David Allan e Antonio Cavallucci a confronto: “Il commiato di Ettore da Andromaca”

di Alessio Cerchi

Appunti sul Neoclassicismo, una postilla. David Allan e Antonio Cavallucci in un confronto ufficiale per il Concorso Balestra del 1773

Nello scrivere, in questi giorni di reclusione, un saggio sul Neoclassicismo[1], ho pensato di dedicare una riflessione a se stante su un tema che, mi son fatto persuaso, viene a cadere come cardine imprescindibile quando ci si interroga su come Jacques-Louis David abbia potuto licenziare un dipinto come Il Giuramento degli Orazi[2].

Fondamentale è stato constatare quanto la volontà programmatica di creare un’arte che fosse non solo in rapporto formale con l’Antico, ma che ne impersonasse le finalità etiche e morali, in una catarsi che conducesse alla rappresentazione di valori universali, fosse debitrice in larga misura delle riflessioni teorico-filosofiche condotte in Inghilterra ad inizio secolo. Non è questa la sede per sbrogliare una questione che per ricchezzza di intrecci e problemi posti, necessita di considerazioni varie e profonde.

Ho trovato però estremamente significativo, in quanto cade in una data così precoce, soffermarsi un momento ad analizzare lo scarto che occorre tra David Allan (scozzese, ma inquadrabile per orizzonti culturali in ambiente inglese) e Antonio Cavallucci.

Lo scenario dello scontro è il Concorso Balestra indetto dall’Accademia di San Luca nel 1773. Il tema su cui gli studenti sono chiamati a confrontarsi è un exemplum virtutis, ovvero il momento in cui Ettore prende commiato dalla moglie Andromaca e dal figlio Astianatte, per andare incontro al proprio destino[3]. Le due prove finali non potevano risultare più differenti e distanti.

David Allan (Fig.1) inscena una composizione lineare, semplice nella scelta di inserire le figure su due piani, come in un bassorilievo in cui ad una parte fortemente gettante viene affiancata quella in stiacciato.

Fig.1 David Allan, Il commiato di Ettore da Andromaca, 1773, Roma, Accademia Nazionale di San Luca

Ettore è presentato frontalmente, in una posa eroica, dal carattere è stoicamente calmo, le intenzioni e i gesti risoluti. L’atmosfera generale, supportata da una tavolozza che predilige toni spenti, delicati, suggerisce l’epicità e la consapevole tragicità dell’episodio.

Antonio Cavallucci[4] (Fig.2) per contrasto manifesta in maniera chiara la sua appartenenza ad una cultura, in definitiva, ancora barocca.

Fig. 2 Antonio Cavallucci, Il commiato di Ettore da Andromaca, 1773, Roma, Accademia Nazionale di San Luca

Adotta un linguaggio in cui i gesti sono enfatici, i colori saturi tendenti a tratti verso tonalità pastello. Ettore nel suo incedere melodrammatico protende le braccia verso il figlio Astianatte, che viene porto verso il padre da un’ancella che rassembra più una bambola astratta, ignara degli eventi. Andromaca, dall’espressione pietosa di mater dolorosa, se non piuttosto a prendere in prestito da una Maddalena penitente il contrito sconforto, è lontanissima per scelta formale da quella dello scozzese, pacatamente rassegnata al proprio dolore.

Il mio non vuole essere un giudizio qualitativo, la bilancia dell’esteta non pende nè da l’una, nè dall’altra parte. È semplicemente un’analisi che vuole sottolineare gli scarti, ideologici prima che formali, tra i due dipinti. Infatti, sebbene il primo premio venne assegnato – e quanto sorprendentemente vien da dire – allo scozzese, proprio grazie a questo concorso Cavallucci, nonostante chi scrive ne metta in risalto l’arretratezza (da intendersi secondo la visione post quem che qui si vuole utilizzare), riuscì ad affermarsi nel panorama artistico dell’Urbe, ricevendo a seguito importanti commissioni.

