di Giorgia TERRINONI
“Giocavo con questi miei oggetti del desiderio, un martello, per esempio, o afferravo un cacciavite, e facevo finta di essere un adulto.
Pensavo fossero bellissimi. Era un incontro non-verbale”.
“Posso passare molto tempo con gli oggetti (…). E penso che il mio lavoro sia molto autobiografico. Quello che cerco di fare nel mio lavoro è unâesplorazione di me stesso in termini fisici – spiegare qualcosa in termini della mia sensibilitĂ ”.
“La mia poesia riguarda la creazione di un ritratto, il correre dietro a se stessi. Ă vero, lâidea di un autoritratto mi perseguita. Ă ciò che vorrei fare in continuazione. Ci torno sempre, per documentare dove mi trovo, dove si trova questâorganismo â nel mondo e nel tempo”.
Dal 27 ottobre 2017 e fino al 3 febbraio 2018 lâAccademia Nazionale di San Luca presenta, nella sede storica di Palazzo Carpegna (nei pressi di Fontana di Trevi), la mostra JIM DINE. HOUSE OF WORDS. The Muse and Seven Black Paintings. Lâesposizione celebra lâelezione dellâartista americano Jim Dine (Cincinnati, 1935) ad Accademico di San Luca.
La mostra occupa gli spazi al pianterreno dellâAccademia. Nella sala centrale prende posto The Flowering Sheets (Poet Singing): qui, le pareti sono interamente ricoperte dalla traduzione grafica a carboncino â si potrebbe dire che si tratta di una scrittura poetica oggettualizzata â dellâomonimo poema composto da Jim Dine.

Nella stanza, poi, troneggiano cinque grandi sculture lignee che circondano un monumentale autoritratto dellâartista fatto di gesso, poliestere e legno. Nelle due sale adiacenti è esposto il ciclo pittorico inedito dei Black Paintings (2015). Si tratta di sette tele di grande formato, sulle quali si articola una materia pittorica quasi plastica e dalle cromie sature.

Nonostante la mostra mi abbia generato qualche perplessitĂ â probabilmente a causa del conflitto che ho rintracciato tra lâaspirazione a unâopera totale e ambientale e la dimensione tutto sommato angusta degli spazi â non ho potuto fare a meno di accorgermi che tutto, al pianterreno dellâAccademia, parla dellâattivitĂ ormai sessantennale di Jim Dine come artista. Câè proprio tutto! Ci sono gli oggetti, la narrazione (anchâessa oggettivata), la pittura, il corpo, il legame con la tradizione, lâautobiografismo amaro, eppure autoironico, lâaspirazione ambientale.
Dine appartiene alla generazione di artisti americani che hanno imparato a camminare da soli subito dopo lâEspressionismo Astratto. Per lui, come pure per Rauschenberg, Johns e Oldenburg, rivolgere la propria attenzione allâoggetto quotidiano e appropriarsene, trasformandolo in arte, è stato il modo per liberarsi dellâereditĂ ingombrante lasciata dagli immediati predecessori. EreditĂ ingombrante ma foriera dâimportanti, quanto necessarie, conseguenze. CosĂŹ almeno la vede Allan Kaprow in un articolo precoce e lucidissimo pubblicato su Art News nel 1958 e intitolato LâereditĂ di Jackson Pollock. Qui Kaprow riflette sulle possibilitĂ aperte dalla dimensione ambientale e, al contempo, esistenziale del dripping di Pollock; in primis, sulla possibilitĂ di pensare unâarte in grado di generarsi a partire dalla realtĂ quotidiana. Nel 1961, in un celebre quanto spassoso testo, Claes Oldenburg descrive lâarte cui egli desidera dar corpo: “Sono per unâarte che prenda i suoi modelli dalla vita, che si contorca e si espanda fino allâimpossibile e sâingrandisca e sputi e sgoccioli e sia altrettanto dolce e stupida della vita stessa (âŚ)”.
Allan Kaprow è lâinventore dellâhappening e lo stesso Jim Dine, nel 1960, è autore e interprete di quattro happenings. Caratterizzati tutti da una dimensione perturbante e, al contempo, umoristica â tale dimensione ricorre anche nelle rappresentazioni che lâartista, nel corso del tempo, fa di se stesso â gli happenings di Dine mettono in campo unâarte in grado di servirsi delle immagini, delle azioni del corpo, ma anche delle parole. In questo momento, probabilmente, prende avvio quel feeling con la dimensione verbale e con la poesia che sostanzia anche la scrittura parietale di Flowering Sheets.

