“In questa gara se perdo vinco”. Bernini e la scultura, un imponente studio di Maria Grazia Bernardini

P d L

“Artista poliedrico e multiforme (è stato scultore, architetto, urbanista, pittore e scenografo) Bernini è considerato il massimo protagonista della cultura figurativa barocca”.

Se abbiano pensato di aprire questa recensione con la nota con cui il Prof. Emmanuele F.M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, inaugura il volume Bernini. Catalogo delle sculture, è perché per quanto succinta rende l’idea non solo del calibro di un artista universalmente acclamato, ma soprattutto perchè, per quanto riguarda il tema che ci accingiamo a svolgere, dà altrettanta contezza di quanto un lavoro come quello che Maria Grazia Bernardini ha licenziato da qualche giorno per i tipi dell’Editore Allemandi, grazie al sostanziale sostegno della Fondazione presieduta dal Prof. Emanuele e coprodotto da Poema Spa., fosse davvero straordinariamente impegnativo. Un lavoro da far tremare i polsi, viene da dire, approcciato dalla studiosa, possiamo però precisarlo da subito, con straordinaria capacità ed altrettanta sicurezza, misura ed attenzione.

Talvolta può essere complicato capire cosa avviene durante la realizzazione di un libro; se poi il soggetto è ‘tosto’, come senz’altro è il caso dell’argomento svolto in questo voluminoso studio, e considerando che la stessa tematica è da tempo super trattata, c’è il rischio di non renderne appieno la complessità. Un rischio che la nostra autrice ha saputo però ben schivare; si veda per fare un primo esempio come è riuscita a dar conto di “uno degli aspetti più e innovativi dell’estetica berniniana”, cioè il tema del “bel composto” (ne sarebbe “primo compiuto esempio” la Cappella Raimondi -vedi n. 74 del Catalogo-, che le recenti ricerche di Jacopo Curzietti porterebbero a scalare al 1643), illustrando la teoria artistica del Bernini con toni e riflessioni meditate e precisando come dopo l’analisi di Maurizio e Marcello Fagiolo sull’estetica berniniana concepita attraverso quella chiave di lettura (il “mirabil composto” appunto), di recente si sia riaperto il dibattito tra studiosi –Montanari, Delbeke, Pierguidi–  che ha saputo riassumere con note brevi ma esaurienti.

Si aggiunga che probabilmente non c’è artista che più di Gian Lorenzo Bernini abbia segnato un’epoca intera, divenendo una vera e propria icona, in virtù –tra le altre cose-  anche di un carattere che si deve definire intenso e, se si può usare un eufemismo, ‘chiassoso’ (Domenico Bernini lo descrive “aspro di natura”, l’autrice “ardente e volitivo, pronto all’ira …”), ma che poi nel finire dei suoi giorni avrebbe trovato pace semplicemente in solitaria contemplazione dentro la ‘sua’ chiesa di Sant’Andrea al Quirinale. Non sapremo mai quanto di vero, di esagerato, perfino di inventato ci sia nelle biografie e nei racconti di biografi e storici che hanno tramandato la fama di artisti geniali e di così grande spessore – e nel caso in questione la studiosa spesso rileva varie discrasie ad esempio tra i racconti di Domenico Bernini e del Baldinucci– , quello che è certo è però che spesso il nostro pur legittimo scetticismo non tiene conto di come le persone, certe persone, vale a dire le anime più sensibili ed esposte quali quelle degli artisti, siano essi poeti, pittori, architetti e via dicendo, siano proprio quelle su cui si fa sentire con maggiore forza e potenza il ‘tocco’ celeste, così anche nel nostro caso.

Scrive Maria Grazia Bernardini nel primo tomo del suo lavoro, dedicato agli Apparati, con cui delinea il percorso artistico di Gian Lorenzo (che preferisce chiamare Giovan Lorenzo) che “non fu rivoluzionario per l’uso di strumenti tecnici innovativi” bensì “fu rivoluzionario per l’utilizzo di questi, grazie ai quali raggiunse un nuovo linguaggio espressivo” (v. Volume 1°, pag. 21). E’ legittimato in questo modo il raffronto con opere di altrettanti artisti di genio, quali Raffaello e Michelangelo, posto che tutti coloro che hanno affrontato il ‘discorso – Bernini’ hanno rimarcato come esso affondi le radici nell’arte rinascimentale; di qui le collusioni tra il san Lorenzo del nostro con l’Adamo di Michelangelo, tra l’Incendio di Borgo dell’urbinate con l’Enea ed Anchise, e poi gli “evidenti richiami” con il Giambologna, con Pietro Simoni da Barga, con Polidoro da Caravaggio, tutto a dimostrare “quanto il giovane Bernini avesse studiato ed assorbito l’arte del Cinquecento”.

