Il mito di Medea, che per amore superò ogni limite. L’eroina tragica nell’arte di ieri e di oggi

di Nica FIORI

Un uomo ti entra dentro – pensava Medea inginocchiata – e non ti lascia più. È la sua voce, il suo odore, la sua ombra, che cos’è mai? Oppure è Eros, il dio della dolcezza amara, quello della febbre e del tremito? (…) Eros, o la voce di Giasone, o il suo odore, qualsiasi cosa fosse quell’ombra che la possedeva, non era mai uscita da lei neppure per un momento”.

Queste parole, che richiamano Saffo più che Euripide, sono tratte da Il racconto di Medea del filologo Maurizio Bettini, inserito nel libro “Il mito di Medea. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi” (ed. Einaudi, 2017), firmato insieme all’archeologo Giuseppe Pucci. Il suo linguaggio moderno, che presenta la donna come se fosse posseduta da una malattia, o da una fiamma che non si era mai smorzata, è l’ennesima dimostrazione che il mito di Medea non si è mai esaurito e, partendo dalla letteratura greca più antica, è arrivato ai nostri giorni in innumerevoli interpretazioni letterarie, artistiche, musicali e cinematografiche. E ci sarà sempre qualcuno disposto a riproporlo.

È impossibile stabilire quando sia nato il mito di Medea, che, come gli altri miti classici, doveva essere inizialmente un racconto orale, una sorta di favola che a un certo punto viene messa per iscritto e tradotta in immagini. La sua storia, pur trasmessa con numerose varianti, è sempre indissolubilmente legata a quella di Giasone e degli Argonauti, raccontata in modo particolareggiato da Apollonio Rodio nelle Argonautiche.

1 Frederick Sandys, Medea, 1868, Birmingham Museum and Art Gallery

Quando la nave Argo, con a capo Giasone, approda nella Colchide alla ricerca del vello d’oro, Medea è giovanissima, ma già in grado di compiere magie con i suoi filtri.

Il suo potere lo ha ricevuto dal Sole (Helios) perché Medea è la figlia di Eeta, re della Colchide e figlio del Sole. È quindi imparentata con Circe (figlia del Sole), l’altra celebre maga dell’antichità.

Appena vede Giasone, Medea si innamora perdutamente di lui e lo aiuta nella conquista del vello d’oro, addormentando con un incantesimo il drago che lo protegge e giungendo a uccidere il proprio fratello Absirto. Dopo aver così tradito la sua famiglia, fugge sulla nave Argo con Giasone, perché lui le ha promesso che la sposerà, e approda da straniera a Iolco (in Tessaglia), ma Pelia, il re di Iolco, non vuole restituire a Giasone il regno che gli spetta.

2. Medea e le Pleiadi. Copia da originale greco

Medea convince allora le figlie di Pelia (le Peliadi) a fare a pezzi il padre e a immergerlo in un calderone per farlo ringiovanire con un procedimento magico, dopo aver trasformato un ariete in un agnello per dimostrare la sua abilità di maga.

A questo episodio si riferisce un rilievo (copia romana da originale greco del 420-410 a.C.) dell’Altes Museum di Berlino che raffigura Medea con le Peliadi.

Del resto ringiovanire un corpo vecchio era una sua prerogativa: lo aveva fatto con il suocero Esone, come racconta tra gli altri Ovidio nelle Metamorfosi, e con lo stesso Giasone.

3 Olpe in bucchero con Medea , Museo nazionale etrusco di Villa Giulia

A Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, è conservata un’olpe in bucchero (630 a.C.), trovata a Cerveteri, con la raffigurazione a rilievo di Medea davanti a un giovane che fuoriesce da un calderone. Poiché il nome non è indicato (mentre è presente quello di Metaia), potrebbe trattarsi di Giasone. Ma perché proprio lui, visto che era giovane e bello? Come fa notare Giuseppe Pucci, Medea possiede doti di curatrice e mediatrice della sfera ctonia. Secondo una versione del mito, Giasone è ucciso dal drago e viene da lei resuscitato: in questo caso il ringiovanimento sarebbe un modo per sanare le ferite inflitte dal drago sul corpo di Giasone.

