DEDICATO a IRVING LAVIN. Numero Speciale (a cura di Marcello Fagiolo)

redazione

Irving Lavin ( Sant Louis, 1927 – Princeton, 2019) è stato tra i massimi studiosi d’arte al mondo. Le sue intuizioni e le sue ricerche soprattutto riguardo al mondo barocco e al suo massimo interprete Gian Lorenzo Bernini, rese pubbliche in numerosi testi di cui è obbligo ricordare almeno il fondamentale “Bernini e l’unità delle arti visive”, hanno formato intere generazioni di studiosi; amante dell’Italia ha partecipato con la moglie Marilyn a numerose esposizioni e conferenze; ha mostrato frequentemente attenzione alla nostra rivista, spesso scrivendo direttamente al sottoscritto, ma anche intervenendo sul sito (cfr. caravaggio il vero matteo e i beatles irving lavin vs sara magister) in modo perentorio e non privo di ironia. (PdL)
In occasione del quarantennale del Centro di Studi sulla cultura e l’immagine di Roma (1980 -2020) era stato organizzato un Incontro di Studi in memoria di Irving Lavin” (Galleria Borghese e BNCR, 23-24 marzo 2020) in cui molti studiosi avrebbero ricordato la figura e l’opera del grande storico statunitense ad un anno dalla scomparsa. Purtroppo come quasi tutte le iniziative culturali italiane, anche questa è stata rinviata, ma grazie alla iniziativa inesauribile del curatore, prof Marcello Fagiolo, è stato possibile acquisire i testi degli interventi che oggi siamo onorati di poter pubblicare, nella certezza di realizzare comunque un grande evento sia pure on line, in attesa che quello già programmato possa realizzarsi appena possibile. About Art si compiace che le sia stato affidato questo compito, il che dimostra quanto la nostra rivista abbia acquisito nel giro di appena due anni in credibilità, stima e valore scientifico. Mentre esprimiamo i nostri sentiti ringraziamenti a Marcello Fagiolo e a tutti gli autori non ci resta che rivolgere un saluto particolare alla prof.ssa Marilyn Aronberg Lavin, grandissima studiosa anch’essa, nonché attenta lettrice di “About Art”, che nel recente colloquio con il prof. Fagiolo, pubblicato sulla nostra rivista https://www.aboutartonline.com/marylin-aronberg-lavin-marcello-fagiolo/ , ha dato ancora modo a tutti di capire quanto decisivi e determinanti siano stato gli apporti di Irving Lavin e suoi agli studi berniniani, che –come ha ricordato- presero il via quasi casualmente quando, per completare il suo Dottorato di ricerca, Irving scelse di studiare i bozzetti di Bernini del Fogg Art Museum ad Harvard :”Da lì- ha raccontato Marilyn – ebbe inizio il nostro soggiorno di oltre mezzo secolo di vita e di studio a Roma”. Da lì, proseguiamo noi, un amore sviscerato per la città e per l’Italia, ma soprattutto ricerche, studi e pubblicazioni che hanno aperto la strada alla vera conoscenza di un movimento e di un artista geniale che solo uno studioso altrettanto geniale avrebbe potuto interpretare con tanto acume.

PS. Sappiamo che ci sono altri studiosi che intendono rendere omaggio alla figura e all’opera di Irving Lavin: non possono comparire in questo numero speciale per motivi di spazio, ma potranno, se vogliono, essere ospitati nei prossimi numeri, così da prolungare nel tempo l’omaggio al grande studioso statunitense.