Sono osservazioni che ancorché ineccepibili ed ormai fatte proprie dalla critica d’arte, tuttavia possono apparire fin troppo evidenti se non scontate: c’è da chiedersi infatti chi tra i grandi artisti che si elevano al di sopra dei limiti conosciuti e li superino non abbia studiato l’arte precedente. La materia, dunque, merita, se ci è consentita, un’ulteriore considerazione, dal momento che si tratta in ogni caso di questioni delicate, ardue da affrontare in un catalogo e a maggior ragione in una recensione, trattandosi di temi si pratici, però essenzialmente intellettivi, peraltro non di rado condizionati da situazioni particolari: contesti, interessi, committenze, punti di vista, necessità e così via. Ed è in nome di questa ambivalenza che è lecito un che di diffidenza quando gli studiosi mettono in scena ‘attori’ di questa portata.

Non sarà dunque casualmente che la Bernardini metta in guardia per quel che ci riguarda sul fatto che “senza conoscere il ‘concetto’ dell’opera non è possibile comprendere e apprezzare nella sua vastità e genialità l’arte del Bernini”, pregna di “profondi e intensi significati simbolici”. Grazie a lui, insiste

“la scultura raggiunse esiti altissimi e si annullò il divario che separava la scultura dall’arte pittorica che all’inizio del Seicento era ‘rifiorita’ “.

Un’ affermazione che apre a considerazioni di grande importanza storica, sociale e culturale, del resto da lei stessa e da molti altri storici dell’arte e non, da tempo analizzate, ma che vale brevemente rivedere.

In effetti, quando arrivò a Roma – siamo agli inizi del ‘600- davvero il giovane Gian Lorenzo si trovò di fronte a un periodo di mutazioni eccezionali, contrassegnato da una formidabile messe di eventi e da personalità talmente straordinarie che avrebbero portato la capitale papalina ad essere per lungo tempo il centro mondiale della cultura e delle arti.

Smontati da poco i grandi apparati messi in opera per il Giubileo, in città ci si poteva già stupire sotto le volte della Galleria farnesiana da poco affrescate da Annibale, inoltre erano al lavoro i suoi migliori allievi, Domenichino, Albani, Guido Reni e Lanfranco e vi arrivava un mostro sacro come Pietro Paolo Rubens, ingaggiato dagli Oratoriani per l’altare della Vallicella; soprattutto aveva già provocato clamore inaudito la maniera con cui Michelangelo Merisi da Caravaggio stava ribaltando gerarchie e vecchi verdetti spaccando letteralmente in due il campo artistico: i vecchi pittori, racconta lo storico Bellori “ rimanevano sbigottiti per quello novello studio di natura, né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera …”, mentre al contrario “… presi dalla novità, i giovani concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura”.

Dovrebbe risalire giusto al tempo della morte del Merisi (1610) quello che da molti è ritenuto il primo lavoro di Gian Lorenzo, cioè la Capra Amaltea. Irving Lavin in effetti la datava al 1609, né la nostra autrice sembra propensa a condividere lo spostamento al 1615, proposto nella mostra del 2017- 18. Ed in effetti a giustificare ulteriormente la prima datazione, potrebbe concorrere la considerazione di quanto fosse precisa e soprattutto ‘al naturale’ la “rappresentazione della materia, sia essa carne, vello, peluria, abiti”, per cui è possibile azzardare che il giovane scultore avesse quanto meno osservato certi esiti delle novità caravaggesche.

Sono anni cruciali per la trasformazione di Roma, già avviata da Sisto V, e proseguita con i pontificati di Clemente VIII Aldobrandini (1592 -1605) e di Paolo V Borghese (1605 – 1621) e, a seguire, con i papati Barberini e Chigi, anni peraltro contrassegnati sul piano religioso dalla lotta senza quartiere contro i protestanti. Del giubileo clementino molto si è scritto anche perchè ne era stata clamorosa anticipazione la conversione al cattolicesimo di Enrico di Bourbon Navarra (colui che, non va dimenticato, aveva apostrofato sprezzantemente Sisto V come ”monsieur Sisto, soi-disant Papa”), cui aveva fatto seguito un’altra eclatante abiura, quella del nipote di Calvino, Etienne de la Favèrgue, per di più tra i massimi esponenti della municipalità ginevrina, oltre che di numerosi personaggi altolocati del mondo protestante (si veda von Pastor, XI, pp 514 -521). Ha scritto Irene Fosi

“nel clima di esaltazione della potenza e della supremazia della Chiesa cattolica, le conversioni di personaggi famosi, ma anche di semplici pellegrini e viaggiatori, costituirono una prova indiscussa del successo giubilare” (I. Fosi, Convertire lo straniero. Forestieri e Inquisizione a Roma in età moderna, Roma, 2011, p 60).

