L’arte che buca lo schermo. Videovisioni al Palaexpo e alla GAM (fino al 4 settembre).

di Giulio de MARTINO

C’è a Roma l’occasione di ri-attraversare la produzione di «videoarte» e di «cinema d’artista» italiana.

Sono opere in video e filmati d’autore, testimonianze e documenti, prodotti dalla fine degli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Si tratta di un grande e impegnativo progetto che si sviluppa in due spazi: il Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale e la Galleria d’Arte Moderna in via Crispi. La sezione al Palaexpo è più spettacolare – grazie ai vasti spazi disponibili – mentre quella alla GAM è storica e concettuale. Le due mostre si integrano e completano a vicenda.

Fig. 1 MARINELLA PIRELLI, Film ambiente, 1968-1969/2004 installazione / 16 mm trasferito su digitale, colore, sonoro, struttura modulare in metallo, pannelli serigrafati in policarbonato, 375 x 375 cm Archivio Marinella Pirelli, Varese. Courtesy Richard Saltoun Gallery

L’esposizione si intitola “Il video rende felici. Videoarte in Italia” ed è curata da Valentina Valentini. Il titolo fa riferimento sia alla economicità e rapidità della riproduzione in video rispetto a tecniche di riproduzione e diffusione più costose e complesse, sia al senso di autonomia e indipendenza che il video conferisce a chi lo adopera. Un ampio catalogo – curato insieme da Cosetta Saba e da Valentina Valentini e edito da Treccani – documentata gli autori e le produzioni repertoriate. In mostra si visitano 20 istallazioni, si vedono 360 tra video e filmati, si può visionare per campioni il lavoro di circa 100 artisti[1].

Fig. 2 MARINELLA PIRELLI, Film ambiente, 1968-1969/2004
installazione / 16 mm trasferito su digitale, colore, sonoro, struttura modulare in metallo, pannelli serigrafati in policarbonato, 375 x 375 cm Archivio Marinella Pirelli, Varese. Courtesy Richard Saltoun Gallery

Al Palaexpo si trovano le installazioni video di Marinella Pirelli, Michele Sambin, Giovanotti Mondani Meccanici, Mario Convertino, Studio Azzurro, Daniele Puppi, Rosa Barba, Danilo Correale, Elisa Giardina Papa, Quayola, Donato Piccolo. Alla GAM si vedono installazioni e filmati di: Fabio Mauri, Daniel Buren, Bill Viola, Cosimo Terlizzi, Umberto Bignardi, Masbedo, Fabrizio Plessi, Franco Vaccari.

La mostra – che soddisfa sia le buone ragioni della fruizione che quelle della storicizzazione – non ha ambizioni definitive, ma propone un allestimento aperto e sperimentale. Ciò consente una approccio immersivo e diretto dei visitatori nella «videoarte», settore spesso negletto e trascurato dell’arte contemporanea. Il percorso è insieme storico e concettuale e mette in evidenza aspetti diversi: in particolare il  carattere documentativo della videoarte e il suo sperimentalismo anti-distopico.

La mostra è anche utile poiché la quantità degli operatori e la varietà delle linee di ricerca è stata spesso subordinata alla funzione di documentazione che hanno svolto e svolgono gli audiovisivi rispetto alle altre forme di arte contemporanea.

Fig. 3 QUAYOLA, Transient #E_001-04_4ch, dalla serie Transient – Impermanent paintings, 2020, installazione / video 4K multicanale, colore, sonoro, 13’ 20’’ loop, 4 monitor 55’’, esemplare unico, © Collezione dell’artista

L’arte contemporanea italiana è stata – dagli anni ’60 del secolo scorso – fertile terreno di elaborazione per progetti innovativi e per sperimentazioni tanto da costituire un imprescindibile punto di riferimento per la ricostruzione del cammino parallelo delle «video-tecnologie» e dell’«arte in video».

Se il nostro Paese è stato e resta una periferia e una provincia nel mondo della rivoluzione digitale, malgrado ciò numerosi operatori e artisti – in anni fertili e creativi – hanno posto in evidenza fenomenologica la funzione trascendentale del mezzo elettronico (e poi digitale) e mostrato – con ironia e con mezzi limitati – la sua presenza decisiva nel determinare i contesti dell’arte contemporanea e della vita sociale.

