innovativa della Lombardia dell’epoca, venne fondata  nel 1560 circa ed era composta da artisti dei più svariati generi: ricamatori, scultori, poeti, intagliatori, pittori, incisori,  ingegneri, musici, gioiellieri, bronzisti, ed anche attori di teatro, come Simone da Bologna della compagnia dei Gelosi, che fu uno dei più apprezzati interpreti dello Zanni (un facchino bergamasco), la maschera più famosa della commedia dell’arte, (10), tutto questo avvenne all’insegna di un reciproco incontro fra le arti senza un ordine gerarchico. Questo consesso era nato sotto gli auspici favorevoli di un nume tutelare: Bacco, il loro sigillo creato da Annibale Fontana recava una immagine di Bacco seduto sopra il suo carro trainato da due tigri, al di sotto del quale si leggeva il loro motto: “Bacco inspiratori”(11)  la loro ispirazione artistica dunque proveniva dal vino scintillante.

Gli accademici in qualche modo ricercavano un ritorno allo stato naturale e fingevano di essere dei rozzi facchini, per giustificare i loro modi e la loro espressività che doveva nascere in maniera spontanea e quasi umile, senza condizionamenti culturali, un fatto che si riflette nel tono burlesco delle loro opere. Le loro riunioni venivano chiamate gniregada e cioè conviti (12)  e qui possiamo ritrovare una tradizione che risale ai tempi dei greci quella dei banchetti conviviali dove il consumo del vino era considerato un momento centrale, bere favoriva la loquacità e  durante lo svolgimento di questi banchetti si recitavano poesie si cantava e si suonava. Così deve essere accaduto anche nei ritrovi degli accademici Rabisch, anche se in forma un po’ più grezza e per certi versi parodistica, erano infatti di prassi  le bevute di vino tutto d’un fiato, fatte per mezzo di un apposito recipiente chiamato il galiglion (galeone) che passava di mano in mano durante le serate, queste loro usanze volutamente un po’ rozze avevano anche lo scopo di infrangere le regole formali che esistevano in quel periodo. Questo loro comportamento rustico e disadorno dunque non va interpretato come amore per il brutto o per lo sgraziato, ma bensì come un gesto di protesta contro un certo tipo di “cultura  alta”, elitaria e idealistica ma ormai sfibrata, una posizione critica che emerge chiaramente anche nei Grotteschi  (13) .

Si tratta di un energico richiamo alla concretezza della realtà realizzata attraverso l’esaltazione dell’estremo opposto, insomma predicavano un bagno di umiltà, ed appunto l’umiltà era una delle caratteristiche principali richieste ai facchini e in quest’ottica va anche inquadrato il profondo interesse per il realismo che il Lomazzo esprime nel suo Trattato. Il loro intento era dichiaratamente in opposizione al sofisticato ed ormai stanco classicismo manierista (14) che mutuava solo le forme del classico ma ne aveva smarrito lo spirito.

Si può citare a questo proposito l’ironica serie degli dei greci creata da Ambrogio Brambilla che li raffigura tutti dotandoli di una straordinaria bruttezza in luogo della perfezione estetica di cui essi sono l’incarnazione nel mondo antico, una operazione che non va intesa solo come ironia burlesca ma che piuttosto come abbiamo appena detto è un solido richiamo alla realtà indirizzato ad una cultura che si stava dimostrando eccessivamente distaccata dal mondo concreto. L’intento parodistico è qui teso a sgonfiare la superbia di una forma di erudizione che si sente elitaria e superiore e che Lomazzo chiama dei pedanti (15), per ricondurla alla più nuda e vissuta verità, alla comune e sincera quasi ingenua umanità, il suo sforzo è teso tesa a far ritorno dall’ olimpo alla terra  ed in questo si vede già l’incipit dell’atteggiamento mentale del Caravaggio nei confronti dei modelli classici. Lo stesso dicorso vale anche per quanto riguarda la forma delle rappresentazioni cristiane, infatti come scrive nei suoi Sogni e Raggionamenti (1563) Lomazzo avrebbe voluto ritrarre gli apostoli come erano e cioè dei pescatori, con volti abbronzati ed i piedi polverosi, una cosa che poi il Caravaggio farà davvero quando sarà chiamato a rappresentare dei pellegrini o San Matteo, nell’approccio di Lomazzo dunque possiamo già davvero percepire in nuce quello spirito che animò la pittura caravaggesca.

Brambilla fu come il Lomazzo, un’esponente di assoluto rilievo dell’Accademia della Val di Blenio di cui fu il creatore e il Gran Cancelliere (16), nel 1575 si trasferì a Roma dove rimase fino alla morte nel 1599, in quella città continuò la sua opera di incisore producendo delle stampe popolari intrise di una vena satirica, come l’albero della pazzia, l’albero della fortuna, le scene della commedia dell’arte, alcune  teste arcimboldesche  e caricaturali, le rovine romane antiche con scene bacchiche ed i venditori ambulanti di Roma, nel 1579 fu anche ammesso fra i Virtuosi del Pantheon. L’opposizione alla formazione dominante è anche il motivo per cui la cultura “normalizzata”, sostenuta dai cardinali Borromeo e Paleotti non vedeva certo di buon occhio questa tipologia di pittura nè tantomeno il genere ridicolo o caricaturale pure così amato dagli accademici. In realtà il Lomazzo non era affatto rozzo ma anzi all’opposto era molto colto come si desume dalla ampiezza delle conoscenze che emergono nei suoi scritti, e da teorico e propugnatore dell’importanza dell’ispirazione poetica quale egli era sicuramente non ignorava che il Problema XXX dello pseudo-Aristotile tratta della capacità del vino di ispirare quell’entusiasmo febbrile, talvolta alternato alla tristezza che lo rende così simile al carattere malinconico, che ispira il poeta. Lo dimostra il fatto che il furore così come il vino sono i protagonisti del suo libro Rabisch, dove nel frontespizio scrive a mò di introduzione: “Guarda qui il viso, e il mio furore dentro all’opera”.

Fig.2, Annibale Fontana, Medaglia con ritratto di Giovanni Paolo Lomazzo, circa 1560

Il Lomazzo stesso lo ribadisce ancora il concetto  riferendosi ad un altro suo ritratto in forma di medaglia (fig.2) dove è  vestito solo con una tunica e cioè all’antica, riguardo al quale esplicitamente dichiara che  il tema è il furore: “un mi ritrasse in furor di luna”. In un altro suo autoritratto giovanile che è conservato a Vienna si ritrare ancora una volta come nella medaglia e cioè vestito all’antica con una tunica bianca. Probabilmente tutte queste opere  sono da interpretarsi come un richiamo alla tradizione greca del furore poetico e bacchico.

Si può anche pensare che Lomazzo su questo tema si sia ispirarto ad un importante poeta greco: Anacreonte   (Pseudo Anacreonte) che nei suoi componimenti fa frequente riferimento a questi suoi temi tipici  appunto il vino e il  furore poetico. Questo fu un autore che sicuramente Lomazzo conosceva dato che viene citato nel prologo dei Grotteschi, in una poesia di Lorenzo Toscani che ricopriva uno dei ruoli più importanti fra gli accademici Rabisch, era un Difensore. Compà Toscagn nella sua poesia elenca i poeti greci più famosi attribuendo proprio ad  Anacreonte il merito di essere stato il primo cantore del vino e di Bacco, temi di certo congeniali all’interno della Accademia, che  non doveva essere affatto ignara della poetica di Anacreonte. Leggiamo a questo proposito alcune delle poesie di Anacreonte (pseudo), una prima e dedicata proprio ad un pittore che nei suoi dipinti celebra la divina esaltazione delle baccanti e le altre dove descrive il suo temperamento e le sue attitudini:

 Ad un pittore

Della musa i poetici accenti / Tu seconda, valente pittore,m / Fingi pria le città ridenti, / Poi le allegre festose Baccanti, / Che alle tibie maritano i canti, / Agitate da sacro furor. / E se l’arte mai tanto potesse. / Tu dipingi le guerre le paci, / Con cui regge i suoi fidi seguaci / Fra i misteri il gran nume di Amor.

