El Greco a Roma. Tre capolavori del genio cretese a Sant’Agnese in Agone: “Un pellegrinaggio di bellezza verso il Giubileo”.

di Sergio ROSSI

El Greco a Roma

Nel 2025 si aprirà il Giubileo della Speranza per la quale si attendono a Roma milioni di pellegrini, mentre nel 2016 Papa Francesco aveva indetto il Giubileo della Misericordia, un tema anch’esso particolarmente adatto ad essere tradotto in pittura dagli artisti più sensibili, a partire dal Beato Angelico nella Cappella Niccolina in Vaticano, passando per la bellissima Annunciazione dipinta nel 1500 da Antoniazzo Romano in Santa Maria sopra Minerva proprio per la Confraternita della Misericordia fino al maestoso San Camillo de Lellis soccorre i malati durante un’alluvione del Tevere, del 1746, conservato ora presso il Museo di Roma, solo per fare alcuni esempi.[1]

Quello del rapporto tra arte e fede nel segno dei Giubilei è del resto un tema ricorrente nella storia di Roma e non solo, a partire dal primo Anno Santo del 1300, e che sicuramente risulterà centrale anche nel 2025. Se ne è avuta una significativa anticipazione con la mostra I cieli aperti. El Geco a Roma, promossa dal Dicastero dell’Evangelizzazione sotto il significativo motto “Il Giubileo è cultura” e che si è aperta mercoledì 6 settembre presso la chiesa di S. Agnese in Agone.

Domenico Theotokópoulos, meglio conosciuto come El Greco, giunse a Roma da Venezia nel 1570 e vi si trattenne fino al 1575/6, sotto i pontificati di San Pio V (1566-1572) e Gregorio XIII (1572-1585), dunque proprio durante la preparazione e l’apertura del Giubileo del 1575 unanimemente riconosciuto come quello della riscossa cattolica e che vide l’afflusso a Roma di oltre 400.000 pellegrini. Del resto il Boncompagni fu il pontefice che più di tutti favorì lo sviluppo delle Compagnie e delle Confraternite con fini caritativi e assistenziali, tra cui spicca quella della SS. Trinità dei Pellegrini, fondata da San Filippo Neri. Anzi si calcola che furono più di trecento le Confraternite ricevute a Roma per questo Anno Santo e che divennero protagoniste di

«processioni dove si mescolavano nobili, storpi, mendicanti, file di donne con i loro stendardi, cortei di interi piccoli paesi che si snodavano davanti alle folle dei romani e degli altri pellegrini, sempre più spesso mostrando una devozione dove attori e spettatori recitavano ruoli intercambiabili di pietà religiosa»[2].

Ma questo fu anche un Giubileo cui El Greco non partecipò in alcun modo perché ormai escluso, come si preciserà tra breve, da tutte le commissioni ufficiali.

Jacopo Zucchi, Messa di San Gregorio, Roma, Santa Trinità dei Pellegrini

E se si osservano con attenzione i dipinti promossi in quel periodo da Papa Bonconpagni si comprende bene come l’arte visionaria del Theotokópoulos mal si adattasse ai gusti del pontefice, promotore di un’arte che possiamo già definire devota e controriformata e della quale il manifesto può essere considerato la Messa di San Gregorio dipinta da Jacopo Zucchi proprio nel 1575 per l’Oratorio della SS. Trinità dei Pellegrini. Si tratta di una grande macchina scenica particolarmente adatta alla ricorrenza giubilare e che «evidenzia il culto dell’Eucarestia che il santo vescovo di Roma celebra mentre appare su di lui la colomba della Spirito Santo. Il committente, Ferdinando de’ Medici, allora cardinale poi Granduca di Toscana, compare in primo piano insieme a uno stuolo di prelati che circondano il santo, che ha il volto di Gregorio XIII[3]».

n uno scenario raffaellesco che si perde all’infinito e allude inequivocabilmente alla Basilica di San Pietro, una folla di religiosi dalle lussuosissime stole damascate si accalca all’inverosimile, consentendo allo Zucchi di fare sfoggio della sua abilità di ritrattista ma anche di fine psicologo: e sembra quasi di sentire il sommesso vocio dei prelati, il fruscio delle stoffe, l’odore di incenso, il tutto reso con un cromatismo insieme tenue e deciso che fa ben risaltare le luci, le ombre e i mezzi toni.