Anche i pregiudizi anti-tecnologici e pseudo-marxisti con cui è stata recepita l’arte contemporanea hanno contribuito a misconoscere il ruolo della video arte e dei film di artista italiani.

Fig. 4 DONATO PICCOLO, Video machine mobile, 2022, videoscultura mobile / monitor, scheda elettronica dotata di intelligenza artificiale (Niklas Sallali Engineering), scheda Raspberry, servomotori seriali, sistema elettronico di scansione ambiente, sensori a ultrasuono, sensori acustici, scheda audio, trasformatore, 70 x 70 x 20 cm © Collezione dell’artista

Le complesse implicazioni psicologiche e economiche – e quindi artistiche e cognitive – delle video-tecnologie analogiche e digitali (in primis: il cinema e la tv) sono state esplorate dagli operatori della video arte. Si pensi alle installazioni e alle performance di colui che ne è considerato il pioniere: l’artista sudcoreano Nam June Paik (Seul, 1932 – Miami, 2006)). Nessun aspetto luddista e primitivista è rintracciabile nel suo lavoro su tv, schermi, video-riproduzione[2].

La sua lunga e vasta produzione ha affiancato l’approccio induttivo e psicologico a quello propriamente riflessivo e estetico: la distorsione e la replicazione – presenti nell’immagine tecnologica e virtuale rispetto alla percezione dell’oggetto reale e in presenza – sono da lui evidenziate ed esasperate, ma non già per indicare la presunta contraffazione della realtà operata dai media, quanto piuttosto per mettere in risalto lo spessore eidetico interno al lavoro delle macchine riproduttive e il ruolo attivo che può svolgere l’operatore in «simbiosi» con la macchina, sperimentandone o alterandone il funzionamento.

Fig. 5 ROSA BARBA, Western round table, 2007 installazione / 2 proiettori 16 mm, 2 pellicole 16 mm, loop, sonoro ottico, 2’ © Collezione Nomas Foundation

Con la sua travolgente ironia, Nam June Paik riuscì a collocarsi sulla faglia che si produceva nella quotidianità e nella comunicazione della società occidentalizzata a causa del diffondersi progressivo/regressivo del cambiamento tecnologico. Da un lato emergeva il neo-primitivismo provocato dalla deculturazione per la morte delle vecchie tecnologie analogiche, dall’altro lato si faceva strada, con fatica, una nuova dimensione psicologica e culturale più adatta allo scenario post-industriale.

Tra gli anni ’60 e i primi anni Settanta, la video arte si è mossa in un contesto caratterizzato dalla disseminazione delle nuove lingue estetiche della Pop Art, dell’arte ambientale, della body art, dell’arte povera, della musica sperimentale, delle nuove forme del teatro e della danza. Si pensi all’area degli artisti del Gruppo Fluxus.

Fig. 6 DANIEL BUREN, D’un cadre à l’autre : 5 images/fragments d’un modèle retransmis directement à l’échelle 1/1, 1974/2022 video ‘in situ’ / carta serigrafata a righe, 5 schermi, 5 videocamere. Courtesy l’artista, Collezione Musée national d’art moderne, Centre Pompidou, Parigi

La politicizzazione neo-marxista dell’arte – particolarmente marcata negli anni dal 1968 al 1977 – non andò nella stessa direzione delle ricerche plurali delle neo-avanguardie: i due movimenti veicolavano una visione diametralmente opposta della società neo-capitalista e poi post-industriale.

Fig. 7 Gli artisti e i linguaggi della televisione, 1959 – 1996, a c. di Francesca Gallo e Paola Lagonigro, video a ciclo contino con cuffia

Il risultato fu una pratica di sperimentazione nelle arti visive e un distacco dalla tradizione accademica finalizzati alla missione politico-riflessiva e contro-informativa dell’artista che veniva enfatizzato nel suo ruolo di operatore critico e indipendente dal sistema. Una prova di tale distonia si trova nell’interpretazione antitetica della Pop-Art affermatasi negli USA e in Europa[3].