Sopra se stesso

Ode XIII

Il misero Ati, / Fanciullo Frigio, / Fu visto correre / Dal monte al pian. / Fra gli ululati / L’insano giovane / Ognora Cibele / Chiamava invan. / Del Claro l’onda / Cara ad Apolline, (/ L’onda fatidica / Chi beve talor, / D’insania abbonda, / Ed urla e smania / Pien di poetico / Sacro furor. / Il sen satollo / Di vin purpureo, / D’unguento Assirio / Stillante il crin; / Stringendo al collo / La ninfa amabile, / Anch’io d’insania / M’accendo alfin.

Sopra se stesso

 Ode XXV

Quando lieto il vin tracanno / Ogni affanno ― dorme allor; / E sen fugge ogni pensiero / Tristo e nero ― dal mio cor. / Ancorch’io mi viva in pene, / Mi conviene ― alfin morir. / Che mi giova / nell’errore / Viver l’ore ― in avvenir? / Ah non più, ch’io mi ricreo / Di Lieo ― col buon liquor: / Quando lieto il vin tracanno, / Ogni affanno ― dorme allor.

Giuliano Goselini

Uno dei più importanti studiosi della poesia anacreontica fu un amico e un mecenate del Lomazzo: Giuliano Goselini, se Lomazzo fu senza dubbio il personaggio più rilevante della Milano di allora per quanto riguarda la teoria artistica, Goselini lo fu nel panorama poetico (17).  Non a caso i due formarono un importante sodalizio sia dal punto di vista personale che artistico, dato che il Goselini fu il più importante committente del Lomazzo e sempre lo protesse dato l’importante ruolo di potere che Goselini esercitava a Milano di cui abbiamo già accennato più sopra.

Il Goselini era originario di Roma dove nacque nel 1525, città dove avvenne anche la sua formazione culturale presso corte del Cardinale Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora (18), fratello di Faustina Sforza la marchesa reggente di Caravaggio. Il Cardinale nacque anch’egli a Roma  (o a Parma) nel 1518 , era figlio di Costanza Farnese ( figlia naturale del papa Paolo III Farnese) e di Bosio II° Sforza di Santa Fiora, ricevette la porpora cardinalizia nel 1534 assieme al cugino, compagno di studi ed intimo amico Alessandro Farnese Junior appena dopo l’elezione del nonno a Papa, di cui i due cugini furono i cardinal nepoti; nel 1535 ricevette la carica di Amministratore apostolico della città di Parma mentre Alessandro ne divenne il Vescovo.

Il cardinale Ascanio faceva di fatto parte della corte Farnese di Roma, anche i suoi genitori risiedevano a Palazzo Farnese, è presumibile dunque che anche il Goselini ricevette la sua formazione nell’ambito di questa corte. Nel 1546 egli divenne il segretario di Ferrante Gonzaga quando quest’ultimo fu nominato governatore di Milano, a partire da  questo momento egli ebbe sempre, tra alti e bassi, un ruolo politico importante nel ducato dove era membro e segretario del Consiglio segreto del Governatore ed in questa città poi morì nel 1587.

Goselini e Lomazzo, erano in ottimi rapporti di amicizia dato che il primo gli commissionò sia il ritratto della moglie Chiara (Vita di Lomazzo) che l’Orazione nell’orto per la sua cappella in Santa Maria dei Servi a Milano. Per Barbara Tramelli, che ha effettuato il più aggiornato ed approfondito studio sul Trattato di Lomazzo pubblicato nel 2017,  fu proprio il Goselini ad aiutare il Lomazzo nella creazione del suo Trattato, dove si pubblica anche un suo componimento (19) e sempre secondo la Tramelli  Goselini fece anche lui parte alla Accademia della Val di Blenio; dello stesso parere sono anche  Giacomo Berra e Cesare Mozzarelli, e a riprova di questo fatto si può notare che Lomazzo dedica al Goselini una delle poesie contenute nella raccolta dei Rabisch: Ar Signò Sluriglian Goseglin Poglita Famos (pag.58), (20). Alla poesia dei Rabisch dedicata al Goselini ed a queste notizie occorre aggiungere anche l’esistenza di un altro poema contenuto nei Grotteschi che parla del Goselini, (un testo che si concentra sul rigetto per l’ imbellettato e oramai morente mondo dei dotti e pedanti), si tratta di una citazione che ha una notevole  importanza ai fini del nostro discorso e che qui riportiamo:

FRONDI,ombre,herbe,antri, fiori e aure soavi./Han d’ogn’intorno si inveschiato il mondo/Che per dispetto l’or da capel biondo/il nome ha tolto ne’ moderni Savi./Con tal capriccio che li Dotti schiavi/Si trovar morti del mar profondo:/Pel’ Goselin, che ritrovò nel fondo/De la virtù tutti i sonetti gravi.Et d’intorno cercando con sua rete,/Raccolse de li Savi ciascun detto, /Et fè il nome di molti illustre e chiaro….

Nella poesia si fa riferimento ai moderni Savi che sono i sette Savi dell’Accademia dei Rabisch, cioè dopo l’Abate i personaggi più importanti della Accademia. (21). Nella poesia Lomazzo descrive il fatto che fu il proprio il Goselini  a raccogliere le massime dei 7 Savi della Val di Blenio e come dice Dante Isella, considerando che non si poteva assistere alle riunioni se non si faceva parte della Accademia questo vuol dire che  il Goselini ne faceva parte. Al di là di queste considerazioni, gli accademici lo conoscevano sicuramente molto bene ed erano tutti ben coscienti del suo valore, nella poesia dei Rabisch a lui dedicata Lomazzo lo celebra come la meraviglia del suo secolo, la cui grandezza delle sue doti  desta lo stupore di tutti gli accademici di Blenio, e la sua fama va spargendosi anche per il mondo, evidentemente egli era a conoscenza della stima che il Goselini godeva anche al di fuori del territorio lombardo. In effetti Goselini ebbe un ruolo importante nell’ambito del panorama poetico italiano, dato che riportò in auge e diffuse la poesia Anacreontica, come scrive Lorenzo Sacchini:

Goselini fu tra i primi e più convinti imitatori di Anacreonte e contribuì in maniera determinante alla sua riscoperta“.

Il poeta greco Anacreonte celebrava nei suoi carmi i banchetti conviviali, Bacco, il furore del vino e dell’amore, la bellezza, la pittura, e  la musica, egli era infatti un citaredo e cantava i suoi poemi accompagnandosi con la cetra, poichè la poesia è una questione di ritmi, di tempi, per questo i suoi componimenti erano ritenuti i più adatti ad allietare i conviti. La  riscoperta del poeta greco ebbe una eco rilevante, sia nell’epoca barocca che in quella rococò tanto da divenire uno dei poeti di riferimento dell’Arcadia (cfr. Dizionario Treccani ad vocem).

Viene dunque ora da porsi un interrogativo circa la forte coincidenza tra i temi cari ai Rabisch e gli argomenti tipici della poesia anacreontica di cui Goselini era uno dei più importanti conoscitori, riguardo ai quali non è improbabile, sia stato proprio lui uno dei promotori all’interno dell’accademia. Il contenuto più autentico del pensiero del milanese si fa palese nella Dichiarazione di alcuni componimenti (1573) dove egli spiega in maniera esplicita i significati nascosti nelle sue poesie delle Rime. Il primo dato importante che emerge con chiarezza è appunto che Goselini fu un acceso sostenitore del furore poetico esattamente come il Lomazzo. Il suo testo è stato ben analizzato da Armando Maggi che inizia ragionevolmente il suo studio dal sonetto che il Goselini stesso dichiara contenere “l’argomento di tutta l’opera”. Maggi scrive a questo proposito:

L’allusione al lauro (nda contenuta nel sonetto introduttivo alle Rime ) che come spiega nella Dichiarazione: Appresso agli antichi era sacro ad Apolline e simbolo di profezia e di Poesia che non è altro che vaticinio, introduce il concetto caro ai platonici, ed alla Poetica del Patrizi in particolare, della poesia quale furore e vaticinio, concezione ben al di là del mero diletto di cui Goselini aveva fatto menzione dell’epistola dedicatoria” (22)

Si propone dunque a fondamento dell’opera l’idea di una poesia ispirata dal furore, del tutto identica a quello espressa dal Lomazzo e dal Patrizi. Quest’ultimo precisa ulteriormente come il furore poetico porti naturalmente all’elevazione dell’anima, nel suo Commento sulle Rime di Luca Contile, che come il Goselini fu un’appartenente all’Accademia dei Fenici (23)

 Il Goselini addentrandosi nella definizione dettagliata della nozione di  furore analizza un altro  sonetto che spiega, utilizzando i concetti contenuti in alcune opere di Platone: Fedro, Convito e Ione, dimostrando una erudizione profondissima sia della teoria platonica che di quella elaborata dal Ficino che è contenuta nel  Sopra lo Amore di cui cita esplicitamente i passi. Nel suo testo il filosofo fiorentino risolve il problema circa la natura del furore poetico, dichiarando che tutti i tipi di furore (che sono quattro) discendono da quello per il Divino e da questo sono tutti ispirati.

