L’arte in Italia ai tempi di Margherita Sarfatti; in mostra alla Galleria Russo i capolavori di una irregolare dell’arte

redazione

Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre

a cura di Fabio Benzi

Mario Sironi, Ritratto di Margherita Sarfatti, 1916-1917pastello e tempera su cartamm 600 x 45

Esposizione: 10 – 31 ottobre 2020

Galleria Russo. Via Alibert, 20 00187 Roma +39 06 6789949 – 06 69920692 +39 345 0825223

 http://www.galleriarusso.com

Orari: lunedì dalle 16.30 alle 19.30; dal martedì al sabato dalle 10.00 alle 19.30

 Ingresso libero

Catalogo a cura di Fabio Benzi. Introduzione di Corrado Augias. Testi critici di Fabio Benzi e Rachele Ferrario

 Ufficio stampa: Scarlett Matassi – +39 345 0825223 info@scarlettmatassi.com

Capolavori di Medardo Rosso, Umberto Boccioni, Mario Sironi, Adolfo Wildt, Gino Severini, Achille Funi tra le opere in esposizione nella mostra “Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre” che si unaugura a Roma presso la Galleria Russo sabato 10 ottobre.  La maggior parte delle cinquanta opere in esposizione proviene dalla leggendaria collezione di Margherita Grassini Sarfatti, sofisticata Peggy Guggenheim italiana, ma anche donna di potere capace di surclassare il ruolo di qualsiasi maschio dominante nell’Italia degli anni Venti.

Chi era Margherita Sarfatti?

Se avete automaticamente risposto “l’altra donna di Benito Mussolini” è assai probabile che una visita alla mostra Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre produrrà l’effetto di ribaltare il vostro punto di vista sulla questione, intellettualmente assai più stimolante partendo dal presupposto che non lei, la geniale Margherita, fosse l’altra donna di lui, ma lui l’altro uomo di lei, anzi, uno degli uomini di lei, la grande pigmaliona, la talent scout dal fiuto infallibile, la prima donna europea critico d’arte militante, la Peggy Guggenheim italiana, la donna di potere capace di surclassare il ruolo di qualsiasi maschio dominante del suo tempo, grandiosa nel bene quanto nel male, come lei stessa non mancò di riconoscere, tracciando il lucido bilancio di una vita fuori dalle convenzioni.

“Io sono nuova, io nasco ogni mattina, ciò che feci ieri non è la ragione determinante di quanto farò domani”.

Nel ritratto che traccia di se stessa emerge  quella tensione al nuovo che è il tratto saliente della sua azione.

“Nel contesto internazionale delle donne del XX secolo che con la loro personalità hanno contribuito a costruire il mondo moderno, Margherita Sarfatti spicca come un astro di prima grandezza”

scrive di lei Fabio Benzi, curatore della mostra nonché esperto tra i più accreditati di arte italiana della prima metà del ‘900, e, in effetti, la donna che aveva inventato il mito del Duce si collocava agli antipodi del modello di angelo del focolare raccomandato alla popolazione femminile dalla propaganda di regime. L’aspirazione alla modernità di questa progressista e femminista autentica è rivelata in modo palese dalle sue scelte di collezionista d’arte compulsiva e appassionata, di modo che a Fabrizio Russo – organizzatore della mostra e legato alla famiglia Sarfatti da un antico rapporto di parentela e amicizia – raccontare Margherita attraverso i capolavori della sua leggendaria collezione è parsa la scelta più logica.

Chi visiterà l’esposizione, valuterà dunque lo spessore intellettuale di Margherita attraverso le sue scelte artistiche: Medardo Rosso, Umberto Boccioni, Mario Sironi, Adolfo Wildt sono presenti con emozionanti capolavori che, da soli, giustificherebbero ampiamente un’incursione al civico 20 di via Alibert, la piccola strada di raccordo tra via del Babuino e via Margutta su cui si affaccia la storica Galleria Russo, 122 anni di attività ininterrotta nel campo dell’arte moderna.

La presenza di eccezionali solisti non deve però distogliere dall’andamento eminentemente corale del progetto espositivo, concepito come un racconto a molte voci sull’arte in Italia tra le due guerre, uno scenario dinamico e ricco di sfaccettature nell’ambito del quale una donna ebrea, Margherita Grassini Sarfatti, svolse il ruolo di affascinante mattatrice.

