Il sepolcro di Raffaello, il Pantheon, i “Virtuosi”: la verità in una storia non priva di fantasie

di Vitaliano TIBERIA

Vitaliano Tiberia (Roma, 1947) è uno storico dell’arte molto conosciuto per aver ricoperto importanti ruoli all’interno della Soprintendenza PSAE e del Polo Museale della Città di Roma, prima di essere designato, per nomina pontificia, dal 1995 -fino a fine mandato- Presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon; ha fondato la rivista Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Numerose sono le pubblicazioni e le iniziative culturali messe in atto nel corso della sua carriera, tanto che non se ne può dar conto in questa sede. Nel 2000 ha ottenuto il Premio Eleniano di Santa Croce in Gerusalemme. È membro di importanti associazioni culturali, e dal 2009 è membro del Gruppo dei Romanisti. Con questo articolo inizia la collaborazione con About Art

UN RICORDO PER RAFFAELLO NEL PANTHEON

Pantheon, Tomba di Raffaello

Il sepolcro di Raffaello è presente dal 1520, anno della sua morte, nel Pantheon, dove dal 1542 ha sede anche il Sodalizio artistico dei Virtuosi. La vicenda di questa celeberrima tomba è stata (2015)  recentemente ricostruita con criteri filologici da Anna Lisa Genovese (La Tomba del divino Raffaello, Roma 2015); un saggio che integra il volume di Vincenzo Golzio (Raffaello nei documenti, nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano 1936), edito dall’Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon per commemorare il primo centenario della ricognizione della tomba di Raffaello avvenuto nel 1833.

In proposito, va precisato che è da ritenere fantasioso il pittoresco racconto del commediografo e poligrafo senese (1660-1722) Girolamo Gigli, non riscontrato nelle fonti archivistiche dei Virtuosi, di una riesumazione dello scheletro di Raffaello nel 1722, quando, durante i restauri nel Pantheon da parte di Alessandro Specchi fu rimossa la lapide raffaellesca e trovato uno scheletro, che non era tuttavia quello dell’Urbinate. L’equivoco dovette nascere perché il Pantheon ospitava numerose sepolture, fra le quali quella di Annibale Carracci.

Ma come avvenne l’incontro fra Raffaello e i Virtuosi al Pantheon, presenti in quell’insigne monumento  dal 1543?

Il sigillo a quel legame ideale fu posto nell’Ottocento, quando la fama dell’Urbinate conobbe un fortunato revival romantico, grazie soprattutto all’entusiasmo e al rigore dei Nazareni. Fu così che, il 18 luglio 1833, dopo lunghe e controverse discussioni nel Sodalizio dei Virtuosi, fu avviato il progetto di ricognizione del sepolcro di Raffaello. Questa iniziativa non fu presa da un pittore né da un architetto ma da uno scultore, Giuseppe De Fabris, veneto come lo era il papa del tempo Gregorio XVI. De Fabris, che era al vertice della Congregazione dei Virtuosi, subito dopo quell’evento ottenne un raro riconoscimento concesso a pochi altri sodali del Pantheon: fu acclamato Reggente perpetuo della Congregazione, come precedentemente lo erano stati il fondatore dei Virtuosi, Desiderio d’Adiutorio, Federico Zuccari nel dicembre 1572, e Antonio Canova, il 19 novembre 1820.

Fra le reticenze del mondo accademico contemporaneo, soprattutto da parte dell’entourage dell’Accademia di San Luca, De Fabris, sostenuto da Gregorio XVI, iniziò il 9 settembre del 1833  uno scavo nel luogo dell’originaria tomba raffaellesca ubicata nella cappella della Madonna del Sasso.

I resti mortali del Sanzio, ritrovati il 14 settembre scompaginati dalle esondazioni del Tevere, come documentano i disegni di Vincenzo Camuccini presente allo scavo, furono ricomposti in una cassa di legno di pino, collocata a sua volta, il 18 ottobre, in un deposito di piombo, sistemato infine in un sarcofago di marmo bianco, del I secolo d.C., proveniente dai depositi dei Musei Vaticani, donato da Gregorio XVI. I tre contenitori furono ufficialmente sigillati. Il sarcofago, descritto ancora recentemente (1985) da Armando Schiavo, è oggi visibile dall’esterno e reca sulla  fronte un distico elegiaco, che fu dettato da Pietro Bembo (o da Antonio Tebaldeo):

ILLE HIC EST RAPHAEL TIMUIT QUO SOSPITE VINCI / RERUM MAGNA PARENS ET MORIENTE MORI . Nella parte centrale, si legge: OSSA ET CINERES – RAPH SANCTII URBINI; al di sotto, il ricordo del donatore: GREGORIUS XVI P.M. ANNO III INDICT. VI ARCAM ANTIQUI OPERIS CONCESSIT .

