Davvero qualcuno vuole cancellare la cultura russa? Il parere del Prof. Oleg Voskoboynikov

di Oleg VOSKOBOYNIKOV

Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo importante contributo del Prof. Oleg Voskoboynikov, al dibattito aperto dall’articolo di Viktoria Markova apparso qualche giorno fa su About Art. Il tema, come abbiamo potuto constatare, si presta -oltre che a punti di vista differenti-  a numerose osservazioni ed approfondimenti, investendo la questione della libertà di critica e di pensiero specie in condizioni nelle quali gli stessi presupposti ne vengono fortemente compromessi. Siamo quindi particolarmente lieti di poter ospitare la voce del Prof. Voskoboynikov, accademico di fama internazionale, medievista, professore ordinario alla Higher School of Economics, che si unisce a quella dei numerosi studiosi italiani e stranieri che hanno già espresso il loro parere e a quanti ancora vorranno farlo sulla nostra rivista.

Appunti sulla ‘cancellazione’ della cultura russa

Come tanti colleghi italiani ed altri, ho letto con grande attenzione il recente contributo della mia compatriota e stimatissima collega Viktoria Emmanuilovna Markova. Molti hanno reagito, qualche giorno dopo, cogliendo le ambiguità del suo messaggio. Cercherò dunque di non ripetere gli argomenti già presentati. Proporrei un punto di vista allo stesso tempo «da dentro», perché sono medievista e italianista russo e ancora professore universitario, e «da fuori», perché, per motivi evidenti, ho lasciato il moi paese.

L’impressione che mi hanno subito indotta i primi paragrafi di questo testo, redatto in russo, è stata quella di sentire le voci del Primo canale della nostra TV e di altri media ufficiali: l’Occidente attacca la nostra cultura e ci «cancella». Questa rettorica della «cancellazione» è stata presente già da anni, almeno dall’annessione della Crimea nel 2014 in poi. E come? L’Occidente osa eliminare dai suoi programmi educativi e dai repertori teatrali Čaikovskij e Tolstoj ? Musorgskij e Stravinskij ? Non vuole più i quadri dell’Hermitage? Peggio per loro! Dietro questa rettorica, evidentemente, c’è una realtà immaginaria, molto cara ai dirigenti del paese, responsabili della Catastrofe che stiamo vivendo. Anzi, sono loro che cercano di fare della cultura un’arma al pari dei missili, del gas e del petrolio.

Avanzando, mi è venuta in mente la tristemente famosa intervista del direttore dell’Hermitage Mikhail Piotrovsky, credo, ormai tradotta in tutte le lingue europee. Lì troviamo espresso chiaramente il parallelismo fra la guerra in Ucraina e la politica culturale della Russia. Le mostre internazionali del suo museo sono per lui tali «operazioni speciali» di un paese che si sta creando un nuovo spazio nel mondo. L’opinione del direttore del più grande museo della Russia, membro dell’Accademia, di origine nobile, una persona senz’altro colta e intelligente, non è un parere dell’uomo qualunque: è sempre stata una delle voci più potenti della Cultura. Logicamente ha provocato un immenso dibattito, nei media, nelle reti sociali, nelle cucine, aldilà e aldiquà delle frontiere e delle censure. I due testi si presentano, purtroppo, come echi di quel risentimento nazionale e nazionalista che è uno dei fondamenti chiave della Catastrofe.

Si tratta di un immenso complesso di inferiorità nato da una mania di grandezza, onnipresente in Russia su tutti i livelli, propagato nei media, nelle scuole, nelle università, nei manuali di storia e di letteratura. Questa mania spiega tutto o quasi nella politica russa degli ultimi anni e spiega anche quanto detto ad alta voce da Mikhail Piotrovsky. Si è discusso molto in che misura è stato «costretto» a esprimere la sua indignazione di maniera così flagrante da presentarsi come un militarista di prima schiera. «Costretto» o, come in Russia si dice spesso, «suggerito» da «persone competenti»? Mi domando: ma chi fa credere alle persone del calibro di direttori di musei, di una certa età e esperienza, che davvero si tolgono i nomi russi dalla cultura europea? Lo dice la TV, lo dicono i giornali, lo dicono persino i cartelloni nelle strade delle nostre città. Ma basta informarsi un pochino, telefonare un paio di amici all’Estero (le linee telefoniche funzionano ancora …), per rendersi conto che si tratta di pura propaganda.

