La Grande arte di Saro Mirabella, una pittura che riassume un’epoca e che non può essere dimenticata.

di Sergio ROSSI

SARO MIRABELLA E LA SICILIA DIMENTICATA

Saro Mirabella (Catania 1914-Roma 1972) è stato uno dei più grandi pittori italiani del Novecento,

dello stesso livello, per intenderci, di Guttuso, Morlotti, Levi (tanto per citare volutamente artisti molto diversi tra loro) oggi però così più famosi di lui. Eppure in vita, a partire dal 1949, egli ha partecipato a quattro Biennali veneziane (XXIV, XXVI, XXVII, XXVIII), ad altrettante Quadriennali romane ed ha esposto praticamente in tutto il mondo, da Parigi a Varsavia, da Mosca a Berlino, da Londra a New York, ottenendo ovunque riconoscimenti, consensi e la stima e l’apprezzamento di artisti del calibro di Siqueiros e di Picasso. Ed allora come spiegare l’odierno oblio?

Certo può avervi influito la precoce ed improvvisa scomparsa a soli 57 anni, ma penso che ancor di più abbia pesato l’essere egli un autentico spirito libero come pochi, combattente partigiano, antifascista, comunista libertario e non sempre in linea con i diktat del P.C.I., ma soprattutto un pittore che si è mantenuto ostinatamente fedele al valore sociale e comunicativo della pittura senza nello stesso tempo rinunciare a sperimentare vie nuove, da Forma 1 all’informale, finendo per scontentare sia i critici tutti orientati verso il “realismo socialista” che i sostenitori dell’astrattismo.

Oggi però siamo finalmente consapevoli che dipingere una figura umana, una natura morta o un paesaggio è attuale così come esporre una installazione di arte povera o affidarsi alla computer graphic o alla video art e, tramontata ormai la grande utopia dell’arte concettuale, si è tornati ad apprezzare in un’opera d’arte la cura fattuale, possiamo ormai anche dire artigianale, con cui essa è eseguita, senza per questo nulla togliere al suo valore intellettuale. Inoltre si può riconoscere che tra razionalità e fantasia o, per dirla in altri termini, tra ragione e sentimento, non vi è alcuna incompatibilità e che entrambi questi elementi sono necessari per la perfetta riuscita di un’opera d’arte; e che infine la vera discriminante non deve più porsi tra artisti astratti e artisti figurativi, ma tra coloro che sanno usare insieme la mente e la mano, qualsiasi tipo di arte facciano e coloro che non sanno farlo.

D’altra parte dipingere un dipinto completamente astratto può esprimere una profonda ribellione contro la società contemporanea almeno quanto se non più di un’opera di forma e contenuto realistici. Si pensi ad esempio a Pollock e alla sua critica radicale nei confronti dell’alienazione capitalistica del suo tempo, arte dunque anch’essa a suo modo ‘impegnata’, almeno quanto i murales di Diego Rivera. E non sarebbe poi molto parziale ricondurre questi ultimi, così pieni di simboli ancestrali, fermenti magici, allucinazioni poetiche, richiami alla tradizione Maya, entro la troppo semplicistica etichetta di “figurativi”?

E quanto sono più ‘rivoluzionarie’, come ho già sostenuto in altra sede, le opere di Kasimir Malevich (che tra l’altro sarebbe improprio definire astratte perché sono in realtà piene di figure che mirano a cogliere l’essenza stessa dell’umanità filtrata nella sua purezza assoluta, e penso a capolavori come Casa rossa, Presentimento complesso, Cavalleria rossa, tutti del ’32), più rivoluzionarie dicevo della goffa e volgare retorica dei muscolosi operai di Kuzma Petrov-Vodkin o dei giovani membri del komsol militarizzato, ridicole marionette, di Aleksandr Samochalov, o ancora nelle statue grondanti del peggiore “realismo socialista” della premiatissima Vera Muchina, come L’operaio e la kolkhoziana del 1936.

Ancora negli anni ’70, invece, la diatriba tra arte figurativa ed arte astratta era pienamente in corso e basta leggere il necrologio, pur assai elogiativo, che tributava a Mirabella Dario Micacchi su L’Unità del 4 febbraio del 1972, in occasione della morte, per rendersene conto. Del nostro veniva infatti sottolineato “lo stile realista contadino e polemico e il disegno essenziale della vita dei pescatori e dei minatori siciliani” ed egli veniva definito “pittore del popolo e della natura della Sicilia”. Non un cenno, neppure di sfuggita, alle sue esperienze astratte, come se appartenessero ad un altro pittore.

