Inedita”, duecentocinquanta scatti di Vivian Maier, ai Musei Reali di Torino fino al 26 giugno

di Consuelo LOLLOBRIGIDA

Siete un pensiero che canta. / Un ritornello, una gola, una nebbia. / Un ritornello di mezzanotte in pieno giorno.

Céline Walter

I Musei Reali di Torino ospitano dal 9 febbraio una delle mostre più attese dell’anno: “Inedita”, duecentocinquanta scatti di Vivian Maier (1926-2009), provenienti dal Musée du Luxemburg a Parigi dove si è conclusa lo scorso 16 gennaio.

La mostra a cura di Anne Morin racconta la vicenda umana e artistica della fotografa bambinaia, scoperta per caso solo due anni prima della morte. Correva l’anno 2007 quando fu messo all’asta il contenuto di un magazzino di cui Vivien non riusciva a pagare l’affitto. Fu così che un giovane artista, John Maloof, comprò a scatola chiusa 120.000 rullini, scoprendo una delle figure più emblematiche della fotografia del secolo scorso.

Nata a New York, da madre francese e padre tedesco, Vivian Maier, dopo un’infanzia tormentata e caratterizzata da continui spostamenti tra la Francia e gli Stati Uniti, al seguito di una madre inquieta e anaffettiva, si stabilisce a Manhattan dove inizia a fare la bambinaia nelle famiglie più ricche del nord-est degli Stati Uniti, lavoro che fece per tutta la vita.

In mostra a Torino ci sono non solo le emblematiche foto in bianco e nero, che l’hanno resa famosa in tutto il mondo, ma anche scatti a colore, video super 8 e l’inseparabile Rolleiflex, sostituita in un secondo momento da una Leica. Il percorso si snoda tra ritratti (splendidi quelli realizzati a Chicago negli anni ’60)  e autoritratti,  foto rubate nelle vie di New York e Chicago ; mani che si incrociano dietro la schiena, che si incontrano, mani che parlano per gesti piccoli e quotidiani, che scoprono verità nascoste, che sorprendono l’intimità dell’essere. Poi un’ampia sezione dedicata all’infanzia e le foto scattate nel 1959 durante un viaggio in Italia, soprattutto a Genova e Torino.

E poi le ombre. Le sue ombre, ormai divenute iconiche. Plinio il Vecchio raccontava che la pittura fosse stata inventata da una ragazza. Figlia del vasaio Sicione, Calliroe era innamorata di un giovane in partenza per un paese straniero e, per fissarne il ricordo, ne tratteggiò il viso contornando l’ombra proiettata su un muro dalla luce di una lanterna. L’ombra quindi oggetto d’amore. Così le ombre della Meier sono un atto d’amore verso un’umanità che affonda nel mondo della strada e nei quartieri popolari in Europa e negli Stati Uniti. La Meier guarda i suoi personaggi con occhi compassionevoli, senza farsi impietosire da fatti o circostanze. Il suo sguardo è una lettura-non-lettura, è una comprensione a pelle del disagio, prima che sociale, esistenziale. A differenza di Bresson, non c’è nella Meier denuncia politica. E’ la rappresentazione di quello che Michel Foucault ha definito l’uomo infame, recuperando il significato latino di persona al margine della gerarchia, di chi vive nel mondo di sotto e che, del mondo di sopra, a mala pena ne avverte l’esistenza.

«Se contempliamo l’opera della Meier nella sua integrità, dalla fine degli anni quaranta agli anni ottanta» scrive la Morin nel bel catalogo Skira «l’origine della modalità del suo linguaggio diventa chiara. Essa sembra risiedere esclusivamente nella sua esperienza del mondo, non ha altra intenzione che quella di interpellare la vita e proclamare l’autenticità».

Le foto di Vivian Maier sono accompagnate in mostra e nel catalogo dalle poesie di Céline Walter.

“Inedita” è sostenuta tra l’altro da Women in Motion, un programma della Fondazione  Kering, del magnate francese François-Henry Pinault, per evidenziare il ruolo delle donne nelle arti e nella cultura, e che dal 2015 è partner del Festival di Cannes.

Consuelo LOLLOBRIGIDA  20 Febbraio 2022