La “Bellezza difforme” delle sculture di Maria Cristina Carlini  

di Sergio ROSSI

A partire dalla sua nuova opera “La luce dopo il buio esposta in anteprima alla Nuova Galleria Morone di Milano nella mostra collettiva “ORO&BLU” a cura di Vittoria Coen e poi di seguito con una personale alla Fondazione Stelline ed ancora con “Foresta” negli spazi di Superstudio durante Design Week 2022, sempre a Milano, l’attività espositiva di Maria Cristina Carlini ha conosciuto in questi ultimi mesi un’ulteriore accelerazione, confermando come la scultrice sia oggi senza alcun dubbio una delle più significative protagoniste del panorama artistico italiano.

Di recente ho avuto modo di recensire su About Art il bel libro a cura di Stefano Colonna dedicato all’Architettura liquida[1] e vi ho trovato alcune premesse teoriche che ben si adattano alla “filosofia” che sottende l’attività della nostra artista. Nel suo saggio introduttivo al volume, Colonna risale alla definizione di “anticlassico” formulata a suo tempo da Giulio Carlo Argan: quel codice, secondo lo studioso, deriva da una contrapposizione dialettica tra pieno e vuoto, sopra e sotto, che ritroviamo in Palladio e prima ancora in Michelangelo, che ad esempio nel Palazzo Farnese a Roma ma anche nel Giudizio Universale sovverte proprio i canoni del classicismo rinascimentale.

E’ noto infatti come nei palazzi fiorentini del ‘400 si concepiva un’ascesa graduale dal bugnato rustico del piano terra al bugnato liscio del piano nobile alla parete liscia dell’ultimo piano, cioè dal più pesante al più leggero. Il Buonarroti ribalta proprio questo schema nel Palazzo Farnese, dotando l’edificio di un pesante cornicione che rovescia proprio i canoni classicisti del Sangallo; e del resto anche nel Giudizio Universale l’affollamento delle figure è concentrato nella parte superiore dell’affresco mentre in basso abbiamo solo corpi che fluttuano leggermente nel vuoto pneumatico di un cielo cristallino.

Tornando al testo di Colonna sono d’accordo con lui quando egli ravvisa nel concetto di anticlassico, già ampiamente scandagliato da Argan, Zevi e Novak, la premessa fondamentale per comprendere quello che si intende per “liquido” in architettura [ed io aggiungerei in scultura] ossia «la volontà di proporre un modello “de-costruttivo” alternativo al “classico” di cui si spezzano le regole di parallelismi e simmetrie a favore di linee zigzaganti, forme in contrapposizione monadica secondo schemi ispirati alla idrodinamica e alla aerodinamica come il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry a loro volta ispirate alla teoria della Relatività di Einstein e alle sculture futuriste di Umberto Boccioni»[2].

Nello stesso volume parlando di “Design liquido” Roberta Strocchi[3] lo definisce come continua sperimentazione estetica, formale, materica, percettiva e sensoriale, sperimentazione che guarda però alle fonti ed alla tradizione come punto imprescindibile di partenza per ogni successiva innovazione: elementi che troviamo tutti anche nelle sculture della Carlini cui si attaglia alla perfezione questa celebre frase di Baudelaire: «Quel che non è leggermente difforme ha un aspetto insensibile: ne deriva che l’irregolarità, ossia l’imprevisto, la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza». E la stessa Carlini osserva: «La scultura è parte del luogo in cui si trova, è fatta dellʼopera e dello spazio che la contiene, così da non essere un corpo estraneo, ma una parte della vita che la circonda», riprendendo uno dei principi fondanti della “liquidità” in architettura e scultura (non a caso F. Gualdoni definisce “monumentali” le opere in ferro e acciaio della nostra artista).

