Indagine sul “padre del Grand Tour”, il cardinale Alessandro Albani, tra collezionismo, diplomazia e mercato nell’ultimo volume di Studi sul Settecento romano.

di Rita RANDOLFI

Si è tenuta il 16 marzo nella sala Pietro Cortona della pinacoteca Capitolina la presentazione dell’ultimo quaderno di Elisa Debenedetti  dal titolo Cardinal Alessandro Albani. Collezionismo, diplomazia e mercato nell’Europa del Grand Tour a cura di Clare Hornsby e Mario Bevilacqua edito da Quasar.

Con questo volume, il numero trentasette, la collana di Studi sul Settecento Romano aggiunge un contributo fondamentale allo studio dell’arte del secolo XVIII, un periodo storico che proprio grazie alla tenacia e alla caparbietà della sua infaticabile ideatrice è stato sviscerato nei suoi molteplici aspetti, che fanno di  Roma il centro di irradiazione culturale per eccellenza.

La collaborazione tra Mario Bevilacqua, Clare Hornsby, la Fondazione Torlonia, ed i contributi  di eminenti studiosi italiani e stranieri costituiscono il naturale sviluppo delle pionieristiche ricerche documentarie sulla famiglia Albani pubblicate, tra il 1976 ed il 1985, da due  equipes di storici dell’arte, una italiana, diretta dalla Debenedetti, l’altra tedesca con la supervisione  di Peter Bol e Herbert Beck.

Il convegno del 2019 è stato l’occasione per indagare la  personalità del cardinale Alessandro a trecentosessanta gradi,  come animatore culturale filo britannico, bulimico collezionista di arte antica, promotore instancabile del restauro integrativo,  regista del Grand Tour. Eppure il prelato è contemporaneamente onnipresente, tanto da condizionare i gusti, le scelte politiche e non di un secolo, e assente dai documenti, mancando un archivio di famiglia che consenta di sciogliere alcuni nodi importanti circa la sua attività.

Il cardinale Alessandro Albani

Proprio questo è il motivo per cui gli studiosi, come chiariscono lo stesso BevilacquaGasparri,  sono stati costretti a svolgere un lavoro di collazione tra varie tipologie di testimonianze per ricostruire la storia della raccolta antiquaria più importante del Settecento e della magnifica villa che la ospitò.

Settis ripercorre le tappe salienti dello sviluppo del collezionismo di antichità, e trova nell’avvento dell’Umanesimo, come del resto già evidenziato nel volume Collezioni  di antichità a Roma fra ‘400 e ‘500, a cura di  Anna Cavallaro,  le ragioni della trasformazione di mentalità e quindi di atteggiamento nei confronti delle statue, prima considerate materiale da costruzione, e successivamente valorizzate, restaurate, collezionate e mostrate, tanto che il loro possesso  diviene una questione prioritaria, il simbolo di uno status sociale raggiunto. La trasmigrazione dei pezzi antichi dalla raccolta Albani a quella Torlonia, cui è stata dedicata la mostra esposta fino ai primi di gennaio del 2022 a villa Caffarelli, e più genericamente da un proprietario ad un altro, non esplicitano soltanto le preferenze estetiche di un singolo, ma si inseriscono  in un contesto più ampio, che assume un significato politico-sociale con sfumature via via diverse. Alessandro Torlonia con l’acquisto di villa Albani, ed il desiderio di catalogare tutte le opere ivi contenute,  desidera presentarsi agli occhi dei contemporanei come un patriottico salvatore di un impareggiabile patrimonio nazionale, intenzionalità  che lo accomuna al marchese Campana.