Questo testo ficiniano descive la teoria secondo la quale esiste una scala ascendente dei 4 diversi tipi di Furore a cui può essere soggetto un uomo: il Poetico ( delle Muse), il Misteriale (da Bacco), quello della Profetico (da Apollo) ed infine al sommo vi è il furore amatorio (da Venere) che fa tendere l’uomo all’amore per il divino. .Questa distinzione in scala ascendente dei 4 differenti furori dove al sommo vi è quello amatorio è ripresa precisamente dal Goselini nel sonetto Se da divin furore al ciel rapito ( pag.159) dove in così argomenta:

Et sono di quattro sorti furori.. Ma tanto è l’amatorio più degli altri vehemente quanto ne la Poesia, ne il misterio, ne la Prophetia si possono conseguirer senza il mezo di un assiduo, et ardentissimo studio, et culto di Dio, che non è altro che Amore. Adunque di questo furore amatorio ragiona in questo luogo l’autore: la sua donna con la speranza di quei premi che agli amanti son promessi su in cielo…Et dice chi ama esser rapito a la celeste patria…”.

Per Ficino il campione di questo sommo furore, quello amatorio fu proprio il poeta più amato  (non a caso) dal Goselini : AnacreonteMa dal furore amatorio, spezialmente sopra gli altri furono rapiti Saffo, Anacreonte e Socrate.”.

Egli è il perfetto esempio del furor amatorio terreno che è il precursore di quello vero, quello per  il divino:

Il vero Amore non è altro che un certo sforzo ’di volare a la divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza. Lo Amore adulterato, è una rovina da ’l vedere a ’l tatto ” . (24) 

La bellezza terrena che ci attrae ed eleva verso la superna bellezza: i sensi sono solo un mezzo per pervenire ad essa, e se male intesi diventano un ostacolo impedendoci l’ elevazione perché ci fanno concentrare sui beni terreni (Amore adulterato). Ficino dunque ci mette in guardia sui pervertimenti dell’amore che il mondo carnale e corporeo è capace di generare per effetto e  sotto il dominio dei sensi: essi hanno la capacità di far entrare l’uomo in una specie di un torpore, di sonno, dal quale il furore poetico è in grado per primo di farlo risvegliare. Il Goselini è perfettamente cosciente di questo problema e spiega gli effetti nefasti  che i 5 sensi producono sull’uomo (Pagg. 22-34, 172, ) distinguendoli in due categorie, gli Inferiori: Tatto, Gusto, Olfatto, troppo intrinsecamente legati al mondo materiale, e i due Superiori: Vista e Udito che possono invece metterci sulla strada giusta; è attraverso questi ultimi che la bellezza può penetrare nell’animo e quindi elevare spiritualmente l’uomo, questa distinzione è stata creata da San Tommaso d’Aquino, ed è caratteristica della filosofia Tomistica, (25).

Goselini a questo riguardo porta l’esempio della donna bella che accende negli uomini l’amore profano: la libidine, e purtroppo la maggior parte degli uomini si ferma a questo stadio e non va oltre, non s’innalza a livelli superiori, per lui Narciso diventa dunque il simbolo di questi uomini che non vanno altre l’apparenza dei sensi:

Onde par che quelli veramente s’inganino, che come Narciso, s’innamorano de l’ombre ne l’acque:e cioè de le sole bellezze corporali, che come l’acque, et l’ombre sono labili et fugaci; ne s’inalzano.” (pag. 34),

e riguardo alle specie dell’Amore aggiunge:

De le due sorti d’Amore, che si ritrovano, cioè divino, et humano; il divino non admette sorte alcuna d’imperfettione: ma l’humano come ogni altro dolce è misto con qualche amaro”.

Questa idea che il piacere corporale sia un misto di dolce ed amaro  (pagg. 41, 147, 171) è una precisazione  importante sulla quale avremo modo di riflettere più volte in seguito, così come  avverrà per quanto riguarda l’importante simbolo del Narciso.

Il milanese all’opposto intende attraverso la celebrazione della bellezza corporea elevare il lettore verso una bellezza superiore e non terrena, come spiega in un sonetto che riprende una idea di Anacreonte (pag.22) dove scrive :“Và l’autore sollevando l’animo del dipintore al cielo e da le terrene bellezze allontanandolo”( pag.26), ed aggiunge poi :”dice l’autore che cantando la sua Donna, egli s’innalza col pensiero a la Mente divina, a le celesti idee( pag.70).

Il  Goselini  è dichiaratamente consapevole della necessità di abbandonare il mondo ingannevole dei sensi che ci trattengono dal raggiungere  la bellezza divina, di cui la bellezza della sua Donna è mediazione e riflesso e questo è anche il motivo della struttura ascendente  impressa sua Dichiarazione, dove  si passa dallo stato iniziale di uomo carnale immerso nel mondo dei sensi e degno di morte a quello finale celeste degno di vita (26). Per raggiungere questo scopo occorre compiere un cammino ed un lavoro di purgazione attraverso l’esercizio delle Virtù Morali e di quelle Teologali (cfr. Dichiarazione pagg. 282, 288) che ci permettono di tendere verso quella perfezione che non si può acquistare se non per Grazia (cfr. Dichiarazione pag. 291 (27).

Il pensiero sottostante al corpus poetico del Goselini e che lo sostiene è dunque molto  raffinato, denso di simboli e di rimandi nascosti e colti, che come osserva il Maggi lo pongono nell’alveo del sapere neoplatonico, tutto il contrario dell’apparente semplicità dei suoi componimenti che in maniera quasi monotonica parlano apparentemente solo del suo amore per una donna cantandone la bellezza.

La verità nel suo libro è celata per mezzo di un discorso allegorico, ma dietro questa superficiale apparenza  sta una profondità molto più complessa che egli stesso si preoccupa di spiegare nella Dichiarazione: la bellezza della sua donna discende da quella divina e l’amore per lei lo trasporta verso quello per il divino: questo è il vero tema portante delle sue Rime. Nell’ottica della filosofia neoplatonica, il furore poetico e quello bacchico, che sono le qualità così affannosamente ricercate ed esaltate dal Lomazzo, sono i primi gradi della scala dei furori, mentre  il  furore amatorio invece così esaltato dal Goselini rappresenta il tipo di furore di grado più alto, che conduce a quello sommo: all’Amore del divino.

Le relazioni del  Goselini  col  panorama poetico italiano

Come abbiamo appena visto il poeta Anacreonte riveste un ruolo simbolico non trascurabile all’interno della filosofia di Ficino, così come avviene nel pensiero del Goselini che  condivide il merito della sua riscoperta con un’altro importante letterato: Torquato Tasso, che faceva parte della Accademia perugina degli Insensati. Anche  all’interno di  quest’ultima si diffuse  quindi la cultura della celebrazione dei temi cari ad Anacreonte come ad esempio quello del vino; questo aspetto emerge nelle composizioni di almeno tre dei suoi più importanti poeti ed affiliati: Alberti, Massini e Bovarini (28).

La fama del Goselini, proprio come ci racconta il Lomazzo uscì ben presto dai confini lombardi e alcune sue poesie vennero stampate in una raccolta: Le Rime piacevoli  del poeta Cesare Caporali che fu uno degli esponenti di spicco della Accademia degli Insensati, vi figura anche il bernesco Mauro e all’altro  importante poeta perugino, il Coppetta, e soprattutto sono presenti anche agli altri appartenenti alla Accademia degli Insensati con cui il Goselini era certamente in rapporti.

Il libro del Caporali venne dedicato alla casa Farnese e stampato a Parma nel 1582 presso Viotti un editore di cui si servirà anche un altro insensato, Aurelio Orsi che aveva frequenti rapporti con la città ducale nella quale per un certo periodo si stabilì dato che faceva parte della corte Farnese.  Proprio come si proponeva di fare il Goselini, questi accademici perugini avevano come obiettivo il ripudio del mondo dei sensi che inducono alla morte spirituale, essi all’opposto  ricercavano l’elevazione verso la Virtù celeste; risultano dunque evidenti le consonanze fra le loro linee di pensiero.

