Ferruccio Ferrazzi e un capolavoro del ‘modernismo’ a Sabaudia. Un contributo dovuto.

di Mario URSINO

Il mosaico di Ferruccio Ferrazzi, L’Annunciazione a Maria, per la Chiesa della SS. Annunziata a Sabaudia

fig 2 Sabaudia Chiesa della Ss Annunciata

 

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fig 3 SS Annunciata. Facciata

Il 15 aprile del 1935, ad un anno dalla fondazione della città di Sabaudia, Ferruccio Ferrazzi (1891-1978) [fig. 1] aveva portato a compimento il monumentale mosaico L’Annunciazione a Maria, m.14,40×3,80, sulla facciata della Chiesa della SS. Annunziata [figg. 2-3], sita nel nucleo storico del complesso architettonico della Città di Sabaudia, realizzato da quattro giovani architetti italiani, Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli; tale armonioso esempio di architettura razionalista degli Anni Trenta è considerato giustamente uno dei più belli tra i molti in Italia, e nel Lazio in particolare (si veda, in proposito, l’ottimo recente articolo di Francesco Montuori, Ascesa e declino di un’Architettura razionalista: il caso di Sabaudia, apparso recentemente su questo magazine).

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Il 5 agosto del 1933, come è noto, fu posta la prima pietra per la costruzione di Sabaudia, e il 5 agosto del 1991, l’anno del centenario della nascita del Ferrazzi, ebbi l’onore di presentare a Sabaudia il prezioso e raro volumetto, Ferruccio Ferrazzi [fig. 4], del compianto amico Feliciano Jannella (1921-1993), di cui ho già fatto ampio cenno nel mio articolo su questo magazine in occasione della mostra di Duilio Cambellotti al museo Greco di Sabaudia prima, e a Roma negli spazi della Galleria Apolloni in via Margutta, lo scorso anno. E il riferimento non è casuale, poiché Ferruccio Ferrazzi, Duilio Cambellotti e Mario Sironi vanno considerati, a mio avviso, i tre grandi maestri dell’arte della prima metà del Novecento, e ciascuno, nel proprio inconfondibile stile modernista, ha interpretato i medesimi grandi valori civili, laici, religiosi, degli affetti e del lavoro (si vedano, ad esempio, del Ferrazzi, Toro, 1930 e Carrettiere romano, 1936 [figg. 5-6], Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), che dovevano essere alla base della rinascita dell’Italia dopo le sofferenze del Paese a seguito della Prima Guerra Mondiale. Tutto ciò si evince nel sintetico, ma denso profilo, che Feliciano

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Jannella ha dedicato a Ferruccio Ferrazzi, di cui è stato approfondito studioso nell’ambito delle sue numerose pubblicazioni sull’Agro Pontino, e in particolare della sua amata Città di Sabaudia (rimando alla sua bibliografia sul sito web).

Il mio intervento nella sopra citata presentazione del volume si era incentrato principalmente nel ricordare l’attività dello studioso, che oltre ad essere stato docente, è stato anche il fondatore e direttore della Biblioteca Comunale di Sabaudia, oggi a lui intestata, nonché il promotore della formazione del museo dello scultore Emilio Greco, e l’organizzatore di moltissime mostre di artisti contemporanei, ai quali chiedeva di lasciare una loro opera per una costituenda pinacoteca civica: le opere raccolte sono tantissime, ma la pinacoteca non è stata mai realizzata; attualmente le opere sono esposte, in parte in un’ala del Palazzo Comunale, e in parte negli uffici della Biblioteca Comunale. Devo anche ricordare che Jannella andava molto fiero del restauro di un edificio scolastico sito nella “Lestra di Cocuzza” nel Parco Nazionale del Circeo, un modello per le scuole rurali e un documento dell’attività di quelle personalità, pionieri dell’alfabetizzazione nell’Agro Pontino, quali Anna e Angelo Celli, Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, che furono appunto i promotori e fondatori del “Comitato Scuola per i contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine”. E di questi maestri Feliciano Jannella è stato l’ideale continuatore e attivissimo sia nella pratica che nei suoi studi storici.