I due saggi iniziali di Gasparri e Settis costituiscono, come rilevato anche da Varagnoli durante la presentazione del libro, la cornice ideale entro la quale prendono le mosse tutti gli altri contributi, a partire da quello di Brunella Paolini sulle lettere  conservate nell’archivio Albani della villa Imperiale di Pesaro, che hanno permesso alla studiosa, direttrice del progetto di digitalizzazione delle stesse, di raccontare uno dei viaggi a Urbino intrapresi dai fratelli Alessandro e Carlo ancora giovanissimi,  con la madre Maria Bernardina Ondedei, su richiesta di Clemente XI, per controllare lo stato dei possedimenti familiari, accertarsi della salute dei parenti e magari acquistare qualche pezzo da collezione. Alessandro manifesta già da adolescente il suo spiccato interesse per l’arte, maturato all’ombra dello zio,  che, figlio dell’illuminismo, con grande lungimiranza aveva promosso nelle Marche interventi architettonici e culturali con l’intenzione di istruire la gioventù  e migliorare  la società anche attraverso l’imprenditoria che forniva il lavoro ai residenti mediante la fabbrica dei cappelli e delle maioliche.

Il Cardinale Camillo Massimo, nel ritratto di Velasquez

La prima consapevole raccolta di statue di Alessandro si andava a sommare a quella già appartenuta a Camillo Massimo, che il cardinale sistemò nel cortile del palazzo alle Quattro Fontane. Lea Beaven mette in luce la continuità tra i due  proprietari del palazzo, una continuità sottolineata anche da Francesca Cappelletti e dimostrata persino dalla riproduzione degli affreschi della tomba dei Nasonii in una sala dove Camillo aveva esposto lacerti di pittura antica.  Ma debiti di gioco costrinsero l’Albani all’alienazione di questa collezione al primo  museo pubblico di Roma, quello Capitolino. E nonostante le diverse guide della nuova istituzione ricordino raramente il cardinale Alessandro quale  proprietario delle sculture, secondo Eloisa Dodero fu  il prelato a suggerire probabilmente  l’allestimento delle sale, in particolare di quella destinata ad accogliere i ritratti degli imperatori e la celebre statua dell’Antinoo, considerata la più bella della sua  collezione. La rivincita dell’Albani si concretizza con la costruzione della villa, che da lui prende il nome sulla Salaria, e l’acquisto spasmodico di pezzi antichi.

Varagnoli ha messo in luce come Susanna Pasquali abbia offerto un nuovo approccio per riconsiderare le fasi della realizzazione  della villa, partendo dalla disamina degli atti già noti e da quelli concernenti i  proprietari dei diversi appezzamenti di  terreno, man mano accorpati.

La Debenedetti propone una visita guidata all’interno della  villa, confrontando quanto realizzato con i progetti grafici  di Carlo Marchionni, di proprietà  della Fondazione Torlonia, disegni che l’autrice annuncia essere l’oggetto di una prossima pubblicazione monografica. I fogli presi in esame rivelano il condizionamento delle preesistenze di Nolli sul Marchionni, la sua collaborazione con Piranesi per quanto riguarda  le fontane  e le edicole, rielaborazioni talvolta di soluzioni sperimentate nelle ville di Anzio e Castelgandolfo degli stessi Albani e la completa autografia della Coffeehouse. Il ruolo di Winckelmann dunque va riconsiderato e limitato ai suggerimenti riguardanti la decorazione di alcune sale e all’impronta intellettuale dell’insieme.

Anche Spila ragiona sui progetti del Marchionni, auspicando che la pubblicazione dell’intero corpus di suoi disegni  possa gettare luce sulle diverse fasi creative dell’architetto. La Guerrieri Borsoi si concentra sull’analisi dei  conti bancari di Alessandro Albani presso il  Banco di S. Spirito nel decennio 1755-1765, che rivelano in parte i nomi dei pittori attivi nella decorazione della villa. Attraverso un rigoroso studio dei pagamenti la studiosa individua in Agostino Irlandieri, pittore di paesi,  l’autore di dipinti mobili, mentre Domenico Fattori risulta l’artefice degli affreschi della Coffeehouse. L’artista più pagato resta Niccolò La Piccola, già segnalato dal Morcelli, che lavorò nel gabinetto che da lui prese il nome  e in molti altri ambienti.

Altri pittori  ricorrono nelle carte come Paolo Anesi, Antonio Bicchierai e Giovan Paolo Pannini, che tuttavia riscosse cifre irrisorie. Completamente assente il Clerisseau, viceversa ricordato dalle fonti. Il legame di stima e d’amicizia tra il cardinal Albani e Raphael Mengs è al centro del saggio di Steffy Roettgen, che illustra, attraverso la corrispondenza con Horace Mann, come il prelato abbia caldeggiato l’intervento del pittore come copista delle opere di Raffaello presso il duca di Northumberland, dimostrandosi ancora una volta un raffinato politico, in grado di utilizzare le opere d’arte “come veicoli di propaganda dello Stato pontificio”.