Un successo ‘politico’ dunque ma altrettanto sul piano artistico, laddove si aprivano occasioni formidabili alla creatività e alla estrosità degli artisti. Si può dire che tra le numerosissime rappresentazioni della simbiosi via via realizzatasi tra esigenze religiose e maestria artistica una delle più eclatanti fu la decorazione – con uno sfarzo che non aveva precedenti – voluta dal papa Borghese in Santa Maria Maggiore della Cappella per la venerazione dell’immagine della Madonna detta Salus Populi Romani, creduta di mano di San Luca. Furono chiamati all’impresa molti tra gli artisti allora più in voga, ed insieme al Cavalier d’Arpino, a Guido Reni, Giovanni Baglione, Ludovico Cigoli, vi era anche Pietro Bernini, che giusto per questo era rientrato a Roma, nel 1606, da Napoli dove aveva operato nella Certosa di San Martino. Con lui il giovane Gian Lorenzo che aveva appena compiuto 8 anni e che il padre portava con sé con la malcelata intenzione di poter in ogni modo mostrare a chi contava quale fosse già l’ingegno del figlio. L’occasione si sarebbe in effetti presentata proprio dopo che erano aperti i cantieri per la Cappella Paolina, allorquando, a seguito della scomparsa di Flaminio Ponzio, l’architetto che ne dirigeva i lavori, Pietro Bernini poté entrare in stretti rapporti con Scipione Caffarelli Borghese, ed ottenerne la protezione. Il prelato – un vero esperto di arte e di furti d’arte- non ebbe alcuna difficoltà ad individuare immediatamente il precocissimo talento del giovane Bernini, come riporta un noto aneddoto, probabilmente collegato alla realizzazione di quello che, come dicevamo, dovrebbe essere il più antico lavoro di Gian Lorenzo, cioè la Capra Amaltea tra Giove fanciullo e un faunetto, allorquando il cardinal nepote, in visita allo studio dei Bernini, avrebbe messo in guardia Pietro sul fatto che il giovanissimo figlio sarebbe divenuto più abile di lui.  “Vostra Eminenza, in questa gara se perdo vinco!” fu la replica.

La Bernardini coglie l’occasione per stabilire un raffronto tra quella prima scultura e il Bacco infante di Guido Reni oggi a Dresda: per la studiosa infatti in quegli anni ciò che caratterizza l’arte pittorica in generale è “la ricerca degli affetti” che coinvolge un po’ tutti i protagonisti attivi a Roma, tanto da poter mettere a confronto altresì il Fauno molestato da putti con dipinti di Annibale e Francesco Albani, ed il San Sebastiano del Thyssen Bornemisza con il San Sebastiano di Carlo Saraceni oggi a Praga, nei quali sottolinea come “la connotazione devozionale è esplicito riflesso del clima spirituale del tempo”, mentre chiare finalità estetiche, a suo parere, si riscontrano “tra l’Atalanta e Ippomene del Reni e l’Apollo e Dafne …”.

Lasciamo a quanti leggeranno l’ottimo volume la possibilità di approfondire nonché di verificare i confronti, trattandosi di opere piuttosto famose e molto spesso proposte al pubblico, e tuttavia in relazione a questo primo tempo berniniano e a quelle che furono o poterono essere le leve della sua ascesa a Roma, si dovrebbe considerare con maggior fondatezza di quanto fin qui accaduto, quello che nelle ricostruzioni del periodo ci pare venga ancor oggi sottodimensionato, vale a dire il ruolo che poterono avere per la cultura del tempo l’esempio e le idee di un personaggio come Giovan Battista Marino (Napoli, 1569 – 1625). Lo aveva intuito qualche anno fa Claudio Strinati individuando il valore possiamo dire dirompente della sentenza a tutti nota con cui il poeta partenopeo aveva esaltato l’eccellenza poetica dell’arte, laddove lo studioso traduceva in sostanza i famosi versi (“del poeta è il fin la meraviglia …) secondo la condivisibilissima (almeno per chi scrive) notazione, che il senso vero di essi sia che “è inutile parlare di attività artistica se non a livello supremo dell’espressione” (C. Strinati, Il mestiere dell’artista. Da Caravaggio al Baciccio, Palermo, 2011, p. 22).