Dai verbali delle riunioni dei Virtuosi recentemente da me pubblicati (2016) risulta che il sepolcro restaurato fu presentato il 18 ottobre 1833, riscuotendo un grande successo, inaspettato dagli stessi organizzatori dell’avvenimento, tanto è vero che si dovette ricorrere (lo attestano i documenti dell’archivio storico dei Virtuosi) ad un nutrito servizio d’ordine con  granatieri pontifici e guardie svizzere. Il nuovo sepolcro fu risistemato sotto l’altare sormontato dalla monumentale statua della Madonna del Sasso, dove era ab origine nel rispetto della volontà dell’Urbinate; viceversa non venne dato corso al  progetto di un catafalco in elevazione su diversi registri con figure e decorazioni allegoriche, con una statua del Sanzio sulla sommità, che si sarebbe dovuto presentare in un’altra cerimonia funebre nella primavera del 1834.

Di questa iniziativa irrealizzata della Congregazione dei Virtuosi resta un disegno di Pietro Camporese pubblicato nel 1837 con un commento critico di Francesco Gasparoni ed ora ripubblicato nel ricordato libro della Genovese.

Le varie fasi dell’intervento di ricognizione furono registrate dal notaio Augusto Apolloni, mentre gli interventi anatomopatologici furono eseguiti dal chirurgo Antonio Trasmondo; Vincenzo Camuccini disegnò lo stato dei resti mortali di Raffaello al momento del loro  rinvenimento e dopo la ricomposizione.

Tomba e ossa di Raffaello, disegno di Vincenzo Camuccini (1833)

In un’occasione del genere non mancarono diverse riproduzioni litografiche a cura di Giambattista Borani e calchi del cranio di Raffaello.

Quell’evento fu quindi commemorato con vari omaggi alla tomba nei decenni successivi, finché, nel 1933, a cura dell’architetto Alberto Terenzio, fu rimaneggiata l’edicola funeraria ricavando un ampio vano ad arco ribassato, protetto, dal 1982, da una lastra di cristallo che ha reso visibile il sepolcro marmoreo di Raffaello.

Una riflessione finale.

La ricognizione del sepolcro di Raffaello nel 1833 non fu dettata da curiosità anatomiche o di secondaria importanza ma da quei principi di eterna civiltà, che i Romani definivano pietas erga mortuos, per restituire cioè dignità, a 313 anni dalla sua morte, ai resti mortali dell’Urbinate scompaginati dalle ricorrenti esondazioni del Tevere. Sorprende pertanto che in quest’anno raffaellesco ci sia una proposta di Istituzioni d’oltre Tevere, le quali, pur di soddisfare curiosità secondarie di natura non artistica, vorrebbero realizzare una manomissione meccanica traumatica del sepolcro dell’Urbinate (cosa non consentita, per altro, dal Codice dei beni culturali, Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, art. 20), sepolcro costituito (si badi bene) di una cassa di pino, di un deposito di piombo e di un’urna marmorea, muniti di sigilli del 1833. E questo per estrarre dai resti mortali di Raffaello il DNA, al fine di provare l’avvelenamento dell’Urbinate da parte del supposto rivale Sebastiano Del Piombo o di altri.

Raffaello, Trasfigurazione, Pinacoteca dei Musei Vaticani

Al di là dell’ipotesi profanatoria poco fantasiosa, che meraviglia soprattutto perché proveniente da Istituzioni della Santa Sede, va osservato che un eventuale rinvenimento di veleno nello scheletro raffaellesco, non consentirebbe la messa in stato d’accusa del Luciani o di altri. Perché escludere infatti un avvelenamento volontario di Raffaello, stressato dalla travolgente gloria a seguito delle prestigiosissime e più che impegnative commissioni? L’ultima delle quali, la monumentale Trasfigurazione, rimasta purtroppo incompiuta. Un destino, quello del suicidio, comune, del resto, a diverse moderne stars del cinema e della musica.

E inutile costruire su Raffaello film enigmatici alla Dan Brown, sperando di avere un passaggio per l’eternità! E’ meglio goderne ammirando le sue opere, oppure studiarlo negli archivi storici e nelle biblioteche, ma soprattutto è meglio amarlo come il più grande pittore, morto giovane, come Masaccio e altri, perché, come ricordava Menandro, ripreso, manco a dirlo, da Leopardi: «Muor giovane colui che al cielo è caro».

Vitaliano TIBERIA   Roma 12 aprile 2020