Lo stesso Alessandro, del resto, fu il responsabile della commissione al Mengs della decorazione del soffitto della stanza dei  Papiri, probabilmente  giocando un ruolo decisivo anche nella scelta del soggetto, in connessione con i gusti egitizzanti, già manifestati nella sua proprietà, dove il pittore austriaco lasciò l’affresco più celebrato dell’intero complesso, preferendo le sue soluzioni iconografiche, sicuramente influenzato  anche dal suo bibliotecario Winckelmann.  a quelle  di  Antonio Bicchierai.

La moda egittizzante che contagia  l’Albani, nonché la sua attenzione anche nei confronti delle sculture colorate,  deve la sua origine quasi certamente al fascino che su di lui esercitava la villa Tiburtina dell’imperatore Adriano. Cristina Ruggero individua un filo rosso invisibile, ma intuibile dalla presenza del bassorilievo di Antinoo reimpiegato per decorare il camino a trumeau e dalla Galleria del  Canopo, che lega le due ville, quella imperiale guardata oltre che come fonte di ispirazione per la costruzione e l’allestimento della proprietà sulla Salaria, anche come oggetto di scavo, di studio, luogo privilegiato di scambi culturali e antiquari, di introiti sicuri e indispensabili.

Personaggio chiave nelle vicende che riguardano la villa sulla Salaria si rivela il Winckelmann, su cui Francesco Barbanera ha gettato molte luci durante la presentazione del volume, commentando il contributo di Brigitte Kuhn Forte che indaga sul rapporto  di amore e odio tra lo studioso prussiano e l’Albani, intessuto di gentilezze e di pretese assurde ed intollerabili, come quella di essere impiegato come guida turistica per viaggiatori non troppo interessanti. Pur ammettendo i difetti della personalità disturbata e ossessionata dallo studio di Winckelmann, che tuttavia delude il suo mentore per la mancata pubblicazione della Descrizione della  villa sulla Salaria, la sua reazione nei confronti della vendita della ingente raccolta dei disegni di Cassiano del Pozzo a Giorgio III è senz’altro condivisibile.

La carriera del bibliotecario nell’ambiente vaticano deve tutto all’intermediazione dell’Albani, che sostenne anche il finanziamento dei Monumenti Antichi Inediti, prodigandosi nella revisione della Storia dell’Arte Antica. Quando Winckelmann venne a mancare l’Albani ne fu profondamente addolorato: aveva perso un amico, forse l’unico dal quale si sentiva veramente compreso e che condivideva intimamente con lui l’amore viscerale per la scultura antica. Un interesse che spinse l’alto dignitario ecclesiastico a promuovere il restauro integrativo delle opere, tanto da influenzare le pratiche di Bracci, e persino del Cavaceppi che intervennero sulle sue statue, come illustra Elizabeth Bartman e di tutti gli scultori restauratori operanti nell’Urbe, che crearono una sorta di industria dedita al restauro.

Il saggio di  Ginevra Odone si concentra  sui rapporti tormentati tra Alessandro Albani, Winckelmann, il conte di Caylus  e Paolo Maria Paciaudi. I primi due snobbavano i francesi, il cardinale comprava di tutto, comprese, ovviamente, opere di altissima qualità, mentre il suo bibliotecario acquisiva per lo più pochi ma notevoli manufatti, ed il conte francese si appassionava soltanto a quelle opere che poteva trasformare in oggetto dei suoi studi. I contrasti tra i tre personaggi emergono in relazione al progetto  segreto di Caylus, condiviso con il padre teatino Paciaudi di pubblicare  le stampe e le incisioni dei monumenti  bizzarri.