L’abbandono dei mezzi espressivi dell’arte moderna (pennello, pigmenti, marmo e metalli nobili) e dei nuovi materiali adottati dalle arti visive negli anni ’60 (sacchi, ferro, plastica, polistirolo, cemento, colori acrilici …) – a favore delle tecnologie della video-riproduzione – ha collocato la video-arte in una posizione asimmetrica anche rispetto ad alcuni orientamenti delle avanguardie storiche (espressionismo, cubismo, surrealismo …) che finivano con l’apparire compatibili con la tradizione artistica europea.

La video arte ha cercato di instaurare un rapporto pubblico/video diverso da quello proposto dal cinema e dalla TV. La fruizione era lenta, ma attiva, interrogatrice dell’opera e non immediatamente spettacolare e gratificante. Ciò poteva suscitare una percezione «annoiata» rispetto alla vivacità e alla spettacolarità «in presenza» delle altre forme artistiche. Risultava meno rassicurante anche rispetto alla comodità della fruizione passiva preferita dal pubblico-massa della televisione e del cinema.

In realtà la fruizione lenta e la necessità di integrare cognitivamente l’immagine riprodotta – non dimentichiamo che Marshall McLuhan scrisse che la televisione era un media «freddo» – consentivano ai video artisti e ai loro spettatori di prendere coscienza delle potenzialità di una tecnologia che faceva della condivisione istantanea e delocalizzata i suoi punti di forza.

La  pericolosità della televisione – come delle tecnologie digitali – si trova, piuttosto, nella sua potenza di diffusione di memi semplificati che possono contagiare masse sterminate di utenti assuefatti alla comunicazione massificata e inconsapevole attuata dalla televisione.

Fig. 8 SERVIZIO RICERCHE E SPERIMENTAZIONE RAI, a c. di Alice Pio, 1970 – 1984, video a ciclo continuo con cuffia

Dalla metà degli anni Settanta la videoarte – con il lavoro di artisti e centri indipendenti, ma anche con la ricerca organizzata di aziende come la RAI – ha proposto forme complesse di ibridazione tra i linguaggi naturali, i linguaggi artistici e i dispositivi tecnologici.

Punto di incontro era proprio l’utilizzo sperimentale della video-ripresa e del video-documento come «mezzo attivo» di interazione fra l’artista, il dispositivo elettronico e il pubblico. Oggi è diventato evidente il fil rouge che collega il variegato mondo della video arte e del cinema di artista alle attuali forme di computer art.

Dagli anni Novanta il formato di installazione di video e dei multimedia ha trovato spazio nei musei – in funzione didattica e informativa, ma anche esteticamente autonoma – e nella gallerie d’arte. È stato anche accolto in manifestazioni istituzionali come la Biennale di Venezia. Infine, negli anni Duemila, si è accentuato l’inserimento della videoarte nel territorio dell’immagine dinamica e elettronica implementato dalle tecnologie digitali.

Giulio de MARTINO   Roma  24 Aprile 2022

La mostra

IL VIDEO RENDE FELICI. Videoarte in Italia

 12 aprile – 4 settembre 2022

Palazzo delle Esposizioni. Roma, via Nazionale, 194

GAM – Galleria d’Arte Moderna. Roma, Via Francesco Crispi, 24

A cura di Valentina Valentini

Promosso da Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Azienda Speciale Palaexpo.

Organizzazione di Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Azienda Speciale Palaexpo e Zètema Progetto Cultura.

 Collaborazione scientifica di Sapienza Università di Roma | Dipartimento di Design Pianificazione, Tecnologie dell’Architettura.

Catalogo a cura di Cosetta Saba e Valentina Valentini, edito da Treccani.

NOTE

[1] Ad integrazione di quanto repertoriato aggiungerei la mediateca e cineteca degli “Archivi Mario Franco”, ospitati a “Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea”. Attivi da qualche anno nel quartiere Materdei di Napoli conservano materiali in film e video prodotti dalla metà degli anni ’70.
[2] Vedi: Nam June Paik, Media Planning for the Postindustrial Society. The 21st Century is Now Only Twenty-Six Years Away, 1974.
[3] Vedi: Andy Warhol, The philosophy of Andy Warhol (from A to B and back again), 1975; AA.VV., Transiti d’arte. Dall’avanguardia al contemporaneo, a cura di Antonio Dentale e Ciro Esposito, Napoli, Guida, 2011.