Francesco Arcangeli, la geniale invenzione di Monet e la pittura che non torna indietro

di Beatrice BUSCAROLI

Beatrice Buscaroli è critica e storica dell’arte; vive a Bologna ed è stata curatrice delle Civiche Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara dal 1994 al 1998 nonchè direttore artistico dello spazio Lamec di Vicenza. Ha insegnato storia dell’arte moderna, storia dell’arte contemporanea e museologia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e l’Università di Ravenna. Autrice della monografia su Carlo Cignani e di altri saggi in particolare sull’arte emiliana del Seicento, ha partecipato a conferenze e convegni e come curatrice a varie mostre e ai relativi cataloghi. Collabora come critico d’arte con quotidiani e riviste. Già membro del Comitato Nazionale per il Centenario del Manifesto del Futurismo ha dedicato al Futurismo la cura di diverse mostre (Futurismo veneto, Futurismo in Romagna, Futurismo a Bologna), oltre a saggi e articoli. Con questo articolo inzia la sua collaborazione con About Art.

Strano destino, quello del colore. Sembra che esista, dentro le fibre più profonde della sua natura, una continua spinta ad uscire, a farsi altro, a diventare scultura, ingrossandosi, o coprire i contorni delle forme che il povero artista ha cercato di fissare entro linee che mostrano la loro intrinseca fragilità.

Regolarmente, nel corso del tempo, a partire addirittura dai romani e dalle loro figurette leziose e trasparenti, il colore continua con questa sorta di vocazione, per poi tornare quasi sempre entro i propri limiti. Pensiamo a Tiziano del Marsia o della Pietà? Pensiamo a questi dipinti come pensiamo alla Pietà Rondanini o ai Prigioni. Pensiamo a Turner?

Era naturale che avvenisse, prima o poi, e non solo come sporadico esperimento.

La mostra che (purtroppo) è stata aperta per troppo poco presso il Palazzo Albergati di Bologna (Monet e gli Impressionisti, 2020-2021), ha riportato – a quasi trent’anni dalla rassegna Claude Monet e i suoi amici allestita a Palazzo dei Diamanti a Ferrara – una serie delle Ninfee che Claude Monet incominciò a dipingere negli anni ‘20 del secolo scorso.

Quadri bagnati, sentori umidi, quadri dove l’annegamento del colore nelle acque scure dello stagno coincide con un vero e proprio annuncio: la pittura ha scelto di non tornare indietro, questa volta davvero.

Ancora, Il vecchio pittore, quel profeta dalla barba bianca e gli occhi lucidissimi, non si accontenta di giocare intera la sua giovinezza spiazzando completamente lo spettatore davanti a un soggetto che non è un vero soggetto, ma un puro pretesto, dal momento che lui stesso ha creato lo stagno, ha posato le ninfee, ha gettato la lieve linea curva del ponticello giapponese.

Supera secoli di pittura, scioglie i fiori nell’acqua e getta qua e la segni rosa, lilla, blu, viola, neri, marroni …

Francesco Arcangeli

Gli anni Quaranta del secolo scorso, come si può facilmente supporre, non sono i migliori per guardare alla pittura di Monet. Decorativa, non impegnata, fuori dalla storia. Bisognava “ristudiarlo”, scrive nel 1948 Francesco Arcangeli, il maggior allievo di Roberto Longhi, che ondeggiava tra l’arte antica e l’arte moderna, sempre cercando di arrivare il più vicino possibile al cuore del pittore.

“Il tempo esalterà i due giganti della situazione (…) e credo saranno proprio Cézanne e Monet”.

Quasi due decenni dopo, Arcangeli venne invitato a tenere due conferenze su Monet alla Galleria d’Arte Moderna di Roma (poi trascritte da R. Tassi – F. Arcangeli, Monet, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1989).

Erano passati pochissimi anni dalla prima intuizione di quell’ “Informale padano” che tante conseguenze avrà, per la pittura e per la vita stessa di Arcangeli. Poiché questo scritto, un incrocio tra passioni diverse, una necessità di risentire la natura come avevano fatto gli antichi, poi seguito da un secondo, ancora più intricato di umanità, biografia e biografie degli autori, prese di posizioni inconsuete, gli costerà l’implacabile giudizio del vecchio maestro, di essere “uscito dalla storia dell’arte”.

Dov’è il suo atelier”, aveva chiesto il giornalista Emile Taboureux a Monet, ancora nel 1880. “Mai avuto un atelier”, rispose Monet indicando la Senna e la campagna intorno: “Voilà mon atelier”.

Ecco, il ritorno dei “tramandi”, come scriveva il critico bolognese.

Dopo le immersioni, comprese o meno nel mondo a lui contemporaneo, Arcangeli trovava in Monet una sorta di padre nobile di quell’Informel che, da ogni parte, in ogni paese, stava cambiando definitivamente la pittura. Cézanne, spiega Arcangeli, ha in mente, prima di dipingere, una “forma premeditata”. Monet no.

“Questo dipinto è una specie di campo di mirabile confusione, di straordinaria confusione, che non è solo la confusione naturale, è una confusione di “risonanza”,

è un ribollire anche dell’animo; questo quadro è un “informel” nel senso che Monet era volutamente trascinato verso questo aspetto di forma non premeditata; il che non vuol dire “senza forma”. ”Non vuol dire senza forma; vuol dire, solo apparentemente senza forma”.

Il suo addentrarsi nelle ragioni di un artista del secolo precedente avendo negli occhi la pittura dei suoi compagni di strada, lo fa addentrare ancora di più in una complessa ma solidissima dissertazione sulla natura e la sua interpretazione. Sembra che stia scavando, riga dopo riga, per ritrovare e dar conto di quei “rapporti” che altro non erano se non l’infinito legame che lega passato e futuro.

Passa Turner, sfiora Pollock: il contemporaneo preme con le sue esigenze mentre Arcangeli sembra scendere ancora di più nelle acque dello stagno del Giardino di Giverny.

Nel frattempo Arcangeli comincia a vivere quell’ultimo supplizio che la sorte gli donò: il rapporto con Giorgio Morandi, sul quale stava scrivendo una monografia essenziale, e che, giorno dopo giorno, se ne  distaccava, fino a impedire alle sorelle di aprire la porta al critico, preoccupato e sofferente.

Ma il dado era gettato: Monet ha stabilito un “rapporto”, con Pollock e i suoi. E’

“l’occhio che dice che c’è un rapporto, cioè proprio quello strumento di percezione senza di cui la storia dell’arte mi pare minacci di cadere nel vuoto…”.

Aveva incominciato con Wiligelmo, e poi Vitale da Bologna, aveva attraversato i caratteri diversi e i diversi pregi dei tre Carracci, sempre cercando di stabilire, cercare, scavare l’esistenza di quel “rapporto”.

Che gli fu negato, dai tanti che lo vedevano solitario seguire strane senza futuro, perché, sembra, gli artisti nutrivano e nutrono molta preoccupazione nei confronti dei cosiddetti maestri, dei contemporanei e, soprattutto, dei confronti.

Ma lui non ne aveva timore: la sua storia dell’arte è questa ed è un dono, che resta, benché i suoi scritti siano, oggi, tutti introvabili.

Chissà perché.

Beatrice BUSCARLI,   Bologna 7 marzo 2021