Dopo l’imbroglio subito dall’architetto Louis, Caylus e Pacciaudi ricorsero al Robert, che inizialmente venne accolto cordialmente a villa Albani, unico posto in cui si potevano trovare opere inedite,  ma poi fu allontanato da Winckelmann che intuì le vere intenzioni del conte francese e del suo collaboratore. Altro motivo di astio ruotava attorno all’inspiegabile pubblicazione da parte di Caylus di disegni, poi finiti al Mariette, di Sante Bartoli, che riproducevano manufatti della raccolta del cardinale Alessandro, copiati probabilmente in modo clandestino, suscitando i sospetti del Winckelmann. Infine i giudizi  tutt’altro che lusinghieri del conte e del suo fedele amico  sull’Albani ritenuto un mascalzone fraudolento, dedito al commercio dei calchi e di falsificazioni dell’antico costituiscono un ennesimo motivo di distanziamento tra i due.

Rea Alexandratos torna sull’argomento della vendita dei disegni a Giorgio III, e tenta di raccogliere dati basandosi sugli attuali inventari della collezione reale, ricomponendo la storia delle dispersioni. La Favaro mette in luce come la raccolta grafica, grazie alla generosità dell’ecclesiastico, rivestisse un’importanza fondamentale per la formazione di alcuni architetti tra cui Bernardo Antonio Vittone, che ebbe il privilegio di copiare i disegni di Carlo Fontana, acquistati direttamente dagli eredi, dal futuro papa Clemente XI nel 1716. Con questo gesto Alessandro dimostra ancora una volta di aver assorbito l’insegnamento dello zio Giovan Francesco e secondo la Valenti Rodinò non si può escludere che il prelato concedesse questa opportunità di studio anche ad altri architetti e artisti. L’influsso del prelato sui visitatori stranieri emerge nel contributo di Colin Thom, che attraverso la corrispondenza tra i fratelli Adam analizza il contesto, le persone coinvolte nella  trattativa, per conto di Giorgio III, relativa all’acquisto dell’ingente patrimonio grafico di Alessandro.

Ma la figura dell’Albani viene letta da Johnny Yarker anche sotto l’aspetto politico,  dimostrandosi egli capace di attirare i viaggiatori inglesi nell’esperienza del Grand Tour, ricucendo di fatto i delicati rapporti diplomatici tra papato e Gran Bretagna e arrivando a proteggere artisti come Richard Wilson, come descrive Robin Simon.  

L’interessante excursus di Maria Pia Donato illustra il decadimento dell’interesse collezionistico  degli alti dignitari ecclesiastici  nella seconda metà del Settecento in relazione al mutato clima culturale, economico e sociale, con la conseguenza della creazione di un divario sempre più profondo tra la passione per le antichità profane, divenute il pallino degli intellettuali laici del Grand Tour e quello per le epigrafi maggiormente ricercate negli ambienti di chiesa. Ma il cardinal Albani, come dimostra Caroline Barron,  allargando i suoi interessi anche alle epigrafi e alle lastre funebri, fonti storiche di primaria importanza, aprì la strada anche a questo genere di raccolte, divenendone ancora una volta il pioniere di una moda che attraverserà il secolo.

La Bussotti evidenzia il legame tra il cardinale l’Arcadia ed i letterati, in particolare Gioacchino Pizzi, che spesso gli dedicarono i loro componimenti poetici per ricevere protezione, sottolineando che  le rappresentazioni teatrali erano concepite come una cassa di risonanza delle  scelte politiche del prelato, e strumenti più o meno velati di diplomazia.  Inoltre  grazie al ritrovamento di un catalogo conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Andrea de Pasquale ha potuto capire la consistenza della biblioteca di casa Albani, al tempo del cardinal Giuseppe.

In conclusione Walter Curzi ha ribadito il valore del volume incentrato sul personaggio cardine del Settecento e  su tutta quella rosa di intellettuali che gravitavano attorno a lui, contribuendo a gettare le basi del gusto artistico dei secoli successivi, in continuità con la tradizione.

Ancora una volta Elisa Debenedetti colpisce nel segno e ci regala un contributo prezioso che va ad aggiungersi alla sua collana di studi, rendendola uno strumento sempre più utile agli storici e agli storici dell’arte, per una conoscenza sempre più approfondita del secolo dei lumi.

Rita RANDOLFI  Roma  27 Marzo 2022