Anche se nel corso dei secoli la vis poetica mariniana è stata quasi completamente ridimensionata a mero e vuoto esercizio stilistico subendo forse più che altre espressioni d’arte una condanna esplicita, perfino una sorta di damnatio memoriae, tuttavia resta il fatto che in quel torno di anni le opere di Marino destarono certamente forte impressione ed ebbero un successo straordinario al punto che egli venne acclamato come “il maggior poeta tra quanti ne nascessero”, “l’ottava meraviglia del mondo”, “uno dei primi re al mondo” e così via, osannato dai maggiori ingegni letterari del tempo, da Gabriello Chiabrera a Lope de Vega, ma anche avversato violentemente da nemici che deprecavano tanto lo stile del suo poema forse più noto, cioè l’Adone, quanto “le lascivie che vi erano fuse”. Si sa ad esempio che due noti gesuiti come Daniello Bartoli e Sforza Pallavicino non si esimevano di allertare più volte sul fatto che Marino fosse un “noto corruttore di costumi”.

Non a caso la Congregazione dell’indice, creata nel 1571 da Pio V Ghislieri, ne aveva decretato la definitiva censura classificandolo “libro prohibito et pernicioso” nel novembre del 1626, in un periodo cioè molto particolare, seguito alla salita al soglio pontificio di Urbano VIII Barberini (1623) che ostacolò in ogni modo – fors’anche per invidia, viste le sue pretese artistiche-  il poema ed il poeta, proprio magari in ragione dei temi ‘lascivi’ che l’opera declamava. Vero è a quel che se ne sa che Marino amasse un collezionismo “elitario ed esclusivo” soprattutto di grafiche erotiche, per ottenere le quali non era raro che si spingesse a chiederne ad altri artisti; come quando invitò Ludovico Carracci ad “essercitare la sua mano in fantasie e scene lascive” e a fargli avere qualche “lussurioso schizzo di suo capriccio”, che poi lui stesso avrebbe passato a qualche acquirente (cfr, P. Camporesi, Il palazzo e il cantimbanco, Mi. 1994, pp. 11, 12 e passim). Una richiesta invero temeraria quella fatta al più anziano dei Carracci che, com’è risaputo, visse sempre nella città –Bologna- in cui rimaneva ben presente l’esortazione del cardinale Paleotti, tramandata negli “avvertimenti ai padri di famiglia”, a disinfettare le case “da ogni libro et pittura che vi fosse lasciva et indecente”, del quale peraltro non erano passate nel dimenticatoio le esortazioni ad interdire ai pittori i nudi e le immagini impudiche, senza contare l’idea – mai realizzata- della costituzione di un Indice per controllare oltre alle pubblicazioni, anche l’ortodossia dei dipinti.

Nella capitale dello Stato pontificio la situazione paradossalmente appariva molto differente dal momento che vi si concentrava già da tempo una quantità indefinibile di progetti, di collezionisti straordinari e soprattutto di artisti da ogni parte d’Europa e conseguentemente di capolavori, il che lasciava spazi ad un clima sotto questo aspetto meno ossessivo. Clima in cui, deciso a sfondare, si calava Giovan Battista Marino sbarcando da Napoli, dove si era già messo in luce frequentando accademie, scrivendo rime, affiancando aristocratici e letterati importanti, tra cui Torquato Tasso, ed avendo avuto anche modo di conoscere –e non sarà l’unica volta- le carceri.

Questa forse eccessivamente lunga digressione per dire che il giovane Bernini giusto nella cultura del tempo – anche in quella non del tutto ortodossa- trovò buoni motivi di ispirazione per le sue opere.

La Bernardini assume come lasso di tempo fondamentale, il periodo tra il 1618 e il 1625, quello delle grandi committenze Borghese e non solo, allorquando

“in un serrato crescendo Bernini rivoluziona il modo di concepire la scultura: temi, forma, stile, concetto sono in strettissimo rapporto …” (Volume 1°, pag. 28).

Appaiono così opere straordinarie come Enea e Anchise, Il Ratto di Proserpina, David, e poi Apollo e Dafne, una scultura strepitosa “un passo in avanti, scrive la studiosa, verso un linguaggio assolutamente nuovo, fortemente drammatico, epico, travolgente …” (v. Catalogo n. 32, p. 144).  Secondo Jennifer Montague nella scultura-  ideata e in larga parte eseguita da Bernini-  si individuerebbe però anche la mano di Giuliano Finelli (“le delicate radici e ramoscelli, le volteggianti trecce”) e il fatto che Bernini “forse perché geloso del talento di Finelli o perché diffidava della sua spinosa personalità” non gli avesse concesse la promozione promessa, portò l’artista carrarese a lasciare la sua bottega, ribellandosi contro l’umiliazione subita (v. Ch. Avery, Bernini. Genius of the Baroque, London, 1997, p. 265). Va specificato che Maria Grazia Bernardini ripercorre molto linearmente tutta la vicenda collegata alla realizzazione del capolavoro ridimensionando però “di molto” l’intervento di Finelli.