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Ma per tornare al grandioso mosaico del Ferrazzi, va detto che Jannella lo considerava giustamente una delle “vestigia memorabili” di Sabaudia, miracolosamente sfuggito al “piccone demolitore degli anni bui della Seconda Guerra Mondiale”, nonostante nel grandioso scenario di questa originalissima opera, siano presenti, nella complessa iconografia, le effigi di Benito Mussolini e Valentino Orsolini Cencelli (1888-1971) [fig. 7], presidente dell’allora “Opera Nazionale Combattenti” e strenuo artefice della bonifica delle Paludi Pontine e della fondazione di Sabaudia, come recita l’epigrafe che si legge tuttora sulla svettante e centrale Torre Civica della città [fig. 8]. Pertanto distruggere una tale opera così emblematica e significativa per Sabaudia, per i suoi abitanti, per coloro che duramente avevano lavorato con incredibile fatica nei famosi 253 giorni (5 agosto 1933 – 15 aprile 1934) per la costruzione della città sarebbe stato un vero atto di barbarie e di cancellazione della storia oltre che di un documento artistico e religioso di eccezionale valore (a questo proposito mi viene spontaneo il riferimento a taluni rappresentanti dell’odierna politica, secondo i quali sarebbero da abbattere a Roma importanti simboli dell’architettura razionalista degli anni Trenta, testimonianza di un’arte di un fascismo ormai appartenente alla nostra storia, proposta che ha suscitato molta indignazione in gran parte dell’opinione pubblica, e di insigni storici dell’architettura. Ma tant’è).

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Il mosaico del Ferrazzi che stiamo esaminando trae origine dalla meditata ripresa delle tecniche dall’antico che proprio al culmine degli anni Trenta è stato oggetto della ricerca dell’artista; Ferrazzi, al pari dei citati Cambellotti e Sironi, vedeva nella riscoperta delle antiche tecniche pittoriche (l’affresco, il mosaico e, nel suo caso, l’encausto), il modo migliore per rinnovare la pittura contemporanea, troppo succube del dettato delle avanguardie storiche primo-novecentesche internazionali e italiane.

Ferrazzi studiò a lungo il procedimento pittorico dell’encausto, praticato nell’arte greco-romana- pompeiana che consiste nel trattare l’affresco con uno strato di cera calda che, facendo trasudare in superficie i colori assorbiti dall’intonaco, ne mantiene a lungo la brillantezza e la maggiore incisività delle

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figure (si veda, per esempio, quale ottimo risultato sia il potente affresco San Benedetto, del 1949 [fig. 9] a Roma nella chiesa omonima). Affascinato da tali antiche tecniche, Ferrazzi eseguirà, sempre negli anni Trenta, numerose opere pubbliche a Pomezia, nella Basilica di Santa Rita a Cascia, nel Palazzo di Giustizia di Milano e nel Padiglione italiano nell’Esposizione Universale di New York del 1939, come ci ricorda puntualmente Jannella.

Sull’esperienza dell’antico, però, Ferrazzi innesta la sua sensibilità di moderno: è noto il suo aforisma “la composizione è l’ordine di un’emozione”. Non è esente tuttavia da qualche influsso, nei primi anni Dieci dal divisionismo segantiniano (si vedano al riguardo Focolare, 1910 e La Genitrice 1912, sul tema degli affetti [figg. 10-11], conservate a Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna),

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nonché successivamente dal Futurismo che sfiora appena la sua opera (v. Toro rosso, 1919, [fig. 12] Firenze, Museo del Novecento)

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senza connotarla ineluttabilmente come in Balla e Boccioni. L’idea del movimento in Ferrazzi non è dovuto tanto all’influenza della macchina nel mondo moderno, ma è piuttosto il moto dell’anima che agita le figure e i colori dell’artista, ovvero quella immedesimazione tra anima e natura.