(Ringraziamo Carolina Marconi, che – oltre ad avere curato redazionalmente i testi – ha fornito numerose fotografie)

 


Contributi su Irving Lavin
Omaggio a Irving Lavin (pdf)
The Silence of Bernini’s David (pdf)
(Per gentile concessione:
Józef Grabski, direttore di “Artibus et historiae”)


STORIA DELL’ARTE e ARTE DELLA STORIA
In memoria di Irving Lavin

Scritti presentati in occasione del Convegno presso la Galleria Borghese e la BNCR di  Roma programmato per il marzo 2020 e rinviato a data da destinarsi
a cura di

MARCELLO FAGIOLO

Marcello Fagiolo, Chimica meravigliosa: Lavin e l’unità delle arti

Nei decenni successivi alla prima monografia moderna di sintesi su tutta l’opera berniniana (Marcello e Maurizio Fagiolo dell’Arco, Bernini: una introduzione al “Gran teatro” del barocco, Roma 1966)1 si è registrata una prodigiosa ondata di studi su Bernini e sul barocco romano.

Non esiste settore in cui non sia avvenuto un cospicuo avanzamento della ricerca. A livello filologico si segnalano le fortunate campagne di scavo negli archivi romani, italiani, francesi (dalle famiglie nobiliari alle fabbriche); non poche sono le nuove opere berniniane emerse e le nuove attribuzioni: disegni, bozzetti, sculture, pitture, architetture. Il linguaggio artistico e architettonico è stato indagato nelle sue varie problematiche: l’ordine, la geometria, le proporzioni, la prospettiva, i contrapposti, il luminismo, e così via. Le ricerche tipologiche hanno portato nuova luce sui tipi architettonici e scultorei, sull’effimero e la scenografia, sul teatro, sulle arti minori. Sono state esaminate le relazioni con l’antico, con la tradizione rinascimentale, coi contemporanei; molto utili appaiono anche le prospezioni sulla “fortuna” di Bernini nell’Europa del Sei e Settecento. Di estremo interesse, infine, il settore degli studi iconologici, con l’inserimento sempre più argomentato dell’opera berniniana nel contesto storico della cultura letteraria, filosofica, religiosa, scientifica, musicale del suo tempo. Ma va ricordata soprattutto la straordinaria monografia di Irving Lavin, Bernini e l’unità delle arti visive, pubblicata anche in italiano nell’anno centenario 1980.

Il risultato più perentorio ottenuto da Lavin è la definitiva acquisizione dell’essenza del metodo berniniano, aldilà delle valutazioni settoriali dell’opera architettonica o scultorea o pittorica. Il metodo-sistema dell’“unità delle arti visive” non è ovviamente una scoperta recente bensì una messa a punto delle indicazioni teoriche formulate dallo stesso Bernini e dai primi biografi. Secondo il figlio Domenico, Gianlorenzo avrebbe “saputo in modo unire assieme le belle arti della Scultura, Pittura et Architettura, che di tutte ne habbia fatte un maraviglioso composto” (già una epigrafe del 1638 lasciava del resto intuire che anche un’opera ‘semplice’ come il campanile di S. Pietro era dovuta alla concezione di un artista universale, diremmo quasi “composto”, che si definiva insieme pictor, sculptor et architectus). Analogamente, secondo il Baldinucci, Gianlorenzo per primo avrebbe unito “l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un bel composto”.

1.S. Pietro in Vaticano, il Baldacchino, la decorazione dei piloni e la Cattedra (foto Wiki).

La dilatazione delle arti nella basilica vaticana

 L’unità delle arti visive viene sperimentata da Bernini in scala gigantesca nella crociera di S. Pietro, a partire dal Baldacchino, opera polimaterica e plurisemantica (fig.1). Questo primo capolavoro berniniano doveva celebrare la continuità delle memorie storiche (le colonne vitinee amplificano il tema delle colonne “salomoniche” della pergula costantiniana), era un segnale di sepoltura solenne (concepito come un catafalco eternato nel bronzo) e univa le funzioni di ciborio glorificante e di baldacchino rituale nel punto d’arrivo dei fedeli. Opera insieme effimera ed eterna, di architettura e di scultura, il Baldacchino si poneva come fuoco catalizzatore del tempio vaticano e come elemento di mediazione fra il mondo terreno (la vegetazione, gli animali e gli insetti che si annidano fra le spire di bronzo) e la scala sovrumana della crociera e della cupola. Alla vita segreta del Baldacchino corrisponde l’allestimento solenne dei piloni bramanteschi con le Logge delle reliquie e la concitata recitazione delle sculture colossali di longino, Sant’Andrea, Sant’elena e Veronica. I quattro protagonisti dialogano tra loro e coi fedeli, ergendosi sulla scena e insieme segnando con una coralità avvolgente lo spazio della platea. La ‘sacra rappresentazione’ della Passione di Cristo irretisce l’intero spazio del tempio e rimanda alla croce al culmine del Baldacchino (dove in origine era prevista la statua del Cristo risorto) e al Cristo giudice presente nei mosaici della cupola.