Alla prima edizione ne seguì una successiva terza edizione stampata a Milano per i tipi di Pietro Tini nel 1585, ed il libro questa volta fu dedicato dall’editore a Giovanni Geronimo Marino e a Pirro Visconti che fu membro dei Rabisch e protettore dell’Accademia della Val di Blenio. Oltre al Goselini fu incluso anche un altro importante poeta milanese: Gherardo Borgogni che fu un membro di spicco della Accademia degli Inquieti fondata dal marchese di Caravaggio Muzio Sforza Colonna.

Borgogni dedica le sue rime al Goselini, ad Ambrogio Figino, a Pirro Visconti che sarà il suo protettore, ed anche al poeta insensato Filippo Alberti; evidentemente il Borgogni fu in rapporti anche con lui dato che poi pubblicherà una poesia dell’Alberti  nella sua raccolta  Le muse toscane (1594). Nelle Rime piacevoli sono contenute le poesie degli Insensati: Caporali, Alberti, Aurelio Orsi, Tasso e Guarini. Anche con quest’ultimo il Goselini era in ottimi rapporti di amicizia come si evince dalle lettere del 1581 contenute nel volume: Lettere del signor cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese (1615), assieme alle lettere si scambiano poesie e reciproche dichiarazioni di stima (pag.107-110) : Celeste il pensier vostro al ciel sovente…(del Goselini) ; Con voi tant’alto il pensier ardente…(del Guarino); componimenti che compaiono anche nelle Rime del milanese. Le consistenti relazioni personali con gli appartenenti alla Accademia degli Insensati sono ulteriormente confermate dal rapporto esistente con Filippo Alberti, che il Goselini probabilmente conobbe  in occasione della stampa a Milano del libro del Caporali. Questa potrebbe essere stata l’ opportunità  anche per un incontro tra il Lomazzo ed il Caporali propiziato per il tramite del Goselini o dell’editore, dato che Tini stampò  sia i libri del Caporali che del Lomazzo. Il Lomazzo dedicò proprio al Caporali una poesia dei suoi Grotteschi che nel testo è consecutiva a quella dedicata al Goselini ( pag.152):

Al  Sig.  Giuliano  Goselini

Dal  consento  che  in  ciel le  vaghe  suore /Fan  co’  loro  dei  uniti  in  ciascuno coro, / Discende  in  voi  l’ ornato  almo  lavoro. / Che  vi  fa  colmo  del  celeste  amore. / Onde  a  tante  virtù  v’accende  il  cuore, / Che  co’  spirti più  rar  cinti  d’alloro; / Ve’n  gite  a  volo  qual  cigno  canoro; / Come  spiegan  le  rime  alte  e  sonore. / Ove  d’  armi  e  d’amor  cantate  cose / Per  sentenze  e  invention  si  scorte  e  rare / Che  spirto  ognun  vi  stima  pelegrino, / Ben  già  molti  anni  a  gl’  occhi  miei  v’ascose / Iddio ; ma’l  cor  non  resta  di  chiamare / De  le  Muse  il splendor gran  Goselino .

A Cesare Caporali

Poco anci ebbi vision istrana e pazza / E fur le esequie ch’el gran Caporali / Fè a Mecenate, vi i savi principali / Gian di Parnaso in una larga piazza / I romanzi seguivan; e la mazza / Portava il Pulci con bei passi eguali, / L’Ariosto il stocco, e con le man reali / L’elmo il Boiardo, e’l Tasso la corazza. / Il Pegaseo per l’alta chioma havea / Il  Petrarca,  &  la  fama  con  sue trombe, / E  gli altri  che  al  gran  Duca fur  cantati, / Questo  è  quel  grande  che’l  conto  tenea / Di  tutti  quei,  a  cui  come  a  colombe / Di  poggiar  fino  al  ciel  dieder  i  fati.

Il  rapporto tra il Goselini e l’Insensato Filippo Alberti fu molto solido infatti il perugino lo considerava come il suo il suo maestro per quanto riguarda la poesia anacreontica; questo autore greco fu riscoperta proprio per merito del lombardo e del Tasso che faceva parte degli Insensati, questo speciale interesse dunque legava il Goselini a questi accademici perugini. Proprio a lui l’Alberti dedicò diverse poesie e seguì il suo esempio sulla strada dello studio della poesia di Anacreonte di cui si cimentò ad imitare lo stile già nelle Rime piacevoli. A riprova dello stretto rapporto esistente fra i due, nelle sue Rime l’Alberti ne incluse una a lui dedicata: Al Sig. Giuliano Goselini: De la vostra dolcezza effetti son le rime mie…a cui seguì la risposta poetica del Goselini:  In risposta a quello che comincia… L’Alberti scrisse anche una lirica in suo onore per celebrarlo in occasione della sua morte: Nel Sepolcro del Sig. Giuliano Goselini. A questi consistenti relazioni con gli appartenenti agli Insensati si deve aggiungere anche il fatto che un’altro importante accademico, Aurelio Orsi (suo fratello Prospero fu un protagonista fondamentale del successo del Caravaggio a Roma), dedicò una poesia proprio al Goselini includendola nei suoi  Carminum.  L’incontro tra i due potrebbe essere avvenuto in concomitanza con la prima edizione delle Piacevoli Rime  a cui parteciparono entrambi (29), che furono stampatate a Parma nel 1582 da  Viotti che fu anche l’editore del libro dall’Orsi: Poemata .

Il poeta romano ebbe frequenti relazioni con la città ducale nella quale si recò molte volte per ragioni di lavoro dato che faceva parte della corte dei Farnese e proprio in questa città finì per stabilirsi per alcuni anni poco prima di morire; sua sorella sposò un membro di una famiglia di Parma, i Vittrice, che ebbero un ruolo importante come collezionisti delle prime opere romane del Caravaggio. Anche la seconda stampa delle Rime piacevoli avvenuta a Milano nel 1585, potrebbe essere stata l’occasione per conoscere il Goselini e sua moglie,  a cui l’Orsi si rivolge nella poesia dedicata a commemorare il marito, dove la chiama con precisione Alba, (la moglie del Goselini si chiamava Chiara), esattamente come la chiama Alba anche l’Alberti nella sua poesia in morte del Goselini. Come il Goselini anche Aurelio Orsi aveva ricevuto la sua formazione sotto la protezione dei Farnese, fu infatti il Cardinale Alessandro Junior, cugino di Ascanio Farnese presso cui si formò il Goselini, a farlo entrare nel seminario romano nel 1639 e poi ad impiegarlo presso di lui. Al di là del comune editore e dell’interesse per la poesia, l’Orsi e il Goselini, entrambi romani e cresciuti culturalmente alla corte Farnese, avevano anche un altro importanti motivo per conoscersi: il loro lavoro,  infatti l’Orsi era il segretario del cardinale Alessandro Farnese con cui  Goselini nella sua veste di segretario del Governatore di Milano aveva per dovere istituzionale dei rapporti diretti, come risulta dalla missiva (pubblicata nelle sue  Lettere) che il lombardo indirizza al cardinale.

Conviene a questo punto approfondire ulteriormente l’importanza della  sua figura anche a livello politico dando una rapida occhiata alle sue Lettere e alle Rime, per comprendere con quali altre personalità, oltre quelle già citate,  era in relazione, ovviamente era in ottimi rapporti con i Farnese: Ottavio, Ranuccio, il duca  Alessandro, ed il Cardinale Alessandro Junior, poi con papa Gregorio XIII Boncompagni, papa Sisto V Peretti, San Carlo Borrromeo, Vespasiano, Ottavio e Ferrante Gonzaga, i Medici, i Visconti, Ambrogio Figino, Giraldi Cinzio, Bernardino Baldini, a Gerolamo Cardano, vi è infine una lettera indirizzata ad un poeta di nome Filippo che gli aveva inviato un sonetto,  potrebbe trattarsi dell’Alberti, vi è da aggiungere che entrò in rapporti diretti anche con Filippo II re di Spagna che gli garantì una pensione annua di 200 scudi, è fuor di dubbio quindi che si trattava di una personalità politica di primo piano (30).