L’altra opera fondamentale prodotta a Roma negli anni della permanenza di El Greco nella città è stato l’Oratorio del Gonfalone, affrescato tra il 1569 e il 1576, con storie della Passione di Cristo, vera Rappresentazione Sacra in pittura, dal chiaro intento scenografico e teatrale.

Un particolare dell’interno dell’Oratorio del Gonfalone.

Tra le varie scene la più emblematica è a mio avviso la Flagellazione di Federico Zuccari, datata 1573. Qui egli sublima e quasi raggela l’enfasi drammatica del fratello Taddeo, da cui pure prende le mosse, in un linguaggio colto e ricco di citazioni ma anche di sicura autonomia nella semplificazione delle forme e che ne fa uno dei maggiori precursori del classicismo seicentesco.  Ma è evidente che il “naturalismo” sublimato e quasi didascalico dello Zucchi o il proto classicismo di Federico Zuccari fossero agli antipodi dell’espressionismo visionario di El Greco e che chi apprezzava i primi non poteva fare lo stesso con il secondo.

Del resto il Nostro, giunto a Roma nel 1570 grazie agli uffici di Giulio Clovio e allocatosi presso il cardinale Alessandro Farnese, entrò presto in rotta di collisione con quest’ultimo e chiusa questa parentesi decise

«di aprire bottega in libera professione nella città papale, iscrivendosi all’Università dei pittori, che allora deteneva in campo artistico la supremazia assoluta. Pagò in un’unica soluzione la somma di denaro prevista per l’iscrizione, a differenza della maggior parte di pittori registrati nel volume, che preferivano provvedere con varie rate al pagamento: questo forse indica la volontà dell’artista cretese di ottenere subito la patente per poter così cominciare al più presto a lavorare autonomamente in una città dove si era inimicato un potente mecenate e probabilmente anche i suoi contatti ed amici. Il pagamento è registrato per la festa di San Luca, in data 18 ottobre 1572».[4]

Sappiamo poi che nell’ottobre del 1576 El Greco era a Madrid e che si recò quindi a Toledo, da dove non si sposterà più fino alla morte avvenuta nel 1614. Ma non è certo questa la sede per seguire nel dettaglio l’attività del nostro artista e concentriamoci dunque sui tre dipinti ora esposti in S. Agnese in Agone che costituiscono, come si legge nella premessa del Catalogo della mostra, un primo momento di grande arte che apre un pellegrinaggio di bellezza verso il Giubileo del 1525. Si tratta nel dettaglio della Sacra famiglia con Sant’Anna, del 1595 circa; del Battesimo di Cristo del 1608-1624, entrambi conservati ora a Toledo presso l’Hospital de Tavera; e del Cristo abbracciato alla croce del 1590-95 ora presso il Museo Paroquial di El Bonillo.

Nei primi due quadri possiamo dire che i temi fondanti dei due ultimi Giubilei, la Misericordia e la Speranza si confrontano in un mirabile momento di arte e spiritualità. Cosa vi è infatti di più misericordioso del tenero gesto della Vergine che allatta Gesù bambino? Così come la Colomba dello Spirito Santo che compare al centro del Battesimo di Cristo diviene essa stessa un simbolo di speranza per l’umanità peccatrice.

Cronologicamente però il primo dipinto ad essere stato eseguito è il Cristo portacroce, dal quale inizierò la mia disamina. Tutto il quadro è dominato da un azzurro che spesso sconfina nel blu scuro e dove il cielo plumbeo dello sfondo quasi si confonde con il manto del Cristo; a fargli da contrappeso solo il bruno della croce, che posta di tre quarti è l’unico elemento che segna la profondità della scena ed il rosso cremisi della veste di Gesù, in particolare della manica del braccio che sostiene la croce. Si tratta di un’opera di altissima spiritualità, che per dirla con il Vasari può quasi apparire anche come un’icona greca tradotta nel latino del linguaggio veneto dell’ultimo Tiziano e del Tintoretto della Scuola di san Rocco, dove il colore si trasforma appunto in pura emozione.

El Greco, Cristo abbracciato alla Croce, El Bonillo, Museo Paroquial.