E poi, come i miei colleghi hanno già detto, Viktoria Markova non dà esempi concreti, ma getta in faccia al lettore italiano un’accusa, per non dire sfida. Non tutti, dice, ma parecchi, sono brutti e cattivi e non trattano la cultura russa così, come ha meritato. Invece nei tempi passati, dice, i suoi amici si portavano dietro un volumetto di «Guerra e pace». E va bene, abbiamo tutti storie di questo genere: nel settembre 2021 ho passato un’ora a discutere «Maestro e Margherita» con un carabiniere che mi chiedeva di mostrargli il mio visto. E’ per questo che l’Italia è il nostro paese d’adozione!

Però, la mia collega insiste che i paesi occidentali, compresa l’Italia, ci stanno tradendo. Mutatis mutandis, l’agressione russa in Ucraina adopera, come si sa bene, la stessa argomentazione: siamo stati sempre buoni, ma gli europei non ci amano, non ci danno i visti, non accettano lo Sputnik, ci vogliono cancellare, ed ecco, siamo stati costretti ad un’«operazione militare speciale». Non contro il popolo ucraini, ma contro dei «nazisti» sostenuti dalla NATO, nemico a morte. Fra l’altro, non facciamo la guerra a nessuno, è la NATO che la fa a noi con le mani ucraine. La cultura, in questa «situazione di crisi» (che bella parola) fa parte della vita umana, ne subisce i danni, ma ne prende anche parte della responsabilità.

Sono ben conscio che per Viktoria Markova il 24 febbraio è stato un vero e proprio collasso. Come per me, per noi tutti, per le nostre università, per il libro, per le scienze. In più, pur non essendo professoressa né direttrice di dipartimento, ha una posizione gerarchica abbastanza alta, in quanto ricercatrice al dipartimento dell’arte classica del Museo Puskin. E’ un posto, come si dice da noi, «responsabile», e non puoi dire le cose come sono, perché è molto pericoloso, anche pubblicando all’estero. Questo spiega l’assenza straordinaria nel suo testo della guerra, cominciata dalla Russia contro il popolo fratello, senza nemmeno spiegarne né ragioni, né scopi. Non glielo imputo: è responsabile di una importantissima collezione d’arte e, quindi, del suo futuro. Tutti i suoi progetti internazionali sono seppelliti per un periodo indeterminato, speriamo non per sempre, ma comunque per anni ed anni. Quello che succede dentro il paese, toccando ogni giorno tutti lati della nostra vita culturale, è un drastico, drammatico ritorno nei tempi peggiori dell’isolamento sovietico. Con un’importante dettaglio, che siamo un paese in guerra, di cui peccati difficilmente saranno perdonati aldilà delle frontiere e difficilmente saranno confessati dai peccatori.

Quando ci si sta dentro, in Russia, è più logico credere che il mondo vada alla rovescia, che tutti si siano schierati contro di noi. Invece è sempre più difficile osare supporre che il tuo paese, il tuo governo abbiano torto. E se il Museo per eccellenza, con la bocca del suo direttore, dice apertamente, che siamo autarchici «esportatori» di cultura, indipendenti dall’estero, che non abbiamo bisogno dell’Occidente, ma è l’Occidente che ha bisogno di noi, che gli prestiamo le nostre bellissime collezioni per conquistare, «culturalmente», il mondo, che altro è se non un assurdo, inadeguato e per dir poco anacronico imperialismo? Volendo o nolendo, il testo di Viktoria Markova (che sicuramente non ha niente a che vedere con i circoli militaristi) la fa schierare con quelli che in questo momento gestiscono la vita sociale e politica in Russia.

La seconda parte del suo articolo è, come ha ben detto uno dei commentatori, un grido di cuore: ci racconta i suoi progetti nuovi, che adesso sta lanciando in piena isolazione, attorno a Luca Giordano per esempio. Bei progetti, anzi – bellissimi. Tutti ormai interni, dalle collezioni che si trovano sul territorio russo. Il tutto a dir ché? Che voi, occidentali, ci avete chiuso le porte e non vedrete il vostro bel Giordano? Che siamo capaci di lavorare senza voi? Che siamo bravi lo stesso? Sì, siamo bravi. Anzi: bravissimi. Ho l’immensa stima dei nostri musei, minacciati all’interno più che dall’esterno, per quello che cercano di fare per rendere la vita dei miei compatrioti più umana. Però …