Wildt Adolfo, Vergine, 1924, marmo, cm 35 x 29.

In mostra non c’è solo l’Ecce Puer, una palpitante cera firmata da Medardo Rosso nel 1906 che trova il suo contraltare nell’inarrivabile eleganza dei marmi e dei bronzi di Wildt (tra essi La Vergine del 1924, opera amatissima da Margherita),  non solo la sincopata Ballerina futurista di Mario Sironi (1916)  o la Periferia del 1909 di un autore raro e di culto come Umberto Boccioni, in questa mostra c’è soprattutto il tentativo critico di ragionare su una vastissima e favoleggiata collezione purtroppo mai catalogata e pienamente studiata perché la sua stessa artefice cominciò a disperderla per finanziarsi la fuga dall’Italia nel 1938, quando l’istituzione delle leggi razziali la costrinsero a fare definitivamente i conti col fallimento di un progetto poltico in cui molto aveva creduto.

Mario Sironi, Figura con lo specchio, 1924 ca. tempera su carta incollata su tavola cm 36 x 2

Nel progetto curato da Fabio Benzi con l’intervento di Corrado Augias come autore della prefazione in catalogo e Rachele Ferrario, autrice di un corposo saggio critico, le assenze contano quanto le presenze. Tante e importanti – nella collezione Sarfatti e, di conseguenza, in questa mostra – le opere di Mario Sironi, con cui Margherita diede vita a un rapporto professionale e umano di importanza cruciale nella storia dell’arte italiana del ‘900 (Rachele Ferrario in catalogo). Manca invece Arturo Martini, il più grande scultore italiano del ‘900, scoperto e inizialmente favorito da Margherita e poi oggetto di scoperta ostlità quando lui si sottrae alla sua influenza aderendo al gruppo romano di Valori Plastici.

In collezione non entra neanche il grande De Chirico, reo di aver rilasciato a una rivista francese un’intervista che chiaramente la chiama in causa

Non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna […] La pittura italiana moderna non esiste. Ci siamo Modigliani e io; ma noi siamo quasi francesi”.

Consapevole del grande talento di lui, alla fine lo perdona. Segnala la loro riconciliazione uno degli inediti in mostra: la testa di gladiatore del 1927, una matita su carta con dedica donata dal pittore nel 1931 alla gentilissima Signora Margherita Sarfatti .

Gino Severini, Un ritratto (Autoritratto) 1905, pastello su carta mm 350 x 30

Non possono naturalmente mancare gli artisti del suo Novecento, il movimento di cui, negli anni della sua massima influenza politica, dal 1922 al 1927,  è teorica e sostenitrice. Sensibilissima nel cogliere ogni accento di novità, è tra le prime a registrare la nuova temperie culturale europea di un ritorno all’ordine che riformi le avanguardie. Del gruppo dei suoi fedelissimi la mostra schiera Achille Funi, Anselmo Bucci e Pietro Marussig insieme ad autori che, come Gino Severini e Ardengo Soffici, rientrando in quella tendenza, acquista con compulsivo entusiasmo.

Donna di potere, oltre che collezionista, le sue scelte d’acquisto sono talvolta suggerite da motivazioni di opportunità politica. La sezione della mostra dedicata alle acquisizioni di artisti romani come Francesco Trombadori, Virgilio Guidi, Quirino Ruggeri, Gisberto Ceracchini e Pasquarosa segnala lo sforzo di ricucire lo strappo con l’ambiente dominato dal suo rivale, Cipriano Efisio Oppo, vincitore finale dell’aspra partita per la leadership nelle politiche artistiche.

La Galleria Russo

Fondata a Roma nel 1897, la Galleria Russo è una delle più prestigiose gallerie d’arte italiane.Il suo vasto repertorio espositivo affianca ai principali autori del ‘900 storico – Balla, Boccioni, De Chirico, Casorati, Carrà, Sironi, Cambellotti, Severini – la produzione di giovani artisti italiani ed internazionali contemporanei.

Roma 11 ottobre 2020