Dalla Cappella Raymondi alla Cappella Cornaro

2. Roma, Cappella Raymondi in S. Pietro in Montorio (Bernini, 1638-48; foto C. Marconi).

Ma la prova del fuoco della unità delle arti visive avviene in una serie di cappelle e altri spazi ecclesiali, a partire dalla Cappella Raymondi in S. Pietro in Montorio, iniziata nel 1638 (fig. 2). Qui Bernini allestisce uno spazio sperimentale, giocando sull’architettura immacolata (bianco su bianco) a contrasto col manto cromatico della volta affrescata da Guidubaldo Abbatini e puntando tutte le risorse sullo spettacolo che si svolge nelle pareti e sull’altare con la teatrale illuminazione ‘a effetto’.

 

La decorazione prepara l’atmosfera rarefatta delle apparizioni. Un fregio di rose esangui, di cuori, di uccelli: non classicismo ma quasi neoclassicismo, una prolusione al bagliore degli stucchi piranesiani e al Canova degli avelli. Non la gioia della natura bensì la malinconia della vita trascorsa: sic floruit dicono queste rose (al pari di quelle algardiane nella tomba di Leone XI). Lo spettacolo coinvolge tutto lo spazio della cappella: la levitazione del San Francesco – che sull’altare ascende verso il destino della stigmatizzazione – si conclude negli affreschi della volta con l’assunzione nella gloria celeste. Anche se il regista Bernini si affida all’esecuzione dei collaboratori, resta la lucida bianca rappresentazione, resta la sintesi delle tre arti, della vita e della morte, della finzione teatrale e della realtà.

3. Roma, Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria (Bernini, 1647-52; foto C. Marconi).

Ma è soprattutto la Cappella Cornaro (1647-52; fig. 3), da Bernini reputatala men cattiva” di tutte le sue opere, che viene assunta da Lavin come

“incontestato capolavoro del suo tempo, come la Cappella degli Scrovegni di Giotto, la Cappella Brancacci di Masaccio e la Cappella Sistina di Michelangelo”.

In una sintesi prodigiosa Bernini riesce a mettere in scena momenti diversi della iconografia teresiana, della sua storia e del suo mito, e poi concilia le esigenze della rappresentazione con la funzione onoraria della cappella, commissionata dal cardinale Federico Cornaro per celebrare la grande famiglia veneziana che annoverava un doge e sei altri cardinali. I sette Cornaro defunti, insieme a Federico, sono presenti in effigie e quasi viventi nei due ‘palchetti’ prospettici sulle pareti laterali della cappella. Sono insieme spettatori e ‘confessori’, testimoni del miracolo teresiano. Le loro espressioni manifestano di volta in volta l’azione o la contemplazione, l’adorazione e la rivelazione; i loro gesti, i loro sguardi si rivolgono al pavimento, all’altare, alla volta della cappella. Abbracciano tutto lo spazio e invitano lo spettatore a fare altrettanto per entrare nella coralità dell’opera. Dalle viscere della terra affiorano due scheletri, disegnati sul pavimento in gesti di preghiera e di esultanza.

Nella volta (fig. 4), sopra ai riquadri a bassorilievo, un mare di angeli e di nuvole dipinte attorniano l’epifania dello Spirito Santo preludendo allo spettacolo tumultuoso della Cattedra di S. Pietro. La Gloria celeste è affrescata dall’Abbatini in un piccolo spazio dilatato in tutte le direzioni: il sottarco viene trasformato in una sorta di abside smussata (gli  spigoli sembrano levigati dalla colata di nuvole, dipinte sullo spesso strato di stucco), e poi vengono invase le parti limitrofe.