Ed anche un critico attento ed appassionato, nonché suo grande amico come Franco Grasso, ancora nel 2000, nella grande retrospettiva palermitana di Palazzo Ziino, scrivendo a proposito di “opere dello stesso anno ma di segno diverso, concepite nell’alternanza tra la figurazione e l’astrazione” aggiungeva: “né abbiamo biasimato il nostro amico- del quale ben conoscevamo la sincera fedeltà alla propria ispirazione- per un ‘ritorno di fiamma’ che intorno al ’65 lo conduceva a ulteriori sviluppi dell’astrattismo”.

Ecco, questi ultimi erano visti come una sorta di “mattana” da perdonare e non come la prova di una forza interiore ed un prorompente senso del colore che non potevano essere imbrigliati in schemi e “ismi” ormai anacronistici.

Ma procediamo con ordine.  Nel 1989, nella mia scheda sul nostro artista per il Catalogo (Guido Novi editore) della mostra Presenze siciliane. Arte del XX secolo (Roma, Complesso monumentale del San Michele, 2-28 giugno) scrivevo parole che ancor oggi confermo per intero e, senza falsa modestia, potrei definire profetiche:

“Possiedo di Saro Mirabella un nitido ricordo personale che risale ormai a quasi vent’anni fa: andai a trovarlo nel suo studio al quartiere Flaminio, che mi apparve pieno di splendidi quadri. Mirabella mi accolse con la spontaneità che gli era propria e mi colpì la sua curiosità di parlare con uno studente universitario quale io ero, di offrire consigli e pareri e, cosa ancor più rara, di ascoltare con autentico interesse il parere di un giovane sulla sua arte”.

Scriveva Guttuso, che di Mirabella fu collega ed amico:

“Se io dico, ad esempio, che egli è tra i realisti uno dei pittori italiani più stimati; se dico che egli è tra i pittori che hanno mantenuto maggiore fedeltà alla propria ispirazione (e sono pochissimi) approfondendo sempre di più, acquistando di anno in anno maggiore libertà espressiva, maggiore slancio, maggiore decisione, non faccio che registrare fatti obbiettivamente veri; fatti di cui tutta la critica italiana è a conoscenza, anche quella parte di essa critica che ostenta nei confronti degli artisti che ancora osano dire in pittura albero, volto, cielo, una distaccata, superiore ignoranza (ammesso che l’ignoranza possa mai essere ‘superiore’). In realtà tutti sanno che in mezzo all’attuale buriana, Mirabella è un punto fermo, un approdo sicuro, che il suo lavoro aiuta ad avere fiducia nella pittura, nella visione serena, nella poesia”.
Esecuzione, 1948

Ora che molti pittori fingono di avere scoperto loro la pittura figurativa agli inizi degli anni Ottanta, o che si è aperta la caccia agli epigoni degli epigoni della “Scuola Romana”, è sicuramente deprecabile che quello che Guttuso dichiarava essere tra i pittori realisti uno dei più stimati, addirittura un punto fermo, un approdo sicuro, sia caduto nel dimenticatoio».

E ad oltre trent’anni di distanza questo silenzio è divenuto ancora più ingiusto e assordante.

Trasferitosi a Roma dalla natìa Catania nel 1937, lo stesso anno della venuta definitiva di Guttuso nella città, Mirabella si accosta anch’egli agli ultimi esiti della Scuola Romana, filtrandoli attraverso la lezione di Cézanne e l’accostamento alla poetica cubista, come dimostrano questi due densi e ‘rotondi’ Paesaggi del ’46 e del ’47 in cui si possono anche ravvisare echi (penso inconsapevoli) delle coeve esperienze di Ennio Morlotti, o un Ponte Milvio di poco posteriore e che sembra piuttosto dipinto a Collioure.

Ma in contemporanea, e questo ha fatto da subito impazzire i critici, il suo violento e radicato senso del colore lo porta a sviluppare le premesse per una semplificazione geometrica delle forme naturali (che era del resto insita anche nella pittura guttusiana dell’immediato dopoguerra) e lo conduce ad un senso di ancora più astratto lirismo e, grazie alla vicinanza con gli artisti di Forma 1 gli fa sviluppare per un breve periodo le tematiche astratte in opere in cui convivono rigide impalcature geometriche e libero senso del colore (Composizioni astratte 1 e 20).