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Se ci poniamo infatti davanti all’opera Trionfo della Croce, mirabile affresco del 1951 [fig. 13], nel catino absidale della Basilica romana di Sant’Eugenio, vediamo tutto il movimento, tutta l’agitazione nelle figure che si addensano intorno alla croce, simbolo di Cristo; tutta questa agitazione della scena non è altro che il moto dell’anima, dei sentimenti, simboli storici, civili, religiosi e morali contenuti nell’opera.

E questo è anche il significato dell’Annunciazione a Maria a Sabaudia, che trova le sue radici iconografiche, a mio avviso, nei mosaici ravennati di Sant’Apollinare in Classe, del VI secolo dopo Cristo, che l’autore conosceva molto bene, e forse meglio di ogni altro artista del suo tempo.

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Se confrontiamo infatti il suo mosaico con l’Arcangelo Michele [fig. 14] nella citata chiesa ravennate, si può cogliere facilmente l’affinità di stile (il mosaico), mentre l’iconografia dell’Angelo ieratico e solenne nella posa fissa e immobile della maniera bizantina, non trova riscontro nell’Angelo del Ferrazzi [fig. 15] le cui ali appaiono mosse dal vento come per un’improvvisa frenata all’arrivo nel luogo del sacro annuncio. Ferrazzi ha voluto ripristinare il gusto della rappresentazione arcaica, proprio per sottolineare la provenienza dell’immagine da un tempo lontano, evocato dal profondo della sua memoria storico-artistica.

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E in questo senso si spiega il suo guardare ai maestri del passato: perciò possiamo vedere che il volto della Vergine appare desunto, con molta probabilità, da una delle figure giottesche, il cammelliere dei Re Magi, nella Epifania della Cappella degli Scrovegni a Padova [fig.16] o anche da Piero della Francesca in un particolare del volto di una delle figure nella Pala della Misericordia a Borgo San Sepolcro, che la tradizione sostiene trattarsi dell’ autoritratto dello stesso Piero che si rappresenta a fianco del manto della Madonna [fig. 17].

Ferrazzi si discosta dalle iconografie tradizionali delle Annunciazioni dove la Vergine appare sempre assisa e ritrosa di fronte all’Angelo che le reca il divino messaggio (basti pensare alla famosa Annunciazione di Simone Martini). No, qui la scena è completamente diversa, il monumentale mosaico si inserisce verticalmente sulla facciata nella purezza delle due pareti frontali della chiesa; è strutturato in maniera concava in modo da facilitare la vista dal basso verso l’alto, onde gli spettatori (ed io tra questi) possono cogliere ogni minimo dettaglio della rifulgente opera.

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Ferrazzi perciò colloca il grande Angelo in alto tra il cielo e il mare, sfavillante di luce e colore, in una zona ben identificata: il Promontorio del Circeo, le dune, il lago, il territorio storico di Sabaudia. Più in basso la figura del Duce e di Orsolini Cencelli che lavorano alla trebbiatura, con alle spalle la Torre Civica e il Palazzo del Comune (anche qui il significato celebrativo è accumunato al simbolo laico-morale della città, ovvero, si ricorda, che Sabaudia nasce come operoso Comune Agricolo ed è stata questa la sua ricchezza). Ancora più in basso si possono vedere anche operai al lavoro. La figura della Vergine [fig. 18], statica e solenne, con lo sguardo rivolto al cielo, appare consapevole della divina grazia; Ferrazzi la rappresenta in piedi sul basamento di un pozzo (il pozzo, secondo l’iconografia più antica, è il luogo in cui è avvenuto il religioso evento, ma non più raffigurata nelle Annunciazioni medioevali e rinascimentali).

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In conclusione, vorrei aggiungere che il mio caro amico Feliciano Jannella nel suo aureo volumetto, peraltro stampato in pochissime copie fuori commercio e a suo carico, ci ricorda che il Ferrazzi possedeva anche un innato senso didattico, laddove afferma, in consonanza con il suo biografo:

Ritengo la scuola molto importante per i giovani, non però intesa come trasmissioni di fattori stilistici di facile assimilazione, che finiscono per essere una ripetizione più dei difetti che dei pregi dei maestri, bensì di quella sapienza che porta poi ad uno stile”.

Mario URSINO    Roma marzo 2018