Ma torniamo ancora un momento sullâoggetto! Fin dai primi anni Sessanta, nelle opere di Dine, figurano gruppi di oggetti comuni: utensili, accappatoi, cuori, alberi, cancelli, ecc. Per lâartista la maggior parte di questi oggetti ha una valenza intima e personale; suo nonno possedeva un negozio di ferramenta, suo padre dâidraulica. Gli utensili, in particolare, funzionano come una sorta di vocabolario sentimentale che si dipana attraverso la memoria. Il valore sentimentale attribuito allâoggetto comune, insieme alla sua natura brut, è uno degli aspetti che tiene Dine leggermente a distanza dallâiconoclastia spettacolare della Pop art, rendendolo invece piĂš prossimo ai combine paintings di Rauschenberg. Eppure, evidentemente, gli oggetti di Dine hanno perduto la loro funzione utilitaria â reale â caricandosi, strada facendo, di un altro genere di risonanze. Ciò è evidente, ad esempio, nella serie degli indumenti dei primi anni Sessanta (Green Suit, 1959), delle cravatte o degli accappatoi. Abbiamo a che fare con oggetti comuni che finiscono per diventare perturbanti, poichĂŠ rinviano evidentemente a una presenza umana. Ma questa si è volatilizzata, svuotandoli.

Se in questa fase Dine â come Johns e Rauschenberg â usa la pittura per scimmiottare la gestualitĂ esistenziale dellâEspressionismo Astratto, negli anni Settanta avvia invece un percorso di ri-apprendimento delle tecniche pittoriche. Gli stessi Seven Black Paintings, benchĂŠ siano un esito recente di tale ricerca, mostrano un artista che si è riappropriato della tradizione gestuale ed astratta dellâespressionismo â forse anche di quello tedesco, a guardare le cromie accese. Ă possibile che le ombre scure dense e materiche che popolano questa serie di dipinti siano anche un richiamo alla figura, come se la presenza umana fosse rientrata ad abitare i suoi vecchi indumenti.


Il legame con la tradizione della scultura segue un percorso analogo a quello della pittura. La frequentazione dellâartista con lâimmaginario della scultura antica data a quando, da ragazzino, visitava le collezioni di antichitĂ del Cincinnati Art Museum e sfogliava i libri dâarte illustrati di sua madre.
Ma anche la scultura, nel decennio immediatamente successivo allâEspressionismo Astratto, diventa tuttâuno con la pittura e con lâoggetto comune, è cioè assoggettata alla necessitĂ di dare corpo a un vocabolario artistico combinatorio ed è piegata a un immaginario brut. CosĂŹ, anche lâiconica Nike di Samotracia finisce per trasfigurarsi, come accade in Untitled (After Winged Victory) del 1959.

Ma, nella seconda metĂ degli anni Ottanta, la passione per la scultura antica riavvolge e Dine che, a seguito di una visita notturna alla Glyptothek di Monaco, copia â disegnandole â alcune sculture del museo. Lâartista si sta apprestando a ri-apprendere anche la scultura.
Questo forse testimoniano anche le quattro figure femminili in mostra allâAccademia. Esse sono una reinterpretazione molto colta, monumentale, di piccole sculture fittili di etĂ ellenistica, le cosiddette tanagrine.
Queste immagini lignee soggette a torsioni a piegamenti innaturali quanto sinuosi, circondano lâaltrettanto monumentale autoritratto dellâartista in gesso, ma limitato al volto e al collo. La vitalitĂ delle sculture femminili e il loro anelare al movimento â quasi fossero delle danzatrici contemporanea â cozzano con la staticitĂ arcaica e la tozza pesantezza che governano lâautorappresentazione dellâartista.

à un inconfondibile Jim Dine quello che vediamo. Ma sembra essergli toccato in sorte un destino opposto a quello del suo amato Pinocchio! Una parabola amara al contrario. O forse, è a congiungere tutti i pezzi, che si può leggere una storia.
di Giorgia TERRINONIÂ Â Roma novembre 2017