Però Viktoria Markova saprà ben meglio di me che ogni grande mostra è una impresa anche politica, non solo culturale. Quando qualche anno fa il Vaticano ha inviato a Mosca quadri di livello della «Deposizione» del Caravaggio e, in scambio, i tesori dell’arte russa sono partiti per Roma, l’accordo era stato discusso dal papa e dal presidente della Russia in persona: ci possiamo immaginare un dialogo del genere adesso, in estate 2022? Quando, sempre in quegli anni, ancora non di piombo, benché difficili, si è fatta una bella mostra sul re San Luigi al Kremlino, alla quale ho partecipato anch’io, l’ha inaugurato l’allora capo del consiglio tutorio dei Musei del Kremlino, Serghei Ivanov, amico di Putin e capo dell’Amministrazione del Presidente, generale dell’FSB, persona colta ed intelligente. Parlò anche bene. Dopo di lui ha preso la parola Vladimir Medinski, allora ministro della cultura, adesso risponsabile delle trattative con l’Ucraina e pur amico di Putin, in più, formalmente, storico di professione. Non ebbe granché da dire, ma sottolineò che, al tempo di Luigi IX, in Russia c’era un grande principe cristiano sant’ Alessandro di Neva, che combatté i tedeschi. Per fortuna non m’ero sciolto in risate d’avanti al personale di tale «responsabilità».

Perché questi esempi? Perché dire che una cultura, anche grande come quella russa, non va cancellata in «situazioni di crisi», è un pochino ingenuo. La cultura fa parte di tutte le altre azioni di una nazione, anche se al primo sguardo non lo sembra, anche se non lo vuole, anche se logicamente si vuole presentare parte inalterabile della cultura umana. Questo è il primo punto sul quale non posso essere d’accordo con Viktoria Markova. Il secondo è che la Russia, rispetto al resto del mondo, fa passi da gigante nella cancellazione, la negazione, il sequestro del proprio patrimonio. Nell’oblivione delle proprie radici siamo sempre stati campioni. Basta ricordare che la gente (fra gli altri, la mia professoressa di latino) viene arrestata perché osa di pronunciare per strada (Tverskaya) le poesie russe contro la guerra. Arrestata per strada, alla luce del giorno. Faccio poi ricordare che sui sei premi Nobel di letteratura di espressione russa cinque sono stati esuli, e che Svetlana Alexievitch (premio Nobel 2015), nostra contemporanea e della stessa generazione di Viktoria Emmanuilovna, non ha avuto nessun saluto ufficiale né in Bielorussia, né in Russia. Per la storia russa, i manuali si riscrivono già, il Ministero dell’educazione sta fabbricando e fornendo nuove regole alle scuole. Si riscrive persino la Wikipedia, senza parlare della Grande Enciclopedia Russa. Ed è meglio non pensare ai frutti di questo immenso lavoro di massa.

Siamo minacciati. Il disastro che aspetta la Russia nei prossimi anni sta prendendo forma. Però, non voglio passare per un medievalista apocalittico e preferirei restare sui fatti che riguardano il mondo dell’arte, il mondo del quale e per il quale ha parlato Viktoria Markova, stimatissima collega.

All’inizio della pandemia a Kubinka, a qualche decina di chilometri da Mosca, sulla strada che porta in Occidente, è stata inaugurata, in presenza del Presidente, la cattedrale dell’Esercito russo (fig.1).

1. Cattedrale dell’Esercito della Federazione Russa. Parco «Patriot». Inaugurato 1 giugno 2020

La silouette della chiesa del «Redentore sul sangue» di San Pietroburgo (terminato nel 1907) si abbina al colore del carro blindato, perché la cattedrale non solo è simbolo dell’Esercito, ma si trova immersa nel parco militare «Patriot», ed è anche un memoriale della Grande guerra patriotica (1941-1945), parte della Seconda guerra mondiale. L’interno è ornato da un’importantissimo programma di mosaici, il più grande che esiste in Russia. La chiesa inferiore, che nasconde anche un aulico «battistero degli oligarchi», è stilisticamente più aristocratica, fa pensare agli affreschi di Mistra, ai preziosi mosaici nei tamburi di Fethiye Camii (Pammakaristos) di Istanbul, a quel stile dei Paleologhi adattato a Mosca attorno al 1400. Nella cattedrale superiore, adatta ad accogliere una divisione, i mosaici di stile molto più eclettico, che va da Kiev di Iaroslav il Saggio al realismo socialista, ci racconta la storia dell’esercito russo, con un accento più importante sulla Grande guerra patriotica.