Dopo l’uccisione di Pelia, la coppia, che ha due figli nati dalla loro unione, è costretta a fuggire da Iolco e si rifugia a Corinto, dove è ambientata la celebre tragedia di Euripide (431 a.C.). La fama di Giasone ha assicurato loro asilo politico, ma non una posizione preminente.

Medea è malvista da tutti perché straniera, ma sopporta tutto per amore di Giasone. Quando a Giasone viene offerta in moglie la figlia del re Creonte, la giovane Glauce (chiamata anche Creusa), lui accetta, mentre a Medea è imposto di andare in esilio. Medea fa finta di accettare e medita una terribile vendetta. Manda i suoi bambini alla sposa con due doni: un vestito (avvelenato) e una corona d’oro. La giovane li indossa e prende fuoco. Anche Creonte muore nel tentativo di salvare la figlia. Solo Giasone ha salva la vita, ma solo perché gli è riservata una sorte peggiore: l’uccisione dei figli.

Come può una madre uccidere i propri figli? Il figlicidio (diverso dall’infanticidio) nel mondo classico è qualcosa di inconcepibile per una donna, mentre è accettato nel caso degli uomini (un esempio è l’immolazione di Ifigenia da parte di Agamennone). Potrebbe spiegarsi con il fatto che Medea è semidivina e, proprio come altre divinità, quando è offesa è capace di compiere atroci vendette (pensiamo ad Artemide, che punisce l’arroganza di Niobe uccidendole tutti i figli).

Certo il suo lato umano deve aver sofferto terribilmente, ma l’uccisione potrebbe essere vista anche come mezzo per sottrarre i figli a una vita infelice da esuli, e in questo caso si tratterebbe, quindi, di un’uccisione compassionevole. È un concetto che viene fuori nel testo teatrale “La lunga notte di Medea” (1949) di Corrado Alvaro, ai cui occhi Medea appare come una donna perseguitata per la sua razza e che è respinta da popolo a popolo.

4 Maria Callas e Pier Paolo Pasolini sul set di Medea

Se Alvaro ambienta il dramma nell’arco di un solo giorno, Pier Paolo Pasolini nel suo film Medea del 1969 parte dalle origini. La scena iniziale mostra, infatti, il centauro Chirone che racconta a Giasone bambino la storia del prezioso vello d’oro, il manto dell’ariete alato che aveva trasportato via i figli di Nefele e del re Atamante, Frisso ed Elle, quando stavano per essere uccisi (ma Elle era comunque morta, perché caduta nel mare che da lei avrebbe preso il nome di Ellesponto). La scena successiva è ambientata nella Colchide (girata in realtà in un villaggio rupestre della Cappadocia), dove Medea presiede a un sacrificio umano davanti al vello d’oro, allo scopo di favorire la fertilità della terra. Il suo è un mondo arcaico che viene a contatto con quello civilizzato e desacralizzante dei greci. L’incontro è possibile grazie all’unione amorosa; lei riesce in parte a farsi accettare, anche se barbara e inquietante, ma poi, quando a Corinto viene ripudiata da Giasone, riemerge il suo orgoglio e comincia a meditare la sua vendetta.

Quando Pasolini scelse Maria Callas per il ruolo di Medea, lei dichiarò che si sentiva realmente Medea, visto che l’aveva interpretata più volte come cantante lirica, e la sua figura di donna passionale e volitiva, non più giovanissima e abbandonata dal suo amante Aristotele Onassis, si è imposta nel nostro immaginario come immagine iconica dell’eroina tragica. Oltretutto si vociferava che la Callas si fosse liberata con un aborto di un figlio concepito con Onassis.

Ma, prima che si imponessero le immagini fotografiche delle Medee teatrali e cinematografiche, molti altri sono stati i volti di Medea che innumerevoli artisti hanno raffigurato di volta in volta come fanciulla, come maga, in meditazione e come virago assassina.