4. Roma, Cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria (affreschi nella volta di G. Abbatini; foto C. Marconi).

Il timpano del finestrone appare cancellato a metà e viene perfino invaso il campo luminoso della vetrata. Le nuvole sconfinano nel sottarco coprendo i bassorilievi do rati e oscurando in modo quasi irriverente le parti superiori di alcuni personaggi. L’edicola col gruppo della Santa Teresa è insieme scena e tempio, per metà dentro e per metà fuori del perimetro della chiesa, al fine di catturare la luce all’esterno. Al posto dell’odierna luce artificiale, Bernini aveva ideato un lucernario chiuso da una vetratagialla che lasciava spiovere un debole lume: in quella luce, evidenziata illusivamente da raggi lignei dorati, Teresa e l’Angelo apparivano come una visione soprannaturale,fantasmatica, galleggiante misteriosamente nel vuoto. L’iconografia del ferimento mistico per mano angelica, della transverberazione (simmetrica alla stigmatizzazione di quel Francesco che è protagonista dell’altra grande cappella berniniana in S. Pietro in Montorio) si fonde con l’iconografia dell’estasi, della morte, della levitazione miracolosa. Teresa non appare inginocchiata, secondo i modi da lei stessa tramandati, bensì riversa. Il dolore dell’amore spirituale è visto secondo la metafora dell’unione tra il Cristo amante e la Teresa amata. L’estasi e l’abbandono nel godimento supremo segue le descrizioni di una vita spirituale come continuo morire, e dell’estasi come morte soprannaturale e martirio mistico. Dal magico gruppo continua a emanare il fascino ambiguo della sublimazione e del tormento; all’ardore dello spirito corrisponde simmetricamente il malcelato fuoco della carne. Fuoco sotterraneo, fluido come il sangue e la linfa, ribollente come magma nelle viscere del profondo.

  1. Sant’ Andrea al Quirinale

Nella chiesa del Noviziato dei Gesuiti (compiuta all’interno tra il 1658 e il 1670; figg. 5-6) Bernini realizza su scala più ampia il miracolo teatrale del “bel composto”, attraverso la ricchezza dei materiali impiegati e il dispiegamento di tutte le arti che concorrono alla sacra rappresentazione del martirio e apoteosi di sant’Andrea.

Si potrebbe perfino trovare una gerarchia fra le arti nei diversi momenti della narrazione iconografica. Il martirio viene rappresentato in pittura (pala del Borgognone sull’altar maggiore), la visione della Gloria celeste nella lanterna del presbiterio è tradotta in pittura e scultura a bassorilievo, l’ascensione viene resa prima in scultura (statua del santo) e poi in architettura (cielo simbolico della cupola). Non si può non ricordare almeno la comparazione tra scultura e pittura proposta dallo stesso Bernini, secondo la testimonianza dello Chantelou:

“La scultura è una verità e anche un cieco la giudica così; la pittura è un inganno, una menzogna. Quest’ultima è l’opera del diavolo, l’altra di Dio che era stato lui stesso scultore, avendo formato l’uomo con l’argilla, non in un istante, ma al modo degli scultori”.

Verrebbe la tentazione di continuare il discorso di Gianlorenzo presentando la doppia natura dell’architettura che può rivendicare da un lato la sua natura ‘divina’ (emulando l’opera del Grande Architetto dell’Universo) e da un altro lato la sua abilità nel creare inganni ‘diabolici’ attraverso l’uso illusionistico della prospettiva.