La luce dopo il buio

Iniziamo la nostra analisi proprio da La luce dopo il buio [1] che presenta un portone a losanga fatto con legno di recupero e come incendiato al centro da un’esplosione d’oro: si tratta di una soglia solo apparentemente chiusa, che cela imperscrutabili misteri e “racchiude in sé il fascino di un passato ignoto, pur trattenendo una memoria comune e condivisa che trasforma in straordinario l’ordinarietà del quotidiano”, come recita il breve testo di presentazione della mostra Oro Blu. Ma la porta, come la chiave, nella cultura ermetica, simboleggiano l’entrata in opera ed il modus operandi dell’alchimista, mentre l’oro ne segnala il coronamento finale; quindi questa scultura in pratica racchiude e comprende tutti gli altri significati e rappresenta l’inizio e la fine dell’intero procedimento alchemico. Ma lo fa affidandosi all’immediatezza dell’impatto visivo ed alla sua forza evocativa che portano la nostra mente ad immaginare luoghi lontani e che quella porta, una volta aperta, possa introdurci in un meraviglioso Palazzo da Mille e una notte.

Procedendo ora rapidamente a ritroso, notiamo subito che una delle principali caratteristiche della Carlini consista nella sua straordinaria capacità di piegare al suo istinto creativo i materiali più diversi e come osserva Flaminio Gualdoni

«la sua idea di naturalità non risiede nella loro selezione, siano il legno o la terra, la resina o il corten. Sta piuttosto nel costituirsi della forma come struttura intimamente astratta ma che s’intende come coagulo d’un comportamento essenziale nello e dello spazio d’esistenza. Che Carlini agisca in dialogo con lo spazio urbano, con l’identità architettonica del luogo oppure con il contesto naturale, l’approccio non muta. Ciò che sempre caratterizza l’autrice è una sorta di tensione energetica, di agonismo febbrile con le materie e con le forme trovate – negli anni ultimi il legno di recupero porta tutta la sua storia dimessa entro gli spessori di sensibilità dell’opera – e soprattutto di una formatività costruttiva che non preordina, ma ausculta complice ciò che le materie stesse potrebbero divenire».
Bosco

E così Bosco del 2019 [2] inscena un vorticoso carosello di alberi in ferro lievi come i tratti di un carboncino nero su di un foglio di carta e che mi ricordano un Bosco barocco di uno scultore geniale ma oggi dimenticato come Angel Orensanz.

In Origine, dello stesso anno, in gres e tecniche miste, la materia si solidifica ma mantiene la sua linearità verticale, mentre con La chiusa. Omaggio a Leonardo, [3] in legno di recupero e foglia d’oro,

La chiusa, Omaggio a Leonardo
Laocoonte

la Carlini anticipa La luce dopo il buio, ed è come se quella porta di cui abbiamo parlato all’inizio si squadernasse in una sorta di libro aperto che coinvolge in pieno lo spazio circostante.

Ancora un alternarsi di legno ed acciaio lo ritroviamo ne I guardiani del segreto, del 2016 un anno particolarmente prolifico per la Carlini, come dimostrano anche Libro dei morti e soprattutto Lacoonte, [4] una delle sue opere più riuscite: qui l’ennesima porta a doghe in legno di recupero viene avvolta e come soffocata da una serie di spire dorate che ci riportano alla memoria il tragico destino dell’antico sacerdote troiano.

 

La città che sale

Con La nuova città che sale, in acciaio corten e legno, del 2014 [5] e che ora è installato in permanenza presso la Fiera Milano-Rho, la nostra artista si cimenta in una vera e propria archeo scultura alta dieci metri e che è una sorta di piramide a gradini dove gli elementi verticali e quelli orizzontali si intersecano in un impianto dinamico dal forte impatto emotivo e che ci riporta alle prime sperimentazioni futuriste.

Dinamismo che era già stato fatto proprio con successo in Vento ed in Samurai, sempre del ’14, che sfidano le leggi di gravità con la loro apparente leggerezza non ostante siano stati costruiti con materiali pesantissimi. In Legni ed in Soglia [6], entrambi del 2012, la Carlini anticipa i temi che la caratterizzano dieci anni più tardi, dando vita nel primo caso ad una sorta di enigmatica foresta pietrificata e nel secondo cimentandosi col tema del valicare un limite, uno spazio, un destino, una soglia appunto, che non è solo fisica ma anche mentale.

Soglia

In Granvia, in acciaio corten, del 2010, tutta linee sincopate e zigzaganti, un materiale ostico come l’acciaio acquista una incredibile leggerezza ed è come se un benevolo mostro marino uscisse a prendersi il sole sul lungomare di Barcellona.