Al David è stato invece collegato un richiamo ‘politico’ (D’Onofrio), o esoterico (Marcello Fagiolo e Lavin) ben illustrati dalla Bernardini (v. Catalogo n. 32, pp. 138 – 40), fino all’antagonismo con l’immagine di Dafne, con quel volto atterrito, gli occhi lagrimevoli, l’espressione terrorizzata: una specie di messaggio per immagini che doveva ammaestrare anche tramite il ricorso a segmenti di valore, anch’essi specularmente opposti, che diventano parte integrante dell’opera.

Tuttavia, eccetto il personaggio biblico, si tratta con ogni evidenza di temi pagani, tratti da Virgilio e Ovidio, e che racchiudono una foresta di significati, proprio come una sinfonia scultorea se possiamo dire così dove alla struttura marmorea si giustappone una successione di allegorie.  E se consideriamo che nell’inventario solennedi Marino, rogato in data 23 giugno 1625, due mesi dopo la sua scomparsa, compaiano –oltre al suo e ad altri ritratti- solo due dipinti sacri e per il resto una lunga serie di soggetti mitologici spesso a sfondo erotico come Venere e Adone, Venere e Marte, e poi Bacco, Apollo  ecc.  che –come è stato notato –  “combaciano coi dati biografici, confermando gusti e debolezze di chi quei beni ha usato, goduto, prodotto …” possiamo credere  come anche Gian Lorenzo –fatte salve le volontà dei committenti-  avesse una certa predilezione verso “le favole del mito letterario, la mitografia ovidiana, più che le historie bibliche evangeliche o agiografiche”. (Cfr G. Fulco, Il sogno di una ‘Galeria’. Nuovi documenti su Marino collezionista, in “Antologia di Belle Arti”, III, 9/12, 1979, p. 84 e ss).

Nel Catalogo in effetti se ne fa un qualche riferimento, ad esempio a proposito del Fauno molestato da putti (scultura che risalirebbe, secondo le recenti proposte di Andrea Bacchi al 1615), citando la perspicacia con cui la Aronberg Lavin individuò nel gruppo, oggi al Metropolitan di New York, una precisa corrispondenza proprio con l’Adone di Marino

“in particolare nel canto VI dove il poeta si sofferma sul Giardino del gusto, uno dei cinque giardini che Venere fa visitare ad Adone”.

Un’annotazione che meritava probabilmente ulteriori spunti.

In ogni caso è significativo che in quello stesso torno d’anni 1618 -25 nasca la straordinaria ritrattistica berniniana. Controversa resta, a questo riguardo, la sequenza dei due busti di Paolo V, il primo allocato nella Galleria Borghese, l’altro acutamente individuato da Francesco Petrucci in un’asta estera ed ora al Getty Museum. E’ una controversia – e non è certo l’ultima, come vedremo- che da tempo separa gli esperti e che la nostra autrice illustra ampiamente, allo stesso modo di come affronta la disamina di altri lavori su cui la critica non appare convergente, come ad esempio il Ritratto di Virginio Cesarini, cui dedica molto spazio inserendolo tra le “opere attribuite o di attribuzione controversa” (v. Catalogo (A7)

Quel che però più colpisce in questo campo della ritrattistica berniniana è il numero davvero ragguardevole di ritratti di Urbano VIII Barberini – 6 in marmo, 5 in bronzo, uno bronzo e porfido, più la statua marmorea del Campidoglio e ovviamente quella del monumento funebre- che tramandano da un lato come l’immagine del porporato cambiasse nel corso del tempo ed anche quale fu l’evoluzione del linguaggio dell’artista, oltre ovviamente alla familiarità con il pontefice. Anche in questo caso seppur il contesto sia stato analizzato tante volte, varrà però la pena di tornarci su per inserire qualche elemento che a nostro parere è meritevole di considerazione. Vale dunque soffermarci, in breve, sui due ritratti del pontefice, quello di Ottawa e quello di Palazzo Barberini (v, immagine), che, lo spiega bene l’autrice nel Catalogo (nn. 58 e 59), appaiano “indubbiamente collegati per l’aspetto fisionomico del pontefice”, rigettando altresì in ragione di una serie di considerazioni anche documentarie che ne portano a fissare la datazione al 1632, l’ipotesi avanzata da Tomaso Montanari che ritiene il marmo di Ottawa successivo a quello romano; ma al di là della diatriba, si tratta in entrambi i casi di una prova rimarchevole grazie alla quale la critica contemporanea (viene citato il Preimesberger) ha potuto affermare che Bernini “aveva superato la fama dell’arte antica” (un concetto che vedremo anche più oltre).