5 G.Moreau, Giasone e Medea, 1865, Parigi, Musée d’Orsay

Un’affascinante fanciulla nuda, dall’erotismo un po’ ambiguo, è quella proposta da Gustave Moreau nel suo dipinto Giasone e Medea (1865, Parigi, Museo d’Orsay). La tela raffigura il momento in cui Giasone ha compiuto la sua impresa grazie a Medea, che gli sta dietro con una mano sulla spalla e lo guarda ammaliata. Il vello d’oro è alle loro spalle e davanti a loro è il drago con testa e ali d’aquila, che Giasone calpesta.

Sullo sfondo la natura appare incontaminata, quasi a suggerire la felicità del momento, quando Medea è ancora inconsapevole del losco destino cui andrà incontro. Un simbolo che potrebbe celare un presagio del futuro potrebbe essere la pianta di elleboro, delle cui foglie è adornata la giovane.

L’elleboro era, infatti, per gli antichi un simbolo di pazzia e l’atto contro natura di Medea, il figlicidio, era sicuramente visto come qualcosa di folle e inaccettabile.

6 Il Sodoma, Nozze di Alessandro e Rossane, particolare, Roma, Villa Franesina

La posizione dei due protagonisti sembra ripresa da un affresco del Sodoma, raffigurante Le Nozze di Alessandro e Rossane (1519, Roma, Villa Farnesina), dove sulla destra sono ritratti nella stessa posa il dio delle nozze Imeneo e il compagno di Alessandro, Efestione.

A Berlino, nell’Altes Museum, è conservato il cosiddetto Sarcofago di Medea, un bellissimo manufatto marmoreo databile al 140-150 d.C, ritrovato a Roma presso Porta San Lorenzo, che mostra sul davanti delle scene ispirate alla tragedia euripidea.

A sinistra Medea seduta medita la sua vendetta, al centro Glauce, dopo aver indossato il vestito avvelenato da Medea corre disperata, seguita dal padre, e a destra appare nuovamente Medea, che, dopo aver ucciso i figli, sale sul carro trainato dai serpenti alati, che il Sole le ha inviato per farla fuggire.

7 Sarcofago di Medea, Altes Museum Berlino
8 Charles Van Loo, M.lle Clairon come Medea, 1760.

Questa apparizione, che è descritta da Euripide, è davvero singolare, in quanto l’assassina diventa “deus ex machina” della sua stessa tragedia. Ed è sempre come apparizione divina che appare nel dipinto del 1759 del francese Charles-André van Loo, pittore di corte di Luigi XV, che la raffigura, col volto della celebre attrice La Clairon, sul carro mandato dal Sole, in posizione trionfante su Giasone, che, pur armato, non può fare nulla per fermarla.

La storia di Medea non finisce con questa fuga, perché ad Atene diventa moglie del vecchio Egeo, il padre di Teseo e, dopo aver compiuto lì altre efferatezze (cerca di avvelenare Teseo), secondo alcune versioni del mito finisce nei Campi Elisi, dove diventa sposa di Achille.

Secondo un’altra versione sarebbe invece approdata in Italia, nella Marsica, dove sarebbe stata poi adorata come Angizia, una divinità locale associata al culto dei serpenti.

9 Pittore di Amsterdam, Medea e il drago, 660-640 a.C.
10 Medea che uccide i figli, Museo archeologico di Arles,

Diverse sono le raffigurazioni del mondo antico, soprattutto pitture vascolari (attiche, etrusche, apule, lucane), che riproducono episodi del suo mito: tra queste la più antica è un’anfora di Cerveteri del Pittore di Amsterdam, raffigurante Medea e il drago (660-640 a. C. ca., Allard Pierson Museum, Amsterdam).

Nella Magna Grecia grande successo ha avuto il motivo della Fuga di Medea, che troviamo anche in un cratere a calice lucano, attribuito a un pittore della cerchia del Pittore di Policoro, databile al 400 a.C.

Una scultura a tutto tondo (I secolo d.C.) nel museo archeologico di Arles, in Provenza, la raffigura in piedi con accanto i due piccoli figli, che sembrano terrorizzati.

