“Good bye England’s Rose”. Venti anni fa, 31 agosto 1997, l’addio a Lady Diana

di Mario URSINO

Lady Diana, l’ultimo mito del ventesimo secolo, in Warhol, come Marilyn e Jackie Kennedy

Non sappiamo quanto interesse Lady Diana avesse per l’arte, né se possedesse una particolare collezione (a parte la prestigiosa raccolta della sua famiglia, gli Spencer, nella residenza di Althorp House, Northampton). Non risulta inoltre che la principessa del Galles visitasse abitualmente musei e gallerie (ne avremmo viste di immagini della donna più fotografata del mondo accanto a capolavori e nelle occasioni fin troppo mondane delle opening). No, la gentilissima signora, per sua natura, era troppo presa dai suoi sentimenti e non aveva, o non ha avuto, il tempo per occuparsi anche dell’arte. Ma per il naturale destino dei personaggi celebri del nostro tempo, Lady Diana è diventata (e non solo dopo la sua tragica scomparsa) un’icona tra le più celebrate nell’universo mass-mediatico. La giovane Spencer, infatti, non appena fu destinata sposa al principe Carlo (il matrimonio fu celebrato il 29 luglio del 1981), entrò subito a far parte di quella straordinaria galleria di ritratti del massimo esponente della Pop Art americana, Andy Warhol. La sua effigie [fig.1], e quella del suo futuro consorte in abito regale [fig. 2], due dipinti serigrafici e colorati, l’artista li realizzò il giorno stesso del loro matrimonio nel 1981; Warhol dovette  trarre le due immagini dei giovani principi da una foto ufficiale del loro fidanzamento avvenuto il 24 febbraio di quello stesso anno [fig. 3].

La Diana di Warhol, dunque, si colloca con pieno diritto accanto a quelle di altre due figure femminili appartenenti alla mitologia contemporanea della seconda metà del XX secolo: Marilyn Monroe [figg. 4-5] e Jaqueline Kennedy [figg. 6-7].

 

Dalle innumerevoli foto dalla cronaca di queste due ladies, Warhol ne fu addirittura ossessionato: nel 1962, commosso dalla morte improvvisa di Marilyn, da una foto in bianco e nero della diva, si mise a stamparne l’immagine, sempre con tecnica serigrafica, numerose volte in maniera seriale con colori sgargianti [fig. 8]; la stessa cosa avvenne per il volto Jackie, nel 1964, [fig. 9] dopo l’assassinio del marito, John F. Kennedy, a Dallas.

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Lady Diana, con la sua vita stroncata a soli trentasei anni (come Marilyn), ha concluso in maniera epocale il secolo e il secondo millennio, nel modo leggendario e vistoso che abbiamo visto in televisione nel giorno della sua drammatica scomparsa, venti anni fa, il 31 agosto del 1997.

I tre personaggi femminili, individuati con largo anticipo sulla percezione dell’immaginario comune dal geniale artista Pop, Marilyn e Jackie negli anni Sessanta, Lady D negli anni Ottanta, hanno incarnato alla perfezione i tre simboli-ossessione del nostro tempo post secondo conflitto mondiale: la bellezza, la ricchezza, e il potere nelle loro infauste, e si direbbe dannate,  interconnessioni; e tali simboli-ossessione anche se sono sempre esistiti nella storia, oggi, nell’epoca della comunicazione globale, hanno assunto un carattere di incontenibile nevrosi collettiva che ha finito per divorare le sue creature più deboli (Marilyn e Lady Diana): Jaqueline, dalla personalità più forte e più colta, è durata fino a che un male inesorabile non l’ha più resa interessante per i media e gli implacabili fotografi. Fatto sta che è proprio nella fotografia, nell’essere riprodotta milioni di volte che la figura ripresa diventa soggetto, protagonista ad oltranza, mito. La principessa del Galles purtroppo ormai viveva di questo, e senza di questo non poteva più vivere, e l’immagine pubblica e mondana che si era costruita era diventata la sua unica forza nell’isolamento creatole, soprattutto dopo il divorzio siglato ufficialmente il 28 agosto del 1996,  dal potere ufficiale inglese, dalla monarchia più rigida del mondo.

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E paradossalmente i grandi miti del Novecento, si pensi anche solo, tra i numerosi personaggi dello spettacolo, a Elvis Presley (scomparso giusto quarant’anni fa [fig. 10] o ai Beatles, [fig. 11] immortalati serialmente da Warhol), così fragili nel mondo moderno, sono nati là dove furono  le grandi potenze liberali degli anni Sessanta: l’America dei Kennedy e l’Inghilterra dei Windsor: il destino di Marilyn, Jackie e Diana si è incrociato fatalmente con esse e da esse travolto, ma lasciando una traccia indelebile del loro passaggio, effimero se si vuole, ma straordinario nella storia del costume e dello spettacolo del XX secolo. E Warhol, vorrei ancora una volta sottolineare, le ha assimilate nelle sue originali riproduzioni serigrafiche al culmine della loro notorietà, con immagini che difficilmente si cancellano dalla nostra memoria. Inoltre nella sua produzione se ne trova un’opera straordinariamente presaga: un terribile, anonimo incidente automobilistico, Green Disaster, 1963 [fig. 12],

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da lui ripreso come opera seriale fra le sue  tante composizioni, tratte, come al solito, dalle riproduzioni fotografiche della  cronaca ordinaria; ebbene quella insignificante, (contenutisticamente  parlando), opera di Warhol, curiosamente, ci è tornata come un fulmine alla mente allorquando ci  apparve in TV l’immagine straziante dell’auto distrutta a Parigi [fig.13] con Dodi Al Fayed, Diana, l’autista, Henry Paul, e la giovane  guardia del corpo, Trevor Rees-Jones, (unico sopravvissuto) [fig. 14], sotto il ponte dell’Alma, la notte del 31 agosto 1997.

In questo modo, Lady Diana è andata via, all’improvviso, giusto un anno dopo il divorzio ufficiale (pura fatalità? o provocato da implacabili ragioni di Stato? secondo talune ipotesi. Non lo sapremo mai); così è scomparsa la principessa del Galles, la Rosa d’Inghilterra, Candle in the Wind, come recita la poetica canzone che le dedicò il suo amico Elton John, in occasione dei grandiosi funerali, trasmessi in diretta televisiva mondiale. Puntualmente li registrai, sia per la commovente cerimonia, sia, lo confesso, per l’alto valore estetico della ripresa, per cui sono convinto che la regia di quel filmato televisivo, ormai storico, nella sua interezza, assume a distanza di tanti anni un valore autonomamente artistico (ma lo pensai già allora);

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e dico questo naturalmente con  il massimo rispetto  dovuto alla figura dell’augusta Diana,  che  è morta in un banale incidente stradale, come Lawrence d’Arabia, James Dean, Grace Kelly, secondo un tragico copione che ha segnato drammaticamente il nostro tempo; e come ha in quell’occasione affermato lo scrittore inglese James Ballard (1930-2009), autore del noto romanzo del 1973, Crash : “La morte di Diana è una morte sacrificale, un sacrificio del nostro tempo.”

di Mario URSINO     Roma agosto 2017