Abbiamo così ricostruito, andando a ritroso, più dell’ultimo decennio della produzione della Carlini e possiamo così tentare un primo bilancio critico della sua scultura che, come osserva Luciano Caramel

«è attuale nel senso di aderire al clima culturale odierno, nelle sue implicazioni non solo estetiche e artistiche, con uno scarto netto dalle connotazioni tradizionali della scultura, dai suoi attributi classico-monumentali, che la chiudevano in unʼoggettualità fatta di ingombro spaziale definito, di peso, di materia, in sintonia con le finalità memoriali e celebrative che soprattutto la motivavano dandole una legittimità funzionale. Ma nel contempo non avanguardisticamente iconoclasta, non autoreferenziale, e neppure pregiudizialmente negatrice dei caratteri formativi, manuali, tecnici statutariamente propri, per secoli e millenni, del fare scultura, frequentati dallʼartista fin dalle sue iniziali prove nella ceramica, del resto tuttora praticata, e sottesa, nella progettazione, alla sue stesse opere ultime».

La scultura della Carlini, come notavo all’inizio, è sostanzialmente anticlassica nel suo ribaltamento dei concetti basilari di pieno e vuoto, alto e basso, liquido e solido ma assolutamente non iconoclasta, e qui concordo con Caramel, perché il riferimento ai grandi maestri del passato, da Leonardo a Bernini, agisce sempre come sottotraccia e la guida nel suo continuo sperimentare: del resto anche Michelangelo o Borromini erano “anticlassici” eppure rispettosi dei canoni fondamentali dell’arte del loro tempo.

Vi è poi in questo decennio tutta una serie di opere in gres di piccole dimensioni che derivano proprio dalle “sue iniziali prove in ceramica” ed hanno la stessa funzione dei bozzetti in terracotta o gesso usati dai grandi maestri del passato come anticipazione e studio delle loro opere monumentali.

A questo punto facciamo un salto a ritroso di un altro decennio per accorgerci che i temi fondamentali del suo fare scultura non sono sostanzialmente mutati nel corso del tempo. Così il concetto di limitare lo ritroviamo poi, seppure declinato in altra forma, in Passaggio, in gres, del 1998, un muro compatto che si apre proprio al centro coinvolgendo lo spazio circostante che diventa protagonista dell’opera; e lo stesso modo di procedere lo ritroviamo nel coevo Porta, in gesso, tufo e gres, dove il muro precedente assume una forma sincopata e sbilenca, e il limite tra dentro e fuori, non solo fisico, ma anche psicologico ed esistenziale rimane il suo leitmotiv di fondo. Una monumentalità compatta e allo stesso aerodinamica la troviamo in Out & inside del 2004, quasi una prova di dimensioni ridotte per Una nuova città che sale, esattamente di un decennio posteriore. Nella bellissima serie degli Stracci, del 2006, in gres con cuciture in ferro, la scultura della Carlini acquista un’improvvisa leggerezza ed è come se essa volesse portarci in un villaggio indiano di prima dell’arrivo dei conquistatori bianchi, memore della sua giovanile permanenza a Palo Alto in California.

Ancora un riferimento etnografico, lo abbiamo con Africa, dello stesso anno, dove la nostra A. adopera le forme circolari, a lei meno consuete e che ritroviamo in Madre, [7] in acciaio corten, dove il riferimento a Pomodoro sembra ineludibile ma in realtà è molto più indietro che bisogna risalire, al mitico uovo di Piero della Francesca ed al tema stesso della maternità cui allude la fenditura della superfice rotonda della statua e in definitiva al tema universale della “creazione del mondo”.

Madre

Ed è soprattutto a questa scultura che si adattano le considerazioni più generali di Elena Pontiggia quando osserva: «Il compenetrarsi di pittura e opera plastica, caratteristica costante di Maria Cristina, trova ora nuove declinazioni. Siamo di fronte a una scultura che non grava verso terra, ma tende a divenire leggera e a proiettarsi nell’aria, oppure ad addossarsi alla parete senza però gravare sul muro.