Ci si perdonerà a questo punto un’ulteriore digressione funzionale però al nostro tema. Un passo di Paul Renucci apparso in un magistrale saggio di Luca Calenne (Cfr. La rivincita di Adone sull’Indice. Su un ciclo pittorico dedicato al poema di Giovan Battista Marino nella Villa Sforza ai Quattro Cantoni, Bardi edizioni, 2019), seguendo la traccia segnata da uno dei più importanti moderni esegeti del Marino, cioè l’abate Giovanni Pozzi, ha collegato addirittura il poeta partenopeo “ai più moderni pensatori del tempo (Bruno, Telesio, Campanella, oltre ovviamente Galileo”), e basterebbe questo a dimensionarne la valenza nella cultura del tempo. L’affermazione infatti può illuminare ulteriormente sul contesto culturale e su quanto, e se, incise sulla raffigurazione –in questo caso dei due marmi del papa- che Bernini mise in atto. Nel 1626 in effetti era sbarcato nel porto di Ripetta “travestito da prete e in catene”, un intellettuale certamente singolare come Tommaso Campanella. Molto è stato scritto sulla figura e sulla opera del domenicano calabrese e certo non è questa la sede per riprendere il tema; tuttavia non si può non notare la singolarità di certi eventi che collegano forse non casualmente le vicende del frate e del Papa e di conseguenza ai ritratti di Bernini. Nonostante certi precedenti, il domenicano era stato più volte processato per i suoi scritti, torturato, ritenuto pazzo e già imprigionato a Castel Sant’Elmo, il pontefice non si fece scrupolo di ospitarlo nelle sue dimore.

La spiegazione sta nel fatto che Urbano VIII appariva allora letteralmente sotto l’incubo di una sinistra profezia di morte che lo riguardava e Campanella, al corrente di quelle sue tribolazioni, mirando a conquistarne la fiducia, al culmine della “campagna astrologica” contro il Barberini e mentre addirittura il ‘partito spagnolo’ si preparava per un nuovo conclave, aveva messo in atto strane pratiche di magia descritte nel De siderali fato vitando, ricavandone, va pur detto, qualche risultato, se è vero quello che è scritto in un “avviso” di Roma:

“si è inteso che gli habbi dati certi fomenti, che sono contra li mali humori, et la malinconia, si dice che il papa si sia messo il pensiero  … di vivere longamente e di molta quiete”.

Bisogna dunque, per quanto possibile, entrare dentro questo clima particolare che si viveva in quegli anni a Roma anche per meglio delineare, oltre al punto di vista tecnico realizzativo, la genesi di opere quali questi ritratti. Né sarà un caso, a fronte delle manovre politiche collegate all’ipotesi, ma possiamo dire alla aspettativa, della sua morte, che Urbano VIII commissionasse a Bernini la statua di Matilde di Canossa, raffigurata con in mano lo scettro papale e i simboli del potere. La critica ha individuato il valore simbolico del monumento inquadrando “la scelta di Urbano VIII nelle vicende storiche” e sottolineando “lo stretto legame tra la decisione del pontefice di trasportare a Roma le spoglie della contessa che erano vicino Mantova e l’esaltazione delle reliquie (“Il papa ha fatto rubare il corpo della contessa Manilda” scrisse a Venezia l’ambasciatore Alvise Contarini). (V. Catalogo n. 62, pp 219- 21).

Le interpretazioni di questi capolavori si sono succedute si può dire fin da subito nel corso del tempo, ma va altresì presa in esame la considerazione che con ogni probabilità la Chiesa romana, fino a pochi decenni prima proiettata politicamente su scala europea come principale centro politico per poi vedersi ridimensionata in un’altalena fatta di brevi riprese e nuovi tracolli, perseguisse una operazione di rilancio, che viene affidata giustappunto ad un ‘romano’ come Gian Lorenzo il quale ben doveva conoscere o in ogni caso certamente aderire a tale  progetto – posto che ci sia stato-.

E’ insomma come se all’artista venisse affidato il compito di esporre tramite le immagini scultoree (e architettoniche) i tratti di una sorta di utopia politica proponendola come realizzabile nei fatti e dotandola di credibilità. Con quale tema di fondo, verrebbe fatto di chiedersi? Quello che per governare occorre cercare il consenso superando gli egoismi apportatori di conflitti, mentre il consenso fa rima con pace. Certo è che per arrivare a certi obiettivi era necessario uno sforzo titanico. Quale? Pochi sanno che dalle idee del Campanella Urbano VIII aveva mutuato il disegno –elaborato dal frate di Nola appena prima dello scoppio della guerra dei Trent’anni- di

una sorta di consulta dei rappresentanti delle potenze cattoliche” da tenersi a Roma che “sotto la presidenza del pontefice, favorisse la concordia delle nazioni nel comune obiettivo … della lotta all’eresia”,

integrando in questo progetto, di cui il pontefice sarebbe stato il supervisore “anche le potenze temporali, soprattutto la Spagna … e la Francia” (cfr G. Pizzorusso, Propaganda Fide tra immagine cosmopolita e orizzonti romani, in Storia d’Italia. Roma città del Papa, Annali, v.16, Torino,2000, p. 485).