11 Cratere lucano con Fuga di Medea, 400 a.C.
12 Medea medita di uccidere i figli, Casa dei Dioscuri, Pompei

Vi sono anche affreschi, a Pompei e a Ercolano, che mostrano la donna pensierosa, mentre medita l’uccisione dei figli. Nell’affresco della Casa dei Dioscuri (I secolo a.C., Pompei) sono raffigurati pure i bambini che, inconsapevoli di ciò che li attende, stanno giocando con gli astragali. Anche a Roma il tema doveva essere diffuso, perché Ovidio ricorda nei Tristia che molti romani avevano sulle pareti di casa “la barbara madre con negli occhi il delitto”.

Diversi sono gli artisti moderni che si sono concentrati sul momento che precede il figlicidio, quando Medea sta per prendere la sua terribile decisione.

 

13 George Romney, Lady Hamilton come Medea,1786,The Norton Simon Museum
14 Henri Klagmann, Medea,1868, Nancy

Tra questi il pittore inglese George Romney, che nel suo capolavoro Lady Hamilton come Medea (1786, Pasadena, The Norton Simon Museum) rivela la sofferenza e il conflitto interiore della donna, sapientemente reso nel volto e nella gestualità. Il francese Henri Klagmann nel dipinto Medea (1868, Nancy, Musée des Beaux Arts), l’ha pure raffigurata mentre medita, osservando i figli che giocano ai suoi piedi. La sua è un’immagine di donna forte, quasi virile, nonostante il seno nudo, e trasmette quel senso di ambiguità che la contraddistingue da sempre.

Nell’età tardo-antica e nel Medioevo le raffigurazioni di Medea diminuiscono notevolmente, finché è nuovamente attestata nell’XI secolo, quando è redatto il Codex Etruscus, contenente la tragedia Medea di Seneca.

15 G. Macchietti, Medea ringiovanisce Esone, Firenze

Alcuni dipinti di epoca moderna raffigurano Medea come maga, tra cui Medea ringiovanisce Esone, di Girolamo Macchietti (1570-72 ca., Firenze, Museo di Palazzo Vecchio), dove la sua magia è messa in relazione con la divinità lunare Ecate, della quale era parente, e che è raffigurata in una statua che appare sulla sinistra accanto a quella di un’altra divinità. Secondo quanto riferisce Ovidio nelle Metamorfosi, Medea, su richiesta di Giasone, sostituisce il sangue del vecchio Esone, dopo averne squarciato il corpo, con il contenuto di un calderone dove ha versato erbe e altri ingredienti che era andata a cercare con il suo carro alato, ottenendo un ringiovanimento di 40 anni.

Un affresco con lo stesso tema, attribuito a Ludovico Carracci, risale al 1583-84 e fa parte del fregio dei Carracci di Palazzo Fava a Bologna, ripartito in 18 scene relative al mito degli Argonauti. La scena dei preparativi per il ringiovanimento di Esone mostra in primo piano sulla destra Medea, nuda e con i capelli sciolti, seduta sul bordo di un piccolo specchio d’acqua, in una posa tratta da una scultura antica, la Ninfa seduta degli Uffizi (I sec. a.C.), detta anche alla spina, perché simile al celebre Spinario.

16 Ludovico Carracci, Medea ringiovanisce Esone, Bologna, Palazzo Fava

Sullo sfondo, alla luce della luna quasi piena (secondo il racconto di Ovidio mancavano tre giorni al plenilunio) Medea sacrifica due agnelli neri a Ecate, alla presenza di Giasone ed Esone, ed è pure raffigurata sul carro col quale vola a raccogliere le erbe necessarie per il procedimento magico.

17. Prinsep, Valentine Cameron; Medea the Sorceress; Southwark Art Collection;

In Medea la maga (1880), il preraffaellita Valentine Cameron Prinsep l’ha raffigurata in una foresta piena di serpenti mentre raccoglie funghi avvelenati, che utilizzerà per avvelenare qualcuno (forse il vestito che donerà a Glauce). Tiene in mano il pugnale, che sarà poi utilizzato per uccidere i figli.