La serialità, che queste opere comportano, si tramuta in una ripetizione musicale: come note di un pentagramma, le singole tessere, i singoli moduli si accostano fra loro a formare un accordo musicale. Ma, a ben vedere, si tratta di unità l’una diversa dall’altro (non fosse altro che per la diversità della materia, della patina, del gesto impresso sulla superficie). La natura individuale delle singole parti è quindi salvaguardata. Quello che vediamo, dunque, è una sorta di oggetto magico, totemico, che si vale della geometria, ma senza cancellare le valenze oniriche e poetiche della scultura. Che è sempre, prima di tutto, terra. E della terra conserva i valori di grembo, di fertilità, di fecondità, di mattone primario e antico, sia pure tradotti tutti in un disegno mentale».

Solo un anno prima, con La porta della giustizia, [8] in ferro e gasbeton resinato,

La porta della giustizia

la Carlini produce una delle sue opere più enigmatiche e interessanti che per certi versi mi riportano alla memoria il “Sacro Bosco” di Bomarzo o, se vogliamo spostarci molto più lontano, i magici edifici di Angkor Wat ed Angkor Thom in Cambogia, ormai inestricabilmente legati alla natura che li ghermisce e che evocano uno dei miti più antichi e affascinanti della nostra cultura, quello della Caverna:

«Percepita in tutte le epoche come anticamera segreta di un mondo sotterraneo, utilizzata in antichità come tempio sacro, sorgente spirituale e gigantesco ricettacolo di energia tellurica delle divinità ctonie è identificata inoltre, da molte culture primitive come archetipo dell’utero materno perché posta nel ventre della terra, quindi strettamente associata a concetti di nascita e rigenerazione e vissuta come un regressum ad uterum»  nei miti d’origine, di rinascita e di iniziazione»[4].

Ed ecco così che quest’opera si salda ad altre sculture carliniane che abbiamo esaminato da Madre ad Africa da Porta a Soglia in un percorso coerente ed omogeneo pur nelle sue differenti coniugazioni estetiche. Ma la caverna, insieme allo specchio, al labirinto, alla linea obliqua, alla spirale, sono tutte caratteristiche proprie dell’architettura liquida, con cui abbiamo aperto questo scritto e che trovano a mio parere nella Carlini un’autonoma ed originale coniugazione.

Crescendo

Infine, con Bosco, del 2009, quasi un’anticipazione dell’omonima installazione di dieci anni più tardi, il cerchio si chiude, all’interno di un percorso di rara coerenza e forza visiva e pone Maria Cristina Carlini nel ristretto Pantheon delle più importanti scultrici europee, al livello per intenderci di Eila Hiltunen, l’autrice del famosissimo Sibelius Monument ormai divenuto il simbolo stesso di Helsinki e di Crescendo la statua posta davanti all’Auditorium di Renzo Piano a Roma. La scultrice, del resto era una grande amante dell’Italia ed era anch’essa abilissima nel piegare e maneggiare materiali ostici come l’acciaio, come mi aveva confidato in una intervista concessami solo due anni prima della sua scomparsa e nella quale mi aveva parlato proprio di Crescendo [9] concepita quando l’Auditorium doveva ancora essere completato:

«La mia statua è alta tre metri ed è di un tipo di acciaio molto resistente agli acidi e dovrà dialogare con l’edificio di Piano ma anche con la natura circostante, perché tutt’intorno vi sono degli alberi, ed anche con la storia, perché durante i lavori di scavo sono stati trovati dei reperti romani che verranno resi visibili al pubblico. Una situazione ambientale molto complessa, come vede, e sono molto orgogliosa di fare parte di questo progetto, del fatto che una mia statua poggi, ed anzi in qualche misura possa crescere, sulla terra della città eterna. Del resto, come sa, a Roma c’è già una mia statua, “Orchidea”, vicino al lago artificiale dell’EUR, e con questa mia nuova opera il mio rapporto con la vostra splendida città diventerà ancora più forte»[5].

Sergio ROSSI  Roma 25 settembre 2022

NOTE

[1] In Architettura e museologia liquida, Roma 2022.
[2] Ibidem, pp.36-37.
[3] Ibidem, p. 99e sg.
[4] Strocchi, ibidem, p.99.
[5] Cfr. di chi scrive, Scultori e pittori dell’infinito, Roma 2013, p. 165.