Sappiamo che le cose andarono molto diversamente in questa sorta di peculiare neo guelfismo ante litteram certo interno ad una logica chiaramente propagandistica dietro la quale tuttavia non è difficile cogliere i segni di un programma politico e culturale che certo Bernini era in grado di realizzare con le sue opere ma di cui la catastrofica ‘guerra di Castro’ avrebbe svelato l’assoluta inconsistenza pratica.

Con i due ritratti di Urbano VIII e con altri tra i più famosi del quarto decennio, arriviamo in ogni caso all’acme dell’arte berniniana “esempi straordinari di quei ‘ritratti parlanti’, vitali, che ‘vivono e respirano’, già esaltati dalle fonti coeve“, scrive la Bernardini. Ne sono esempi oltre al ritratto del cardinale Scipione Borghese (cat. n. 61), quello di Carlo I d’Inghilterra (cat. n. 66), e il ritratto di Costanza Bonarelli (cat. n. 67) quest’ultimo “opera celeberrima”, ed anzi, “uno dei vertici della ritrattistica secentesca accanto ai capolavori di Van Dyck, di Velasquez e di Vouet” secondo Alvar Gonzàlez-Palacios.

La realizzazione di questo capolavoro è stata messa in relazione dalla critica al Busto di Medusa dei Capitolini; e qui un nuovo richiamo al Marino lo intravide Irving Lavin, soprattutto in “alcuni versi di Giovan Battista Marino della Galeria ( I, 277)  in cui il poeta identifica il potere della Medusa con l’abilità dello scultore”. La notevole scultura, che in ogni caso la Bernardini pone tra le opere attribuite, dall’autografia controversa, sarebbe stata eseguita come “una sorta di ritratto ironico, metaforico, moraleggiante” secondo quanto suggeriva Lavin, in seguito all’ “increscioso episodio che vide coinvolti lui e la sua amante Costanza Bonarelli”. E’ noto infatti che la donna, ardentemente amata dallo scultore, manteneva però una relazione anche con il fratello Luigi, cosa che quando venne scoperta spinse l’artista a dargli la caccia armata manu dentro la Basilica di Santa Maria Maggiore, fortunatamente senza riuscire a trovarlo; fu il papa stesso a chiudere la vicenda favorendo il matrimonio tra Gian Lorenzo e Cristina Terzi, dopo che però la povera Costanza era rimasta sfregiata da un servo comandato dallo scultore.

Scrive la Bernardini che con Urbano VIII

Bernini non fu più solo scultore, ma divenne artista poliedrico, architetto, imprenditore, pittore, a capo di un numeroso stuolo di artisti dalle varie specializzazioni … con i quali poté attuare compiti immani”

e in particolare “la organizzazione dei cantieri del Baldacchino, della Crociera e del Monumento funebre di Urbano VIII”.

Argomenti che dobbiamo rinviare al lettore, per non dire di come viene messa in risalto tutta la vicenda collegata alla Basilica di San Pietro, alla Fontana dei Fiumi, alle varie decorazioni, al viaggio in Francia che se non andò a buon fine tuttavia ci lascia il mirabile  Ritratto di Luigi XIV e ai capolavori realizzati negli “anni della piena maturità”, tra i quali il Cristo crocifisso in bronzo della Cappella Reale dell’Escorial (v. Catalogo, n. 101) cui è connesso un secondo Crocifisso bronzeo oggi a Toronto, riguardo al quale la studiosa mette un punto definitivo circa l’autografia, collocando il lavoro con osservazioni molto ben argomentate tra le opere controverse (v. cat. n A15);  e poi l’ultima opera del Bernini, l’eccezionale Salvator Mundi di San Sebastiano fuori le Mura, una delle più clamorose acquisizioni degli ultimi anni ad opera di Francesco Petrucci sostenuto poi da Maurizio Fagiolo.

Tanta roba! E dunque, ci voleva un’attrazione fatale, una sorta di amore viscerale per impegnarsi e venirne a capo con successo: possiamo dire che proprio qui risiede il segreto del lavoro di Maria Grazia Bernardini, che a noi si è rilevato in un approccio innanzitutto sentimentale che, da studiosa di razza, l’autrice ha saputo risolvere in autenticità e scientificità, in capacità elaborativa ed espositiva, in un progredire lineare di analisi e valutazioni che offrono infine  un ‘prodotto’ sicuramente unico, esauriente e anzi perfino definitivo, quanto meno per quel che riguarda le opere scultoree, che non di altro si poteva  trattare nei due tomi dell’opera. Trattare degli altri percorsi artistici intrapresi con altrettanto successo dal Bernini, quelli opportunamente richiamati dal Prof. Emanuele, architettura, urbanistica, pittura e scenografia, avrebbe comportato un impegno titanico, che forse altri studiosi potranno prendere in considerazione.