2. Mosaico nella Cattedrale dell’Esercito della Federazione Russa. Parco «Patriot». Inaugurato 1 giugno 2020. Foto Oleg Voskoboynikov

E un mosaico speciale, ben in vista, rappresenta un ritratto collettivo di diversi generi militari, con sotto un elenco delle loro operazioni, dal Budapest e Praga fino alla Giorgia e Cecenia (fig.2). E un pò di spazio è stato lasciato libero, per un futuro indefinito …

La cattedrale non è un manuale di storia. Però è un messaggio di grande impatto, dove la storia di un paese e dei suoi rapporti con i vicini ci viene narrata sotto l’occhio del committente, Ministero della Difesa.

E’ una storia eloquente aperta al pubblico, in un parco che prima dei disastri recenti era la meta di tutti i turisti cinesi e di parecchie famiglie russe che ci venivano per mostrare ai suoi figli i carri, i missili, gli aerei, le glorie del passato e del futuro messe in scena con grande cura.

E tutto sotto l’egide della Vergine, onnipresente nei mosaici e del Redentore, che regna, scintillante, dalla conca dell’apside centrale, in più titolare della cattedrale. C’è persino una replica della «Trinità» rubleviana nel tamburo della cupola! (fig.3)

3. Interno della Cattedrale dell’Esercito della Federazione Russa. Parco «Patriot». Inaugurato 1 giugno 2020. Foto Oleg Voskoboynikov

Ritorniamo nei musei. Qualche settimana fa siamo rimasti tutti sbalorditi dall’inaspettata notizia che la famosissima «Trinità» di Andrei Rublev lascia la sua sala nella Galleria Tretiakov per passare due giorni alla Laura di San Sergio, a causa dei 600 anni del ritrovamento (inventio) delle reliquie di San Sergio. La ragione è tutt’altro che secondaria: l’icona, come si crede adesso, fu dipinta per quella stessa occasione, per quella stessa cattedrale in cui ora è venuta «ospite». Un gesto proprio medievale, devotissimo. Però, come gli storici dell’arte sanno bene, è molto fragile: i risultati di questo spostamento inaudito ora non si vedono nemmeno ai restauratori, ma gli specialisti sanno bene che brutte sorprese possono arrivare anche fra mesi. Valeva la pena rischiare 80 chilometri di strada (anche buona) di andata, altrettanti di ritorno, il fumo delle candele, il cambiamento del regime atmosferico, tutto con l’interdetto unanime dei conservatori, all’assenza della direttrice della Galleria, partita (apposta?) in vacanza – tutto per il volere di qualcuno ben altro che il patriarca, che ne prese la responsabilità solo post eventum? Una vera e propria «vittoria» della Chiesa e di qualche devoto oligarca non in vista contro i musei? Le battaglie …

4. Andrei Rublev, “Santissima Trinità”, icona a tempera, 1422-1427, dettaglio. Mosca, Galleria Tretiakov. Foto Oleg Voskoboynikov 2021.

Sono d’accordo che le icone furono – e vengono ancora – dipinte per gli spazi liturgici, per la preghiera. Anzi, ne ho parlato nei miei «16 saggi di storia dell’arte», appena usciti. Ma ci dico anche, sulle prime pagine, che ci sono oggetti di conservazione museale che non usciranno mai dalle loro sale, perché il museo è il simbolo della nostra responsabilità per gli oggetti che non hanno valore. Il mio esempio-chiave è appunto la «Trinità» del beato Andrei Rublev. Noi passiamo, passeremo, ma loro rimangono e rimarranno. Come rimangono le tombe dei nostri avi. Che diritto ha un potere, anche prepotente, di portare in giro, pericoloso comunque con tutte le precauzioni prese, un’icona con fessure che si vedono ad occhio aperto (fig.4)? Tutto senza l’accordo dei conservatori e della direttrice del museo, con una semplice lettera del Ministero della cultura, accordato dal vicedirettore rimasto sul posto, che non ha niente a che vedere con le opere? E il giorno la Duma, reagendo alla nostra indignazione comune, a proporre di passare tutte le icone alla Chiesa e così finirla con tutte ste storie di conflitti. Questo è ormai lo stile della discussione nel mio assurdo bel paese. E se qualcosa del genere succedesse alla collezione di Viktoria Markova? Se qualcuno volesse un Rembrandt o un Salvator Rosa per il matrimonio di suo figlio, in prestito per un paio di giorni. Nient’altro, giusto un prestito. Meglio non pensarci.

E allora, la mia ultima domanda, un pò rettorica: chi è che sta cancellando la cultura russa?

Oleg VOSKOBOYNIKOV, Abu Dhabi, 7 Agosto 2022