Va sottolineata in modo particolare la tendenza a superare le frontiere fra le arti, se non anche ad eludere gli statuti delle diverse arti. Vediamo così che la pala del Borgognone tende a evadere dalla sua natura statica di ‘quadro’. La cornice marmorea viene contraddetta dai caldi raggi di luce dorata che piovono insieme alle nubi e a una cascata d’angeli. Intorno al ‘quadro’ splende un’ampia fascia mosaicata d’azzurro-cielo come un paleocristiano nimbo quadrato, destinato al santo ancora in vita (nell’ultimo atto della rappresentazione troveremo il nimbo circolare e dorato della cupola per il santo in gloria). La cupola appare librata nel vuoto, compresa tra due ghirlande: la doppia ghirlanda superiore sottolinea con esattezza il vuoto ovale della lanterna, mentre la ghirlanda alla base della cupola è mossa e dinamica, accompagnando come una ‘greca’ la scansione dei vuoti e dei pieni, impennandosi in corrispondenza delle finestre e ridiscendendo in corrispondenza dei costoloni. Una folla di angeli e martiri cerca di ristabilire l’ordine, sia pure attraverso un disordine brulicante.

Viene da immaginare che quella ghirlanda sia l’àncora che lega la cupola-cielo alla terra: basterà che gli angeli finiscano di giocare con la ghirlanda (uno di loro la usa come altalena), basterà tendere la ghirlanda per vedere un’aureola di luce circondare tutta la base della cupola. E la cupola sembrerà sollevarsi insieme al santo, lieve come il cielo, sovrastandolo come un baldacchino. Non a caso questa fu la creazione prediletta dal vecchio Bernini: “Di questa sola opera di architettura” avrebbe detto al figlio biografo Domenico “io sento qualche particolare compiacenza nel fondo del mio cuore, e spesso per sollievo delle mie fatiche io qui mi porto a consolarmi col mio lavoro”.

Trasmutazione e metamorfosi delle arti nel “bel composto”.

A questo punto vorrei portare alcune argomentazioni per comprendere meglio il concetto di “unità delle arti”. Il “bel composto” di cui parla Baldinucci esprime insieme unità e pluralità: composizione come complessità. Complessi “composti” sono i prodotti dell’opera uman. Scriveva Leonardo:

“La natura sol s’attende alla produzion de’ semplici. Ma l’omo con tali semplici produce infiniti composti ma non ha potestà di creare nessun semplice, se non un altro sé medesimo, cioè li sua figlioli”.

E “composto” era lo stesso uomo:

“Credete voi – si domandava Torquato Tasso – che l’uomo sia uno semplicemente, o un composto di molte parti e di molte potenze? Un composto senza dubbio”.

E l’anima stessa, secondo Leone Ebreo, è “composta de la stabilità e unità intellettuale e de la diversità e mutation corporea”. Il “composto” può essere la risultante scientifica di diversi moti fisici (Giordano Bruno e Galileo parlano appunto di “moto composto”), o la risultante immaginaria di creazioni arbitrarie (scrive ancora Galilei: “Quello che noi ci immaginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le sirene, le chimere, i centauri”).

Il “composto” è il risultato di una lunga ‘composizione’ delle forze dell’arte, che potremmo presentare secondo la metafora della musica (equilibrio, concertazione, composizione armonica di Pan e di Orfeo) ovvero secondo la metafora del teatro. Bernini è il coordinatore e il regista della sua équipe omogenea di pittori, stuccatori, scalpellini, fonditori ovvero si identifica con l’intero mondo dell’arte. Si osserva allo specchio ponendosi come modello per tanti personaggi delle sue sculture e pitture. E al mito di Narciso si accompagna il mito demiurgico dell’artista universale: non “genio divino” al modo di Michelangelo bensì scatenato deus ex machina, a volte protagonista unico e assoluto, “padrone del mondo” come disse una volta la madre atterrita. Secondo l’ormai celebre testimonianza d’un contemporaneo, Bernini avrebbe rappresentato intorno al 1644 un’opera “in cui dipinse le Scene, scolpì le Statue, inventò le Macchine, compose la Musica, scrisse la Commedia e costruì il Teatro, tutto lui stesso”. La “composizione” può anche darsi come conciliazione, coincidentia oppositorum, equilibrio dopo i momenti del furor creativo, quiete dopo la tempesta, ordine disceso dal caos. Più che le singole arti o le singole parti importa dunque il “bel composto” come sistema e campo di relazioni in cui un’arte trapassa nell’altra fino a rivoluzionarsi nei suoi statuti. Il risultato del “bel composto” poteva apparire sconvolgente come apparirà la teoria di Einstein che a sua volta fonde in modo rivoluzionario e in una visione unitaria e dinamica il tempo e lo spazio, la materia e l’energia. Più che somma delle arti il “composto” è summa, più che unità è aristotelicamente sinolo, trasfigurazione delle componenti in opera d’arte totale. Gesamtkunstwerk si dirà alcuni secoli dopo.