Ma non possiamo chiudere questa disamina tralasciando quell’assoluto capolavoro dell’arte scultorea di tutti i tempi che è l’Estasi di santa Teresa, realizzata alla metà del secolo XVII, dunque nel periodo della piena maturità dell’artista.

Opera arci famosa, su cui tanto si è scritto e detto da parte di importanti studiosi di tutto il mondo (e che peraltro la Bernardini tratta in modo encomiabile nel Catalogo, dove eccellenti e perfino commoventi, dobbiamo sottolinearlo, sono le foto di Massimo Listri, inserite nel tomo degli Apparati) al punto che sarebbe esercizio temerario da parte di chi scrive tornarci sopra, se non per una considerazione del tutto personale che però ci consente di chiudere la nostra elaborazione, visto che a poche opere – et pour cause, considerando la estrema ricchezza dei testi- abbiamo potuto dedicare attenzione in questa sede.

Un’opera di cui si sa ormai tutto: chi, come e quando la commissionò, perché è allocata in quella certa cappella, quanto impegnò l’artista, cosa si deve ‘leggere’ in quella strepitosa rappresentazione. Se ci limitassimo però ad un’analisi ‘scientifica’, osservando il muto simbolico dialogo con il Creatore espresso veramente in modo insuperabile dallo scultore, avremmo forti resistenze a credere che egli abbia voluto rappresentare la trasverberazione come un processo soggettivo, assimilabile ad un monologo; non è così. E se è vero che la scienza psichiatrica ha quasi sempre insinuato i suoi dubbi per quanto concerne ‘voci’, ‘visioni’, ‘apparizioni’, tuttavia quanto meno agli occhi del credente queste manifestazioni appaiono come il modo nel quale l’interlocutore celeste si fa riconoscere.

Bernini certamente doveva esserne ben cosciente, come pure era cosciente che nel torno di tempo in cui stava operando – ma da molto prima- era compito dell’Inquisizione dare credibilità o meno a questi ‘fenomeni’, che quando venivano diciamo così legalizzati, autorizzavano un’aureola di vera santità la quale, nell’immaginario religioso collettivo, proiettava il soggetto ‘toccato’ dal Signore in un ambito sovrumano, come gli antichi semidei del paganesimo, se ci si passa il paragone. E dunque, se le ‘visioni’ di Santa Teresa non sono allucinazioni, come pure non possono provenire dagli abissi dell’inconscio ma dalla polifonia dei cori celesti le ‘apparizioni’ della Beata Ludovica Albertoni, esse stanno a dimostrare che i santi sono più vicini a Dio di quanto possano o potranno mai esserlo gli uomini e soprattutto essi non sono soggetti, come gli umani, alla fallibilità dei sensi e del pensiero.

Ecco allora che nella felicità immaginativa dell’artista la trasverberazione di Santa Teresa – ma lo stesso deve dirsi della Beata Ludovica Albertoni, pure realizzata oltre vent’anni dopo, e di altre opere del genere- diviene interlocuzione, dialogo oggettivo, fenomeno che si proietta sulla terra, tra gli umani, così da essere percepibile ai fedeli, come se il divino trasfondesse nel santo la sua spiritualità. Maria Grazia Bernardini ha rimarcato il “ruolo fondamentale della luce sia sul piano simbolico che sul piano formale nell’arte berniniana” sottolineando come ad esempio

“… nella Cappella Cornaro la luce entra dal piccolo ovale sopra l’altare e si concretizza nei raggi bronzei che colpiscono il gruppo della Teresa con l’Angelo, dando l’illusione di una visione reale” ;

ed è giustappunto dentro questa dimensione che potremmo a nostro parere interpretare almeno una parte del lavoro di un genio come Bernini, descritto dalla studiosa come “artista colto”, dunque ben in grado di rendersi conto che dal momento che il dialogo è un fenomeno essenzialmente verbale, solo una capacità creativa fuori dall’ordinario -come la sua- poteva realizzare il passaggio dal sensorio visivo al lessico visuale, senza peraltro venir meno a intendimenti da cui nessuno avrebbe potuto sottrarsi, semmai lo avesse voluto, visto che l’iconografia religiosa era all’epoca una sintassi governata da regole ferree. I santi berniniani, insomma, sono reali, anzi ‘popolari’, le sculture assumono umanità, appaiono come vere presenze, vanno tra la gente come da vivo faceva Filippo Neri.

Una volta aperta questa porta si è praticamente rigettato ogni precedente linguaggio scultoreo.

P d L  Roma 25 Settembre 2022