Il volto del Cristo, più che sofferente appare ispirato e melanconico e i suoi occhi che guardano verso il cielo sono pervasi da una luce soprannaturale che è, ancora una volta, la luce della Speranza e della fede assoluta.   Curiosa è senz’altro la storia di questo dipinto che si trova nel Museo parrocchiale di El Bonillo, un piccolo comune di appena 3000 abitanti nella comunità di Albacete, dove tutto ci si aspetterebbe di trovare meno che un capolavoro di un così grande maestro: «tuttavia, verso la fine del XVI secolo, El Bonillo era la città più importante di quel territorio, il granaio della zona, grande fonte di legno di ginepro per l’esercito reale e di sale delle saline di Pinilla, prodotto essenziale per il bestiame e per la conservazione degli alimenti, distribuito in tutta la Spagna».[5] Ma soprattutto il parroco di El Bonillo fu in quegli anni don Pedro Lopez de Segura, amico di El Greco e che evidentemente riuscì ad ottenere dall’artista questo omaggio così significativo.

El Greco, La Sacra Famiglia con Sant’Anna, Toledo, Hospital de Tavera

Quanto alla pressoché coeva Sacra Famiglia, si tratta anche in questo caso di un capolavoro assoluto, pervaso di altissima ispirazione ed umanità ma anche di profondi messaggi morali e sociali. Nel gesto tenerissimo della Vergine che allatta suo figlio si può infatti scorgere un richiamo educativo all’importanza di allattare direttamente i propri bambini evitando l’uso, allora assai frequente, di demandare questo compito a delle balie assunte per l’occasione. Mentre nella figura matura ma non certo decrepita del San Giuseppe, che guarda sua moglie come un qualsiasi sposo innamorato, si può ravvisare un incitamento alla costituzione di famiglie in cui il marito non fosse troppo più anziano della moglie, pratica divenuta ad esempio talmente diffusa nella Firenze del primo Cinquecento da indurre le autorità ecclesiastiche ad intervenire per raccomandare esplicitamente agli artisti di raffigurare il Santo ancora nel pieno del proprio vigore.

Venendo all’aspetto più propriamente artistico, notiamo innanzi tutto come la scena si svolga sotto un cielo quasi metafisico, degno di Magritte e Salvador Dalì. Al centro la Vergine, con la canonica veste rossa, il manto blu ed un trasparente velo bianco sul capo allatta il Bambino che contemporaneamente le prende la mano. Il volto di Maria, di un perfetto ovale, insieme dolcissimo e malinconico è uno dei volti femminili più intensi del nostro artista, tanto da far ipotizzare che il modello femminile di questa figura possa essere Jerónima de Cuevas, suo unico amore. San Giuseppe, posto rispettosamente appena dietro la Vergine, accarezza con gesto amorevole un piedino di Gesù. Egli è interamente coperto da un manto giallo ocra che fa da preciso contrappunto al rosso ed al blu di Maria e che si ripropone nel drappo giallo che copre il petto del Bambino. Sul versante opposto ecco Sant’Anna che accarezza dolcemente il capo del nipote ed è invece ricoperta da un mantello del medesimo rosso cremisi del manto della figlia. Sia il perfetto equilibrio “tonale” dei colori, sia il modo sfrangiato di renderli sulla tela dimostrano come El Greco anche a più di venti anni di distanza sia ancora profondamente debitore verso l’arte veneta, naturalmente reinterpretata secondo uno stile che è suo e soltanto suo.

Quanto al significato più profondo della tela, al di là degli “ammonimenti” morali prima evidenziati, il messaggio principale rimane quello teologico, come sottolineato da don Alessio Geretti. Infatti l’atto della Vergine che allatta Gesù appena nato evidenzia da un lato come il Salvatore si spogli di ogni grandezza e divenga egli stesso bisognoso di affetto e di cure, e dall’altro che la salvezza con cui Cristo

«ridona speranza alla nostra esistenza non è un atto d’imperio o una magica riparazione delle nostre persone, ma l’introduzione di un amore immenso che ci viene dato domandandoci la risposta del nostro amore»[6].
Mentre il tenero gesto di San Giuseppe che accarezza il piede del Bambino sottolinea come «il figlio generato dalla sua sposa vergine…non è l’apparizione inconsistente di un essere celestiale, ma un vero essere umano, dotato di carne sensibile come la nostra, misteriosamente formatosi nel grembo di quella donna per intervento miracoloso dello Spirito Santo».[7]
El Greco 𝐼𝑙 𝐵𝑎𝑡𝑡𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑑𝑖 𝐶𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜, Toledo, Hospital de Tavera