Goselini si occupò anche delle arti visive, infatti fu l’ideatore del programma iconografico composto da statue ed affreschi che adornavano il Ninfeo costruito alla fine degli anni ’70 del ‘500, nella villa Belvedere di Antonio Londonio. Alcune di queste  sculture vennero successivamente acquistate da Pirro Visconti per la sua villa-ninfeo di Lainate, che fu un luogo molto importante per i Rabisch e per il Lomazzo (31). Goselini fu sicuramente in ottimi rapporti anche con Pirro Visconti dato che una delle sue poesie è dedicata proprio a sua moglie Luigia Camilla Marini.

Il Visconti fu il principale protettore degli accademici della Val di Blenio, a lui il Lomazzo dedicò il libro dei Rabisch e il programma iconografico del suo ninfeo risente pienamente delle tematiche di questi accademici ed è stato realizzato dai suoi appartenenti. Tra le le più antiche fonti storiche che descrivono il ninfeo figurano le poesie composte da due accademici Insensati: Tommaso Stigliani (nelle Rime) e Filippo Massini e questo la dice lunga sui rapporti tra l’ambiente dei Rabisch e degli Insensati; anche due importanti pittori insensati visiteranno il ninfeo: Giovanni Guerra e Federico Zuccari.

Il Massini nelle sue poesie celebre il vino e lui stesso vorrebbe essere un “vinoso Anacreonte”; la composizione di questi carmi dovette risalire agli anni antecedenti al 1589, lo si comprende da una poesia di Aurelio Orsi  dedicata al Massini ed al suo libro di poemi dedicati al vino (In Masini Librum; Carminum 1589). Insomma per concludere sono decisamente ben fondati i legami sia a livello personale che di pensiero tra il Goselini e gli accademici Insensati di Perugia, e tra questi ultimi ed  il protettore dell’Accademia della val di Blenio: Pirro Visconti.

Muzio II Sforza

Un altro uomo di cultura degno di nota di quell’epoca fu senza dubbio  il marchese di Caravaggio Muzio II Sforza, che nel ’94 fondò la prima vera e propria Accademia milanese, quella degli Inquieti, accogliendo fra le sue file due degli esponenti di spicco dei Rabisch: Giovan Battista Visconti ed Antonio Tassani (32) . A questi nomi si deve aggiungere anche Gherardo Borgogni che come abbiamo visto partecipò alle Rime Piacevoli del Caporali ed era in rapporti con Filippo Alberti.  La loro sede e cioè Palazzo Sforza a Milano era molto vicino alla casa di Lomazzo (33) e la famiglia Sforza-Colonna conosceva bene ed apprezzava il pittore dato che fu scelto per  ritrarre il padre di Muzio, il marchese Francesco Sforza, Anna Borromeo, che fu la moglie di Fabrizio Colonna, il fratello di Costanza  ( Lomazzo, le Rime pag.531-32),  e dovettero conoscere altrettanto bene il suo allievo più brillante: Giovanni Ambrogio Figino che fece il ritratto a Muzio  ed anche a Giuliano Goselini e a sua moglie.

Anche Muzio Sforza entrò in relazione diretta con gli Insensati, sia con lo Stigliani che con il Massini che dedicò delle poesie sia a Muzio che alla moglie Orsina Peretti, ed a suo fratello Ludovico Sforza, la loro conoscenza data probabilmente al ’96-’97.  Infatti dopo aver fondato l’Accademia, Muzio si trasferì a Roma per tre anni dalla fine del ’97 alla fine del 1600, questa fu anche l’occasione probabilmente per rivedere il Merisi che il marchese certamente conosceva bene, date le relazioni che esistevano tra le due famiglie di origine (34),  oltre al fatto che erano quasi coetanei, solo 5 anni li dividevano. La zia del Caravaggio, Margherita Merisi, era stata la balia di Muzio, un ruolo che fu conservato anche dalla sorella del pittore, Caterina, che fece da balia proprio ai figli di Muzio.

Nel Gennaio del 1571 il padre di Muzio, il Marchese Francesco, fece da testimone alle nozze dei genitori del Caravaggio: Fermo Merisi e Lucia Aratori, alcuni mesi mesi dopo, probabilmente il 29 settembre 1571 Michelangelo Merisi nacque a Milano. Il nonno materno di Michelangelo, Giovan Giacomo, Aratori, ricoprì invece il ruolo di agrimensore al servizio dei Marchesi di Caravaggio  (35) e fece da testimone nell’83 all’atto con cui  Costanza Colonna, la madre di Muzio, assunse la tutela dei figli alla morte del consorte: Francesco Sforza (36) , divenendo la reggente del marchesato di Caravaggio. Tutto questo ci fa comprendere quanto le famiglie Merisi e Sforza fossero legate fra di loro.

Simone Peterzano – L’apprendistato e il periodo milanese del Caravaggio

Fig.3, Simone Peterzano, Orazione nell’orto, olio su tela, Milano, Museo diocesano.

Il Peterzano fu un pittore anch’egli amico del Lomazzo (37) che non manca di parlare di lui con ammirazione in tutti i suoi libri, nel Trattato, nei Rabisch e nell’Idea del Tempio della Pittura, dove lo descrive come pittore venetiano e  anche nei Grotteschi dove gli dedica due poesie elogiandolo come uno dei migliori pittori della città.

Come messo in evidenza da  Kristina Herman Fiore e da Paolo Ciardi, Peterzano probabilmente fece parte dell’Accademia Rabisch (38). In effetti è piuttosto evidente che il Peterzano fosse in rapporti con l’Accademia dato che il Lomazzo inserisce nei Rabisch una poesia dedicata proprioa lui ( pag.75) in lingua blegnese, per cui la dedica era indirizzata agli accademici di Blenio:

In rud duna pinchiura facchia dar Signò Simogn Petrezagn …,

dunque  i Rabisch  conoscevano il Peterzano e lui conosceva l’Accademia di Blenio. Visto il forte rapporto di amicizia e di stima che lega il Peterzano al Lomazzo è molto verosimile che il Caravaggio entri in contatto con il suo Trattato della pittura già nella fase del suo alunnato (39), ed in effetti, come ha già evidenziato da più storici i suoi principi si vedono applicati nella pittura caravaggesca.

Fig.3, Simone Peterzano, Orazione nell’orto, olio su tela, Milano, Museo diocesano

Fu in quest’alveo di relazioni familiari ed all’interno del clima culturale appena descritto, che nel 6 aprile del 1584 il Caravaggio mosse i suoi primi passi nel campo artistico entrando come apprendista nella Bottega del Peterzano.

A far da testimone nel contratto era presente Giovan Battista del Monte, che nel 1572 succedette al Goselini come Segretario del consiglio segreto di Milano 1572, che quindi lo conosceva (40). Peterzano fu un pittore di estrazione  tardomanierista ( fig.3; Orazione nell’orto) allievo di Tiziano come egli stesso dichiara orgogliosamente nella sua firma e sebbene per certi versi si avvicini all’intonazione del suo maestro, essa si differenzia per la forte plasticità,  nei suoi dipinti egli utilizza colori freddi, quasi metallici e trae ispirazione dai modelli classici che vengono però corretti da una certa attenzione al realismo, come si deduce dalla precisione con cui dipinge le nature morte e gli ambienti naturali.

Fig.4 Giuseppe Arcimboldo, l’Autunno, Parigi, Louvre

Sappiamo da un contratto stipulato con un altro allievo che egli insegnava a far ritratti e a dipingere l’arabesca  (proprio quella pratica pittorica esaltata nei Rabisch), settori in cui dovette in qualche modo essere reputato un abile maestro. Come si deduce dalle evidenze contenute delle sue opere, le personalità artistiche che esercitarono un influsso sull’ arte del Caravaggio furono Lomazzo, Figino e naturalmente Peterzano.

C’è anche da tenere in considerazione che in quel momento a Milano risiedeva e lavorava uno di più importanti studiosi del mondo naturale (Fig.4: L’Autunno) dal punto di vista pittorico: l’ Arcimboldo, dai cui lavori  il Caravaggio può essere stato suggestionato.

Alle influenze della città natale vanno aggiunte, come è logico d’altronde aspettarsi, quelle provenienti dalle città vicine, in primo luogo quelle cremonesi, a questo proposito teniamo conto che il paese di Caravaggio faceva e fa ancora parte della diocesi di Cremona, il fratello del pittore era un eccesiastico e fu consacrato chierico nella cattedrale di quella città, e dunque sicuramente Caravaggio vide la pittura presente a Cremona a quell’epoca; a questo vanno poi aggiunte le influenze della pittura bergamasca e bresciana di cui parleremo in seguito.