John William Waterhouse, anche lui aderente al movimento preraffaellita, nel suo dipinto a olio Giasone e Medea (1907) mostra la principessa della Colchide intenta a preparare una pozione magica per Giasone. La stessa maga affascinante, dal volto dolcemente malinconico e con una corona di fiori in testa, è rappresentata in un altro dipinto coevo dello stesso Waterhouse.

18 J W. Waterhouse, Jason and Medea,1907 coll. privata

Anche William Turner in Vision of Medea (1828, Londra Tate Gallery) ci mostra una Medea che esegue un incantesimo, i cui ingredienti sono sparsi per terra a sinistra e nello stesso dipinto appare in alto mentre fugge da Corinto sul carro dopo aver ucciso i figli.

19. Joseph Mallord William Turner, Vision of Medea , 1828, Londra, Tate Gallery
21 C.Jongen, Medea, bronzo
22 E. Delacroix, La furia di Medea, 1838, Palais des Beaux Arts de Lille

Medea continua a essere proposta come maga anche da artisti contemporanei, come per esempio la belga Christine Jongen (nata nel 1949), che nel 2012 ha realizzato una piccola scultura in bronzo, che la raffigura mentre esercita i suoi poteri magici in una posa che ricorda una divinità esotica.

Una delle interpretazioni pittoriche più celebri dell’eroina tragica è la Medea furiosa (1838) di Eugene Delacroix, la cui composizione dinamica è animata da una drammatica passionalità. Il volto della donna, in particolare, è reso con straordinario pathos mentre si volge indietro, verso l’apertura di una caverna, come per sfuggire all’inseguimento di qualcuno. Con le braccia stringe violentemente i figli al seno e intanto con la mano sinistra impugna l’arma. È stato notato come il pittore sembra reinterpretare la figura classica della madre, ispirandosi alla struttura piramidale della Vergine delle rocce di Leonardo da Vinci, ma trasformando l’amore in terribile follia.

Anselm Feuerbach, esponente della pittura neoclassica tedesca dell’Ottocento, dipinge il suo Addio di Medea (1870, Neue Pinakothek, Monaco) dopo aver visto il dipinto di Delacroix e altre opere con lo stesso soggetto. Ma, come appare anche dalla sua corrispondenza, ne dà un’interpretazione più malinconica che drammatica. Persa nelle sue riflessioni davanti al mare, Medea pensa di avvelenare la futura sposa del marito prima di partire da Corinto, mentre non ha ancora preso nessuna decisione riguardo ai figli. La sua espressione, permeata ancora di tenerezza materna, riflette il suo dilemma.

22. A.. Feuerbach, Medea,1870, Monaco Neue Pinakothek

Del resto nella sua battaglia contro tutti lei è sola, in quanto straniera. Pur padroneggiando benissimo il greco, tanto da uscire vincitrice da tutti gli scontri verbali contro i greci, ha dei barbari alcune caratteristiche come l’emotività e la capacità di fingere e di ingannare. Medea è sofé, cioè sapiente, mentre la donna greca è ignorante. Possiede anche l’astuzia che le consente di prevedere le azioni degli altri: il suo nome non a caso deriva da medomai, un verbo che indica la sua capacità di aiutare gli altri con i farmaci, ma anche quella di escogitare tranelli.

Con Giasone non c’è stato un atto formale di matrimonio e per i corinzi lei è una concubina. Medea si aspetta l’aiuto di Giasone e invece lui la pianta in asso: cosa che per lei non è solo un tradimento, ma un vero oltraggio. Colpisce allora Giasone, che aspira a diventare re, sottraendogli quei figli che sono fondamentali per la discendenza. Un’azione davvero rivoluzionaria, perché Medea esce dallo spazio domestico e lotta per il riscatto di tutte le donne vittime della prepotenza maschile. Con il suo terribile atto ripudia la sua femminilità per farsi uomo, ed è per questo che diventa nel Novecento un’icona del femminismo.

Significative sono queste parole che Euripide le fa pronunciare, rivolgendosi alle donne corinzie del coro:

Dicono che noi viviamo un’esistenza senza rischi, dentro casa e che loro invece vanno a combattere. Errore! Accetterei di stare in campo, là sotto le armi, per tre volte, piuttosto che figliare solo una volta”.