L’ultimo dipinto da analizzare è Il Battesimo di Cristo, ora presso l’Hospital de Tavera di Toledo, che è stato anche l’ultimo dei tre ad essere stato eseguito. Si tratta di una tela di grandi dimensioni, dove il verticalismo del Nostro raggiunge una delle sue vette più alte. Nel turbinio delle figure che affollano la scena e nel ritmo incalzante e quasi sferzante delle pennellate troviamo ancora evidenti tracce dell’ultimo Tintoretto, ma è un altro il pittore che subito mi viene in mente ed è un pittore contemporaneo, quell’Anselm Kiefer che nell’estate del 2022 ha riempito la Sala dello Scrutinio del Palazzo Ducale a Venezia con le sue immense tele, emozioni allo stato puro, vortici di luci e materie incandescenti, a dimostrazione della modernità ed attualità di El Greco e del suo onirico linguaggio. Questo Battesimo è certamente un’opera estremamente complessa ed una cosa balza immediatamente agli occhi per la sua assenza: quella del fiume Giordano, protagonista di quasi tutte le tele con questo soggetto. Infatti sia Cristo che Giovanni poggiano su speroni rocciosi e del fiume scorgiamo appena un piccolo rivolo in primissimo piano e poi un turbinio di acqua e luce dove spicca la Colomba dello Spirito Santo ma che sembra piuttosto una cascata proveniente dall’alto e dalla quale Gesù non viene neppure sfiorato. Si tratta probabilmente di un effetto ottico, perché El Greco annulla ogni profondità e ogni traccia di prospettiva, per cui il fiume anzi che dietro è come se apparisse sopra, prolungandosi quasi nel bianco della veste di Dio.

Osservando le figure più nel dettaglio, notiamo subito il flessuoso serpentinato di Gesù, quasi etereo nel suo incarnato rosa pallido contrapposto ai colori più scuri del Battista, ripreso nell’ombra quasi a rimarcarne la sua collocazione in secondo piano rispetto al Redentore. Un angelo in primo piano reca la veste azzurra del Cristo ed è vestito di rosso cremisi, colore che viene richiamato dalla parte opposta dal manto di Gesù, sostenuto a sua volta da un altro angelo dalla veste verde chiaro. Si tratta ancora una volta di un virtuosismo cromatico che si rifà alla pittura tonale veneziana ma con un tono squillante che è proprio del nostro artista. Nella metà superiore del dipinto, come si diceva, un vortice di acqua e di luce investe in pieno Dio padre, avvolto entro un nugolo di angeli in gloria.

«Non deve sfuggire, inoltre, che il Padre, in alto di profilo, mostra un lato soltanto del suo volto, mentre il Figlio, in basso di scorcio, mostra soltanto l’altro, quasi a significare che uno sguardo complessivo può cogliere la piena rivelazione del mistero della vita di Dio. L’ambiente, il cielo, le nuvole, così come la terra, le rocce, il fiume, sembrano risentire di quella rivelazione, con linee di forza che il pittore evidenzia come se tutto il cosmo fosse messo in subbuglio dall’irruzione della Trinità nel mondo creato. Gli angeli presenti, infine, rendono testimonianza alla realtà invisibile che Dio ha creato insieme a quella visibile, destinando il suo Figlio incarnato ad essere la salvezza e l’eterna gioia di ambedue i lati del mondo».[8]

Sergio ROSSI  Roma 10 Settembre 2023

NOTE

[1] Si veda di chi scrive Oltre il Giubileo. Pittura e Misericordia a Roma nell’età dei Giubilei 1300-1675, Roma Lithos 2017.
[2] G. Palumbo, I Giubilei del Cinquecento tra Riforma e Controriforma, in La storia dei Giubilei vol. II, Giunti-BNL, Firenze 1988 pp. 198-237.
[3] A. Zuccari, La pittura a Roma attorno ai Giubilei del 1550 e del 1575 in La storia dei Giubilei vol. II, cit., pp. 262-281.
[4] A. Geretti, I cieli aperti. El Greco a Roma, catalogo della mostra, Roma 2023, p. 6.
[5] Ivi, p.15.
[6] Ivi, p.10
[7] Ibidem, p. 9
[8] Ibidem, p. 13.