La trasfigurazione dei “semplici” nel “composto” fa pensare all’altra metafora dell’opus alchemico, alla trasfigurazione degli elementi e della materia, là dove il fattore mercuriale dell’amalgama è dato dalle capacità di amalgamazione dell’opera di regia. Bernini, uomo di teatro, sapeva poi calcolare nei diversi effetti sia l’epopea e la tragedia delle trasfigurazioni sia la commedia e il balletto degli equivoci e dei colpi di scena. Il “maraviglioso composto” di cui parlava il figlio Domenico ci fa approdare finalmente sull’ultima spiaggia della “maraviglia” intesa come fine poetico e come mezzo, spettacolo continuo (non si dimentichi che Spectacula e Mirabilia erano sinonimi delle Meraviglie del mondo). L’opera dell’artista universale è senz’altro opera “in grande”, opera “eroica”, come si ricava dalle parole dello stesso Bernini. Il creatore si pone a un livello non soltanto superiore ma supremo, instaurando un dialogo diretto e temerario col Grande Architetto dell’Universo. Bernini, secondo la conclusione di Lavin, “attribuiva a Dio le proprie capacità e, pur essendo molto orgoglioso del talento che possedeva, si mostrava molto umile davanti alle origini di esso. Come la cappella di Teresa era per il Bernini la metafora del paradiso, così la fusione delle arti e l’unità del tutto erano la sua metafora per la creazione divina”.

In riconoscimento del grande libro di Lavin, ho scelto il motto della “chimica meravigliosa” anche per simboleggiare l’omaggio – di molte voci e di armonica consonanza – reso da tanti colleghi, collaboratori, allievi e altri studiosi che rendono qui testimonianza della lezione di Irving per una “storia dell’arte come arte della storia”.

1 Ripropongo, a ouverture di questo Incontro in memoria di Irving Lavin, il testo che ho pubblicato come Introduzione a M. Fagiolo (a cura di), Gianlorenzo Bernini e le arti visive nel Seicento, Atti del Convegno (Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1981), Roma 1987. Mi sembra suggestivo il fatto che il tema del “meraviglioso composto” e della “unità delle arti visive” abbia segnato in modo coerente quest’ultimo mezzo secolo di studi, sia per quanto riguarda me (dal Gran teatro del Barocco del 1966 fino alla Roma barocca del 2013, per citare soltanto i volumi monografici) sia per quanto riguarda Irving (da Bernini and the Crossing of Saint Peter’s del 1968 fino ai tre volumi Visible Spirit: the Art of Gianlorenzo Bernini, 2007-2013).
MARCELLO FAGIOLO Laureato in Storia dell’Arte (1963), Libero docente (1968) e Professore ordinario di Storia dell’Architettura a Firenze (1974-99) e a Roma “La Sapienza” (2000-2011). Ha fondato e/o diretto il “Centro di studi sulla cultura e l’immagine di Roma” (1981), il “Centro di Studi sul Barocco in Sicilia” (1982), il “Centro di Studi sul Barocco della Provincia di Lecce” (1989). Dal 1980 è stato Segretario o Presidente dei Comitati Nazionali per Bernini, Raffaello, Pirro Ligorio, “Roma e la nascita del Barocco”. Presidente del Comitato Nazionale per lo studio e la conservazione dei giardini storici. Accademico dei Lincei. Tra i suoi volumi sul barocco romano: Bernini (con Maurizio Fagiolo, 1966); Barocco romano e barocco italiano (con M.L. Madonna, 1985); Bernini e la Roma di Alessandro Vii (con A. Coliva, 1999); Roma barocca (con P. Portoghesi, 2006); Atlante del Barocco in italia: le Capitali della Festa (2007); Roma barocca: i protagonisti, gli spazi urbani, i grandi temi (2013). cs.rom2@gmail.com