Tornando all’alunnato presso il Peterzano, l’apprendistato terminò secondo il contratto nell’aprile del 1588, non sappiamo esattamente cosa il Caravaggio abbia fatto per vivere dopo di questa data, anche se è probabile che appunto svolgesse il mestiere di pittore, un suo biografo romano il Bellori ci riporta che per quattro o cinque anni fece dei ritratti per campare:

Si avanzò per quattro o cinque anni facendo ritratti, e dopo, essendo egli d’ingegno torbido e contenzioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano giunse a Venezia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo propose per iscorta nell’imitazione”.

Fino al 1592 il pittore è documentato in lombardia, nel ‘ 91 risulta domiciliato a Milano, in quest’anno egli vendette buona parte dei suoi possedimenti ereditari che finì di liquidare nel maggio del 1592 con la vendita di un terreno in comproprietà col fratello chierico Giovan Battista, dalla cui vendita  ricavò 393 lire imperiali, per quell’epoca una somma non piccola che si aggiunge alle altre già riscosse, per un totale di circa 1100 lire (41),  compare  per l’ultima volta in un atto del primo di luglio, dopodichè non si hannno più notizie certe della sua permanenza nel territorio milanese. Gli storici romani dell’epoca ci  informano anche che il Caravaggio a Milano avrebbe commesso un delitto, ma tanto negli scritti del  che  del Bellori, come pure nelle note del Mancini (fece delitto) non si può determinare con certezza che uccise un suo conoscente, trascorrendo poi, secondo il Mancini, un anno in carcere. E tuttavia a causa di questo evento tuttora oscuro, che dovette accadere dopo il ’92, fu costretto ad andarsene da Milano; il Bellori aggiunge la notizia che da qui andò a Venezia, patria pittorica del suo maestro per studiare quel tipo di pittura. A queste poche note su questi annni dobbiamo aggiungere quelle pubblicate da Calvesi relative ad un manoscritto ottocentesco conservato alla Biblioteca della Ambrosiana, dove assieme ad alcuni dati ripresi dagli storici appena citati ed alcune inesattezze si trovano ulteriori fatti, ritorna la conferma dell’omicidio:

A diciotto anni uccide un compagno con il coltello, ma riacquista la libertà per intervento di Ambrogio Figino»; «Bandito da Milano, si ritira a Como, per poi tornare a Milano».

Quindi a Venezia dove ammira Giorgione (ma questo punto è ripreso dal Bellori) e «dopo cinque anni a Roma»”.

In questo passo del Calvesi troviamo anche una notizia nuova,  la testimonianza della amicizia con il pittore Figino allievo del Lomazzo, ed in effetti sono state evidenziate le influenze dell’arte del Figino  sulla pittura Caravaggesca (42). Calvesi aggiunge anche ulteriori nuove informazioni:

Il biografo non poteva conoscere la notizia dell’alunnato presso il Peterzano, ma afferma che fin dal 1578, a diciotto anni (si sarebbe trattato invece del 1589) era stato impiegato dal Lomazzo, che però era cieco, a preparare l’intonaco per gli affreschi di Milano. Dunque Figino e Lomazzo in luogo del Peterzano…”.

La notizia della preparazione degli intonaci è riportata dal Bellori :

si esercitò da giovane nell’arte di murare e portò lo schifo della calce nelle fabbriche; poiché impiegandosi Michele in Milano col padre, che era muratore, s’incontrò a far colle ad alcuni pittori che dipingevano a fresco, e tirato dalla voglia di usare i colori accompagnassi con loro, applicandosi tutto alla pittura.

L’ignoto scrittore  aggiunge al racconto del Bellori il fatto che fu nella bottega di Lomazzo- Figino che egli venne impiegato per preparare gli intonaci. Calvesi conclude il suo intervento dicendo che questo manoscritto potrebbe essere utile per ulteriori future ricerche e che anche per lui il viaggio a Venezia è una certezza:”…fermo restando che un soggiorno forse anche lungo a Venezia è da considerarsi certo…”(43).

Questo è  quello che sappiamo dei suoi primi anni milanesi, non si avranno più notizie di Caravaggio fino al 1597 quando una testimonianza lo dice domiciliato a Roma dalla Pasqua del 1596, periodo in cui lavorava per un pittore siciliano, Lorenzo Carli.

Più avanti quando analizzaremo i suoi dipinti avremo modo di verificare quanto la cultura milanese e le idee e le relazioni che abbiamo messo in  evidenza nello svolgimento di questa sezione abbiano potuto concretamente influenzare la sua maniera di concepire la pittura.

La strutturazione di un metodo – Leggere il racconto del dipinto

Per rendere più chiaro ed introdurre il percorso che ora ci accingeremo a fare, dedichiamo due parole alla metodologia con cui si sono approcciati gli argomenti trattati nello studio.

All’epoca del Caravaggio dal punto di vista teorico la pittura era divisa in vari generi che avevano gradi di importanza differenti, questa suddivisione esiste almeno fin dal momento in cui Leon Battista Alberti nel suo Della Pittura definì la pittura di storia come il genere  di più alto livello (60…Ma poi che la istoria è summa opera del pittore). Un dipinto per entrare in questa categoria deve avere alcune caratteristiche, in primo luogo essere composto di figure che devono essere in grado di far percepire al pubblico i loro sentimenti ed anzi attraverso i loro atteggiamenti devono essere  in grado di coinvolgerlo emotivamente; i loro atti devono far comprendere quello che sta accadendo e cioè essere organizzati secondo una volontà narrativa che guidi l’osservatore verso la comprensione dell’elemento fondamentale che è anche lo scopo principale della pittura, e cioè l’insegnamento morale o intellettuale che il dipinto deve riflettere. Così si esprime l’Alberti a questo riguardo:

“42…E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano i dipinti, tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia” (44).

Il dipinto deve anche essere piacevole e capace di attrarre l’osservatore ed interessarlo:

“40. Sarà la storia, qual tu possa lodare e maravigliare, tale che con sue piacevolezze si porgerà sì ornata e grata, che ella terrà con diletto e movimento d’animo qualunque dotto o indotto la miri.“.

Diventa a questo punto veramente tangibile come le tre caratteristiche fondamentali della pittura di storia coincidano con le caratteristiche chiave della retorica di Cicerone: Docere-Delectare-Movere, che vennero da lui codificate nel suo Orator. Per questo motivo la studiosa Lynette M. F. Bosch osserva appunto che la descrizione che l’Alberti fa della pittura di storia è completamente permeata dei principi della retorica (45). La tangenza della pittura con l’arte oratoria diverrà via via sempre più chiara con l’avanzare del suo discorso:

”43…Pertanto affermo sia necessario al pittore imprendere geometria. E farassi per loro dilettarsi de’ poeti e degli oratori. Questi hanno molti ornamenti comuni col pittore; e copiosi di notizia di molte cose, molto gioveranno a bello componere l’istoria, di cui ogni laude consiste in la invenzione, quale suole avere questa forza, quanto vediamo, che sola senza pittura per sé la bella invenzione sta grata….

In questo passo l’Alberti consiglia ai pittori di far riferimento non solo invenzioni letterarie dei poeti ma anche agli atteggiamenti, alle tecniche dei retori che possono risultare ugualmente utili per i pittori, ai fini della costruzione del racconto, e della gestualità, per cui è importante conoscere gli insegnamenti sia di Cicerone che di Quintiliano a cui fa spesso riferimento nel Trattato (46). Inoltre occorre tenere conto che nella cultura cinquecentesca si vennero a creare degli intrecci se non delle vere e proprie sovrapposizioni tra l’arte Retorica e quella Poetica. Fu questa evidenza a spingere uno studioso come Bernard Weinberger a dedicare 4 volumi a questo importante fenomeno (47) . La pittura più nobile, quella di Storia si regge quindi su due discipline che ne sono le colonne portanti la Retorica e la Poesia, la prima aiuterà il pittore di storia a convincere ed affascinare lo spettatore, mentre  la seconda servirà a rendere l’opera più piacevole:

54…Adunque si vede quanta lode porgano simile invenzioni all’artefice. Pertanto consiglio ciascuno pittore molto si faccia famigliare ad i poeti, retorici e agli altri simili dotti di lettere, già che costoro doneranno nuove invenzioni, o certo aiuteranno a bello componere sua storia, per quali certo acquisteranno in sua pittura molte lode e nome.”