Composizione astratta 1947

Si tratta di esperienze così commentate, molto significativamente, da Franco Grasso:

«Spiccano per il loro splendore, le pure forme geometrizzanti delle Composizioni astratte aderenti ai principi generali di Forma 1, non a criteri stilistici prestabiliti: larghe foglie, triangoli, archi di cerchio, trapezi, collocati su piani aprospettici, colpiscono per il contrasto degli azzurri e dei viola coi verdi e vermigli sui fondi giallo cromo. Positivo è il giudizio della critica sulla qualità delle opere, difficile l’interpretazione dei motivi e delle emozioni che le hanno ispirate: il volo della fantasia nell’inesauribile gioco delle apparenze; una felice rêverie ad occhi aperti; o piuttosto l’esigenza di dare ordine, equilibrio, rigore ai rapporti delle forme e delle superfici cromatiche. Mirabella comunque, dopo la produzione di una fitta sequenza di questi dipinti [che Grasso, non ostante tutti gli sforzi e le migliori intenzioni proprio non riesce a mandar giù], sembra deciso a non ripetersi e ad impegnarsi in altre direzioni: saranno gli eventi a guidarlo sulla via maestra [sottolineatura mia] della realtà e della solidarietà umana, proprio in un momento in cui in Sicilia, a un mese dal manifesto di Forma, la mafia scriveva a lettere di sangue il suo avvertimento a Portella della Ginestra: 1 maggio 1947».

Come se dipingere quadri astratti ed opporsi alla mafia fossero due cose inconciliabili!

Anche Mirabella, comunque, dovette pensarla così. Ed ecco allora i drammatici acquerelli de L’esecuzione o del Prigioniero o il poderoso olio de Il pescatore con specchio del ’49,

quasi un manifesto della sua nuova tendenza che egli comunque affianca al sintetico e neocubista ritratto della moglie Emma del ‘48 ed al bellissimo e malinconico ritratto della figlia Tanina dell’anno seguente.

Siamo ormai a ridosso di quelle che sempre Grasso definirà “le felici stagioni estive del ’49 e del ’50 a Scilla e sulle rive dello Stretto”, il cui emblema è questo autentico capolavoro Donna di Scilla.

Nella cittadina calabrese il nostro dà vita a quella che impropriamente verrà chiamata appunto Scuola di Scilla ma è invece un libero e fecondo scambio tra artisti, Guttuso, Mazzullo, Omiccioli, Treccani autori tra l’altro proprio tra il ’51 e il ’53 (insieme a Mucchi e Vespignani) di quella splendida serie di taccuini di disegni della collana de “Il disegno popolare” divenuta oggi una vera rarità bibliografica. E’ tutto un mondo nel segno del neorealismo che ha prodotto anche nel cinema opere indimenticabili da La terra trema di Visconti a Ladri di biciclette di De Sica a Riso amaro di De Santis.

A Scilla, comunque, e poi per un breve periodo anche tra i braccianti e le sarchiatrici di Mezzano di Romagna, Mirabella ha prodotto dei memorabili disegni che si impongono per la nettezza del segno e la fulminea capacità di sintesi. Giunge così opportuna un’altra bellissima pagina dell’amico Guttuso che a proposito della grafica mirabelliana scriveva nel ’55:

«E’ indispensabile segnalare la posizione di assoluta lealtà nei confronti dell’ispirazione, di onestà artigiana, di rinunziare a far colpo che distingue l’opera di Mirabella, e gli assegna un ruolo, ingrato forse per i vantaggi personali che ne può trarre, ma di grande valore nella lotta culturale per il rinnovamento dell’arte italiana. Dal suo segno profondo e nero (ma non duro, non xilografico, non tedesco), nel quale si ritrova l’eco di Courbet e di Géricault, scaturiscono quasi senza sforzi, alberi, case, persone, e soprattutto condizioni umane e sentimenti. I sentimenti elementari, ma ricchissimi di accumulata meditazione, propri dei suoi personaggi preferiti: i contadini siciliani, i pescatori dello stretto, i braccianti della “Dulcea di Nelson”, discendenti, figli, nipoti, degli uomini di Spartaco, delle Jacqueries, di garibaldini traditi: umiliati e offesi ma contorti e induriti come l’ulivo saraceno e carichi di moderna coscienza».

Già nel ’51 Libero Bigiaretti scriveva:

«Il segno di Mirabella è sempre nitido e vigoroso, senza trucchi e sofisticazioni, sia che si serva della matita, sia che adoperi penna e pennello, il nostro giovane artista tende a raccontare, definire, attraverso una resa immediata, diretta».

E Nicola Ciarletta nel 1958 aggiungeva:

«Immediato, puntuale, sintetico, Mirabella scorre rapidamente sul foglio esaltando nel bianco con pochi tratti che hanno il potere d’impiantare robustamente larghe masse e volumi. Ho già scritto in altre occasioni- e qui torno a ripetere- che egli possiede qualità di scultore. Sono convinto del resto che nessuno potrebbe eguagliarlo nel tratteggiare grandi figure su grandi superfici».