Testimonianze su Irving Lavin

Anna Coliva, Irving Lavin Romano universale

Marisa Dalai Emiliani, Irving Lavin e la Storia dell’arte “all’italiana”
Horst Bredekamp, Experiencing Art History with Irving
Ann Sutherland Harris, The other Bonaventura
Elena Bianca Di Gioia, Sentieri di ricerca: debiti e convergenze
Daniela del Pesco, Irving Lavin e la tradizione dell’antico negli studi degli anni Ottanta
Francesco Lofano, I seminari di Irving Lavin a Napoli
Delfín Rodríguez Ruiz, Con Irving e Bernini, da Roma a Madrid.

Bernini giovane

Francesco Petrucci Bernini junior: considerazioni sulle sculture giovanili
Maria Barbara Guerrieri Borsoi, Intorno a Giannozzo e Antonio Cepparelli
Dimitri Ticconi, Considerazioni sul primo Bernini architetto: il caso di S. Bibiana
Mario Panarello, Tra le sculture giovanili di Pietro Bernini: un incontro fortunato con i Lavin
Alessandro Spila, Un dono dei Barberini ai Savoia: tracce su un reliquiario di Bernini a Torino
Andrea Spiriti, I Bernini e gli artisti dei laghi lombardi

Bernini e l’Unità delle Arti visive

Yuri Primarosa, L’Unità delle arti di Lavin come libro fondativo sul barocco
Saverio Sturm, Unità delle arti, unità dei cieli, convergenze teologiche: la guida di Lavin alla comprensione della Cappella Cornaro
Maria Grazia Bernardini, Sul modello d’argento per la Fontana dei Fiumi
Jorge Fernandez-Santos, Far tesoro del volto di un “tanto virtuoso” artefice: un programma berniniano per il marchese del Carpio

Barocco e ‘altro’

Carla Benocci, Una voce fuori dal coro: Carlo Cartari e Gian Lorenzo Bernini, 1677-1680
Daniela Gallavotti Cavallero, L’immagine del re Inca Guayna Capac: una possibile referenza per il Colonnato di S. Pietro
Tod A. Marder, Rivalità, fraintendimento, antipatia: discussioni sulla Scala Regia
Valeria Di Giuseppe Di Paolo, Il Sanguis Christi di Bernini: tra il Borgognone e le Marche
Fabio Colonnese, Lavin e il Campidoglio come Theatrum urbis”
Alessandro Mazza, Il Barocco ‘altro’ del National Qatar Museum
Carolina Marconi, Lavin’s Quarantine
Claudio Strinati, Per concludere: Lavin nel Paradiso Terrestre del Sapere

DIREZIONE E SEGRETERIA DEL CENTRO STUDI:
cs.rom2@gmail.com | https://www.culturaimmagineroma.it/
Impaginazione e coordinamento redazionale del Dossier: Carolina Marconi
BNCR: http://www.bncrm.beniculturali.it/
GALLERIA BORGHESE: https://galleriaborghese.beniculturali.it/
LA VITA E GLI SCRITTI DI LAVIN
Si veda la voce “Irving Lavin” in Wikipedia.
La Bibliografia completa e una serie di scritti sono disponibili online:
https://albert.ias.edu/handle/20.500.12111/6523
REMEMBERING IRVING LAVIN 1927-2019
Il 26 aprile 2019 si è svolto a Princeton l’Incontro di studio, articolato in due sessioni registrate su You Tube:
1) REMEMBRANCES: https://www.youtube.com/watch?v=-4hl75qRpuc
2) SChOLARS DISCUSSION: https://www.youtube.com/watch?v=pMqh_syAyTE