Questo paradigma, sarà del tutto valido ed attuale anche per i teorici della pittura contemporanei al Caravaggio e come vedremo questo avrà importanti risvolti sulla sua pittura. Nel successivo commentario il n.55 si   arriva addirittura ad una sostanziale sovrapposizione delle forme di apprendimento letterario e pittorico:

Voglio che i giovani, quali ora nuovi si danno a dipignere, così facciano quanto veggo de chi impara a scrivere. Questi in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, quali gli antiqui chiamano elementi; poi insegnano le silabe; poi apresso insegnano componere tutte le dizioni.Con questa ragione ancora seguitino i nostri a dipignere”.

Tutti questi studi  erano indirizzati al miglioramento della abilità inventiva del pittore, ad affinare un ingegno personale e distintivo che gli poteva consentire di creare immagini nuove ed affascinanti, questo è il motivo per cui i collezionisti evitavano accuratamente di far copiare i dipinti in loro possesso, infatti far circolare copie della invenzione che era di loro proprietà era un po’ come perderne il copyright esclusivo.

Molto spesso all’epoca fare il pittore significava condurre un lavoro di basso livello a carattere artigianale, si trattava di un mestiere che permetteva di sopravvivere vendendo quadri commerciali, realizzati seguendo il gusto comune, come le copie di quadri famosi od i ritratti, un genere di attività a cui si dedicò il Caravaggio nei suoi primi difficili esordi romani, quando era costretto a dipingere per sbarcare il lunario. All’interno delle teorie appena esposte questi generi commerciali erano considerati  di livello inferiore, fare una copia infatti non necessitava di nessuna abilità inventiva, mentre all’opposto, come  dichiarato dall’Alberti, la pittura considerata di livello superiore era quella che illustrava un  fatto storico o religioso, oppure la raffigurazione di scene mitologiche od allegoriche, cioè quei tipi di pittura che sono in grado di  raccontare qualcosa, di far pensare e  dare un insegnamento, in questo caso ovviamente occorreva avere delle particolari capacità inventive per elaborarli.

Occorre dunque porre decisamente molta attenzione alla narrazione che il pittore mette in scena nel dipinto e cercare con scrupolo tutte le sue caratteristiche, perché questa dote all’epoca era ritenuta la capacità di più alto livello, l’interesse nei confronti di questo aspetto è fondamentale non solo per la corretta comprensione del significato  dell’opera ma anche per capire le attitudini e le propensioni dell’uomo che l’ha ideata.

A queste considerazioni legate all’Alberti bisogna aggiungere la grande influenza che ebbe sulle arti la riscoperta della Poetica di Aristotele e la diffusione della sua traduzione in lingua latina ( 1498) realizzata da Giorgio Valla. La Poetica divenne nel campo dell’estetica la pietra di paragone su cui si misurarono i più importanti uomini di cultura, filosofi e critici d’arte durante tutto il ‘500. Le connessioni tra i concetti contenuti nella Poetica aristotelica e la pittura, e la loro evoluzione nel corso del ‘500 sono state affrontate da Marco Sgarbi, che ripercorre in ottica storica  l’ evoluzione di questa idea attraverso le tappe del Robortello del Vettori, Castelvetro, Lombardi, Maggi, Francesco Patrizi, Varchi e soprattutto la visione di Ludovico Dolce. In questo bel saggio  Sgarbi ci permette di approfondire ulteriormente alcuni concetti fondamentali relativi al punto di vista del periodo:

Il parallelismo stabilito da Dolce fra pittura e poesia per mezzo del testo aristotelico è piuttosto preciso. L’invenzione è costituita dalla favola, cioè ciò che si vuole rappresentare, ed è chiamato da Aristotele “μῦθος”, ovvero racconto. Il disegno è la ratio, ovvero il perché e il modo in cui si fa una cosa: è appunto il pensiero che sta dietro al progetto dell’opera d’arte e che riesce a trovare le modalità adeguate alla realizzazione delle intenzioni del pittore. Infine il colore è la vivacità di ciò che è rappresentato, ovvero ciò che suscita maggiormente i sentimenti…Insomma, l’artista nelle sue opere d’arte deve mantenere una certa verosimiglianza. Per raggiungere questa verosimiglianza nell’invenzione per Dolce il pittore dovrebbe conoscere bene le lettere, perché «è impossibile che il pittore possegga bene le parti che convengono all’invenzione, sì per conto dell’istoria, come della convenevolezza se non è pratico delle storie e delle favole de’ poeti»… secondo Dolce si deve scegliere la forma più perfetta, imitando solo in parte la natura e lasciando libera la creatività dell’artista.”.(48).

Queste riflessioni non fanno che confermarci ulteriormente l’importanza ed il rilievo che avevano il concetto di invenzione o di lettura del racconto, che erano considerati i due cardini fondamentali e metri di giudizio imprescindibili sia nella Poetica di Aristotele che nel Della Pittura dell’Alberti. I pittori spesso per realizzare i loro dipinti facevano ricorso non solo a concetti poetici, ma anche al linguaggio dei simboli, una pratica che era particolarmente in voga allora come abbiamo già compreso dalle parole del Lomazzo, per cui  va tenuto in particolare considerazione anche questo aspetto. Data l’importanza  che veniva attribuita alla capacità del pittore di creare nuove forme narrative, riserveremo dunque una specifica attenzione agli elementi costitutivi del  dell’invenzione del racconto pittorico, perché questo  era considerato  un elemento fondamentale sia nella valutazione di un’opera che della abilità di un pittore;  è quindi determinante il saper leggere la storia che l’artista ha preparato per l’osservatore, perché ogni pittore ha un suo proprio stile narrativo, determinati gusti o sensibilità che si traducono poi in concreto nella scelta degli elementi formali che compongono un dipinto e che gli sono propri, il modo in cui fa svolgere l’azione, gli atteggiamenti, le espressioni e le fisionomie dei personaggi,  come diceva Leonardo: “Ogni pittor dipinge sé”(49), tutti questi elementi nel loro complesso servono ad individuare la sua personalità.

Un dipinto od una scultura in fondo non sono altro che un mezzo di comunicazione di cui si serve l’artista per trasmetteree qualcosa ai fruitori della sua arte, qualcosa che riguarda sé stesso, la propria interiorità, i propri sentimenti, le proprie conoscenze ed in ultima analisi il mondo da cui proviene e lo ha forgiato. Tradotto in un esempio letterario è un po’ come se si dovesse distinguere lo stile con cui descriverebbero uno stesso avvenimento l’Ariosto o il  Tasso, a quali elementi presterebbero maggiore attenzione, quali parole userebbero o quale sarebbe la struttura delle loro frasi, quale sarebbe l’organizzazione complessiva del testo, in sintesi quale è il loro differente e personale sviluppo della narrazione.

Per eseguire  il genere di pittura considerata alta ovviamente era necessario possedere una certa l’abilità nel dipingere le figure e a riprova di questo fatto vedremo quanto Caravaggio considererà importante il ritornare a dipingere le figure, e non essere limitato alla creazione di copie o di nature morte che erano considerati generi minori, come accadde quando fu nella bottega del  Cavalier d’ Arpino, tanto che alla fine lo lasciò: è in fin dei conti del tutto naturale che un pittore ambizioso come lui aspirasse al genere di pittura più elevato cioè quello di storia. Anche il grande teorico lombardo, il Lomazzo formalizza l’importanza della pittura di Storia proprio nella parte iniziale del suo Trattato :

Di più  quantunque  in  questi dei libri  si  contenga  tutta  la  perfettione  de  l’arte, nondimeno considerando  io  che  l’accidente  che  più necessariamente accompagna  la  pittura  è  l’ historia,  per  sapere  prudentemente  praticare,  ho  voluto  per  levare  al  pittore  questa  fatica  di  volgere  &  riuolgere  diversi  libri, aggiungerei un altro libro che è il settimo nel quale si tratta  dell’historia  necessaria  al  pittore”( pag. 16).