Si tratta in sostanza di splendidi volti come incisi nella pietra e degni del miglior Guttuso, come “Il compare Peppe”, “Dadu”, “Antonio il Ciclope”, “Il bracciante di Melia”, che bucano letteralmente lo spazio e ci fissano come per dirci che i tempi del Gattopardo e dei Malavoglia sono finiti, anche se poi abbiamo scoperto che purtroppo non è stato così. Ma sono anche splendidi volti e nudi di donna, plastici e guizzanti. E sono soprattutto, come aveva previsto Ciarletta, grandi carte e cartoni dalla potenza di un murale messicano che ci parlano delle barche sullo stretto, del ritorno dalla pesca, della mattanza del tonno, dei rammagliatori di reti ad Acitrezza.

Non si pensi però che Mirabella nel frattempo abbia smesso di dipingere o abbia rinunciato al suo senso innato del colore, come dimostrano i suoi ulivi “induriti e contorti” di cui parla Guttuso, i suoi fichi d’India giganti, quasi un inno alla natura selvaggia e solare della natia Sicilia, una mareggiata sullo stretto romantica e incendiaria, i suoi contadini e contadine, colti nei campi come nelle saline con un nitore di visione assoluto.

Nitore che ritroviamo anche in certi pacati interni come una natura morta con aringhe, o dei limoni su fondo rosso o ancora un rembrandtiano bue squartato.

Natura morta con aringhe

Tutti dipinti ammirando i quali Grasso avrebbe dovuto comprendere che le esperienze astratte e informali avevano arricchito e non pregiudicato la produzione mirabelliana di segno neo realista, come dimostrano l’assolutamente informale Trama del’69, i Tronchi della stesso anno e ancora L’uliveto dell’anno seguente. Di fronte a questi quadri chiedersi se sono figurativi o astratti è un puro esercizio accademico, sono bei quadri e basta.

Prima di chiudere voglio aggiungere che se il caso di Mirabella è il più clamoroso, sono molti altri gli artisti siciliani di sicuro spessore di cui già nel citato Catalogo Presenze siciliane lamentavo, del tutto inascoltato, il precoce oblio che ad oltre trent’anni di distanza non ha fatto che ingigantirsi. E penso ad esempio a Franco Cannilla, che addirittura è stato inserito nel famoso manuale di Argan su L’arte moderna e di cui scrivevo:

«Artista schivo e solitario in vita, sempre, forse troppo in sintonia con i tempi se non addirittura in anticipo su di essi (e chi ha ragione troppo presto non è mai molto ben visto) non si presta ad alcuna operazione  di tipo facilmente commerciale; tuttavia attraverso il suo recupero si potrebbe ricostruire un pezzo di storia dell’arte italiana straordinario per fermenti e tensioni creative».

Penso ancora a Sebastiano Carta

«Coraggiosa ed isolata tempra di pittore, incisore, poeta, con la mente curiosa del nuovo e un gusto istintivamente moderno, che è stato presto dimenticato e del quale una esposizione personale che ricostruisca le vivide tappe della sua carriera sarebbe un avvenimento di sicuro richiamo culturale, perché egli, tra i pochi, aveva capito che l’esito autentico dell’arte futurista andasse rintracciato nella pittura informale».

Penso a Nino Garajo, pittore di Bagheria, conterraneo ed amico di Guttuso, di cui era più giovane di sei anni e da cui differiva «per le sue note più intime e nervose, come i suoi splendidi disegni o acquerelli di contadini confermano. Sono ritratti tenuti in punta di penna, con un segno nitido e puntuale, che raccontano la rassegnazione più dell’ansia del riscatto. Ecco il punto: Garajo, pittore anch’esso politicamente impegnato, sa però esprimere e sviluppare trame di solitaria disperazione più che cantare epopee di speranze e di lotte: sono due facce, quella di Guttuso e Mirabella e questa di Garajo, che messe insieme formano la medaglia della Sicilia degli anni ’50 e ‘60».

Penso soprattutto ad Alfonso Corsaro, di cui non so assolutamente che fine abbiano fatto le (alcune bellissime) opere e che mi apparve come: «un maturo signore siciliano dai tratti schivi e gentili, colto e introverso, povero e quasi sconosciuto come artista, anche se di indubbio valore. Non conosco -scrivevo allora- il motivo che spingeva Corsaro all’autodistruzione (che culminerà nel suicidio) ma penso che di fronte ai suoi quadri si rasserenasse ed in effetti essi non lasciavano trasparire minimamente il mondo di angosce del pittore, di cui apprezzavo soprattutto le meditazioni polimateriche sul tema della notte, che mostravano sì lunari paesaggi di solitudine, ma senza dramma, come di pathos sospeso, almeno così a me pareva, ma non era. Poi la morte e l’oblio totale, come spesso accade».

Sergio ROSSI  Roma 13 dicembre 2020