La validità della scala di valori dei generi pittorici che nel corso di questo paragrafo abbiamo sinteticamente illustrato viene confermata dal pensiero di uno dei più importanti collezionisti e protettori del pittore, Vincenzo Giustiniani, che oltre ad essere un potente banchiere fu anche un intenditore d’arte e  autore di un Discorso sulla pittura che riflette appunto la distinzione dei generi pittorici appena esposta, che per classi di importanza crescente sono: dipingere le copie, fare i ritratti, le nature morte, le prospettive, i paesaggi, le grottesche, battaglie e cacce, dipinti di fantasia, dipinti dal naturale ed infine i dipinti di fantasia che hanno una tale verosimiglianza da sembrare dipinti dal vero: a quest’ultima classe, la più alta, appartengono sia il Reni che i Carracci che il Caravaggio.

Questa tradizione critica si radicherà ancora più saldamente con il discorso sulla pittura di Andrè Felibien (1669) il critico e storiografo del re di Francia e grande amico di Poussin, che porrà la categoria della pittura allegorica al sommo della pittura di storia e di tutti i generi:

“Chi realizza dei paesaggi perfetti è al di sopra di un altro che produce solo frutta, dei fiori o delle conchiglie. Colui che dipinge animali vivi è più stimabile di quelli che rappresentano solo cose morte e senza movimento, e poiché l’uomo è l’opera più perfetta di Dio sulla terra, è certo che colui che diventa un imitatore di Dio nel rappresentare figure umane, è molto più eccellente di tutti gli altri … un pittore che fa solo ritratti non ha ancora raggiunto la somma perfezione della sua arte, e non può aspettarsi l’onore dovuto ai più abili. Per questo deve passare dal rappresentare una singola figura a più figure insieme; la storia e il mito devono essere rappresentati; i grandi eventi devono essere rappresentati come dagli storici,  i soggetti piacevoli come dai poeti, e salendo ancora più in alto, occorre  attraverso le composizioni allegoriche saper coprire sotto il velo della favola le virtù dei grandi uomini  e i misteri più importanti.  Così basandosi su queste idee la gerarchia dei generi è la seguente, dal meno nobile al più nobile:Natura morta di frutti, di fiori o di conchiglie/ Natura mortadi selvaggina, pesci e altri animali/Dipinti con animali vivi/Marine/Paesaggi/Scene di genere/Ritratti/Pittura di storia ( che include anche la pittura religiosa)/Dipinti allegorici.” (50).

Questi colti personaggi sapevano bene quello che volevano e riunivano attorno a sé una corte di persone in grado di consigliarli nelle loro scelte o realizzare i loro desideri. Dobbiamo tenere conto che l’artista era dotato di una autonomia decisamente più limitata di quanto non accada oggi nel mondo contemporaneo; la libertà di cui godevano i pittori a quell’epoca era influenzata inevitabilmente dal volere della committenza, risulta dunque di fondamentale importanza fare luce e comprendere quali fossero le idee ed i pensieri dei committenti dato che avevano importanti riflessi sugli artisti. Nell’ottica di ampliare la nostra capacità di lettura di un’opera appare quindi necessario ricostruire anche il pensiero che circolava in quelle corti.

Famosi all’epoca furono i circoli culturali dei Farnese e degli Aldobrandini per quanto riguarda  lo sviluppo del gusto classico, gli eruditi che vi fecero parte furono in grado di influenzare la pittura di Annibale Carracci e dei suoi allievi, così come furono altrettanto importanti le idee che circolavano nell’ambiente dei Barberini e di Cassiano dal Pozzo per quanto riguarda la pittura di Poussin,  Pietro Testa o la scultura di Francois Duquesnoy.

La ricerca storica in passato ha concentrato un grande interesse nello studio del pensiero teorico-artistico che era presente in questi circoli, classico è anche l’ esempio di Raffaello;  questo metodo critico ha portato dei buoni frutti, ci ha condotto ad una maggiore e più dettagliata comprensione del significato dei prodotti artistici, delle ragioni che hanno spinto alla loro creazione e del gusto dei pittori, e credo che continuerà a dare in futuro molti altri importanti risultati.

Oltre ai cenacoli culturali appena descritti bisogna aggiungere che fu di altrettanta rilevanza quello che si raccoglieva intorno al grande mecenate del Caravaggio: il Cardinal del Monte che ricoprì incarichi istituzionali di prestigio nella Roma di allora sia nell’ambito pittorico che musicale, dunque questo personaggio fu in grado di  modellare ed influenzare grandemente la maniera in cui queste arti venivano svolte, così come sono da considerare di altrettanta rilevanza se non ancora più influenti le idee di un altro importante collezionista del pittore: Maffeo Barberini che divenne Papa e favorì in modo determinante lo sviluppo del gusto barocco.

Presteremo una particolare attenzione alle idee esistenti nei nodi culturali a cui parteciparono le persone con cui il Caravaggio fu in contatto, in particolare le  Accademie, un fenomeno che andava diffondendosi in tutta Italia e che allora aveva molto peso, tanto da costituire una vera e propria Repubblica delle lettere, come la definì Marc Fumaroli in un suo famoso testo.

Abbiamo già trattato quella Milanese dei Rabisch con cui il suo maestro Peterzano era in rapporti, quindi presto passeremo ad esaminare quella degli Insensati e degli Humoristi a cui appartennero molti dei suoi committenti. Questi circoli fungevano non solo da luogo di accentramento intellettuale ma anche di potere ad alto livello e quindi  furono in grado di influenzare attraverso i loro dibattiti il processo di sviluppo dell’età Barocca a Roma, per queste ragioni esse sono in grado di fornirci una chiave di lettura autentica delle idee del periodo.

Questo tipo di ricerca di cui abbiamo appena parlato volta a definire più precisamente il pensiero che circolava negli ambienti frequentati dal Caravaggio e dei suoi committenti, che ci aiuta nella comprensione del significato delle sue opere, appare opportuno estenderla anche  all’altra componente fondamentale della creazione artistica e cioè la cultura pittorica di cui si nutrì il pittore, che gli fornì gli attrezzi del mestiere con cui poi realizzerà i suoi dipinti; è importante perciò studiare i suoi maestri, gli esempi di pittura che ha potuto osservare durante la sua vita ed i trattati tecnici sull’arte pittorica che ha utilizzato.

Impiegheremo lo stesso metodo filologico appena descritto anche quando ci occuperemo dell’analisi degli elementi tecnici che sono fondamentali nella realizzazione di un’opera, come l’organizzazione della luce, dello spazio, della gestualità delle figure e la loro espressività, l’utilizzo del colore e l’uso del disegno o della prospettiva; ricostruiremo anche in questo caso le principali fonti sia teoriche che pratiche con cui il Merisi può essere entrato in contatto, i maestri, i trattati, gli scritti. Andremo anche alla ricerca delle fonti iconografiche a cui ha fatto riferimento per la realizzazione delle sue invenzioni, così da comprendere quali pittori hanno più colpito la sua fantasia, quali ha visto e lo hanno ispirato.

Questi sono i versanti su cui abbiamo deciso di concentrare le nostre ricerche, che affronteremo seguendo un approccio storico-filologico e cioè utilizzando la documentazione e le fonti che il pittore aveva certamente a disposizione, per ricostruire un quadro il più possibile esatto. Ci aiuteremo anche per mezzo delle pagine vergate dai  suoi biografi e critici seicenteschi: Mancini, Celio, Bellori, Baglione, Susinno, infatti il loro giudizio ed il loro metro di misura è in grado di restituirci il corretto punto di vista e la giusta prospettiva di come il pittore appariva ai suoi contemporanei. Tutto questo va esattamente nella direzione che abbiamo appena delineato e cioè cercheremo di metterci nelle condizioni di saper vedere e leggere le sue opere nella maniera più vicina possibile al modo in cui le gustavano e valutavano le persone di allora.  Procedendo quindi per mezzo dei principi generali appena descritti, dopo aver messo a fuoco gli specifici modelli e le idee chiave con cui molta probabilità il pittore entrò in contatto ne verificheremo in concreto l’influenza attraverso il riscontro sui suoi dipinti, in questa maniera saremo sicuri di spiegare i significati della sua arte e le sue scelte pittoriche utilizzando solo notizie coerenti con la sua attività artistica.

Michele FRAZZI   Parma 10 Settembre  2023

NB.  Per una precisa scelta dell’Autore la pubblicazione delle Note verrà effettuata alla fine del percorso inziato con questo contributo.