È bene ricordare che mentre David Allan si era formato a Roma sotto l’egida di Gavin Hamilton, che tanto peso ebbe nell’istruire gli artisti più giovani verso una “nobile semplicità e quieta grandezza”[5], il Cavallucci è figlio di un milieu affatto diverso, mostra di aver assimilato con profitto la lezione di Pompeo Batoni (Fig. 3)

Fig.3 Pompeo Batoni, Teti richiama Achille dal centauro Chirone, 1770, San Pietroburgo, Hermitage
Fig.4 Francesco Fernandi detto l’Imperiali, Il commiato di Ettore da Andromaca, Ariccia, Museo del Barocco romano in Palazzo Chigi

al tempo l’artista a cui guardare, e da lui indietro fino al maestro di quest’ultimo, Francesco Fernandi (Fig.4)[6].

Coseguenza dell’alunnato con Stefano Pozzi prima e Gaetano Lapis poi, il pittore nativo di Sermoneta diviene portavoce di una tradizione linguistica egemonica a Roma, classicista; ma classicista in riferimento al tributo privo di soluzione di continuità offerto a Raffaello, Maratti e Guido Reni[7]. Che in questa fase iniziale è per forza di cose pregnante, per poi andare a diluirsi con l’evolversi del suo linguaggio negli anni della maturità.

In Inghilterra per converso, complice l’assenza di una tradizione riconosciuta come modello vincolante da perseguire – e dalla quale era impossibile sottrarsi -, di un’accademia che normativizzasse le tendenze e i linguaggi espressivi (la Royal Accademy venne fondata solo nel 1768), gli artisti erano liberi da vincoli, predisposti a seguire le volontà dell’establishment inglese[8], che anelava ad un’arte ispirata alla romanità, ai valori di cui era portatrice, e che in sostanza fosse educativa piuttosto che mero mezzo di intrattenimento. E questo gli consentì di trovarsi in una posizione peculiare, in netto anticipo rispetto quelle scuole da sempre dominanti. A riflesso ne risultò, come si è cercato di dimostrare, una prima, e se si vuole ancora acerba, epurazione stilistica.

A conferma di quanto postulato, ricordo solo che David, il padre fondatore del Neoclassicismo per unanime consenso, nel 1773 dipingeva una Morte di Seneca (Fig.5) coercizzata a misura di una macchina teatrale inquinata ancora da residui di forzata spettacolarizzazione rococò.

Fig.5 Jacques-Louis David, Morte di Seneca, 1773, Parigi, Musée du Petite Palais

Alessio CERCHI  Roma 19 aprile 2020

NOTE

[1]Di prossima pubblicazione.
[2]Il dipinto è corredato da una bibliografia pressoché sconfinata. Valgano per il lettore che voglia sondare la forza innovatrice dell’opera e i suoi aspetti ideologici e formali A. Sbrilli, Un tema e uno schema: il «Giuramento degli Orazi» di J. L. David, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 33 (1987), pp.5-18; A. Pinelli, Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento, Carocci Editore, 2017, pp.125-134.
[3]Sul concorso di veda A. Cipriani, E. Valeriani, I disegni di figura nell’Archivio Storico dell’Accademia di San Luca, III, Quasar, Roma 1991, pp.95-98.
[4]Per l’artista valga S. Roettgen, Antonio Cavallucci: un pittore romano fra tradizione e innovazione, in “Bollettino d’Arte”, 61 (1976), pp.193-212.
[5]Famoso l’aneddoto sul Teseo e il Minotauro di Antonio Canova. Si veda H. Honour, Canova’s Theseus and the Minotaur, in “Victoria and Albert Museum: Yearbook”, 1969, pp.-15.
[6]V. Casale, F. Petrucci (a cura di), Il Museo del Barocco romano. La collezione Lemme a Palazzo Chigi in Ariccia, 2007, p.196 n°93.
[7]S. Roettgen, Allievi, seguaci, imitatori e avversari. L’impronta marattesca nella pittura romana del Settecento e il suo tramonto, in S. Ebert-Schifferer, S. Prosperi Valenti Rodinò (a cura di), Maratti e la sua fortuna, Campisano editore, Roma 2017, pp.11-25. Per una visione generale sul Settecento romano valga E. P. Bowron, J. J. Rishel, Art in Rome in the Eighteenth Century, catalogo della mostra (Philadelphia Museum of Art, 16 Marzo-28 maggio 2000).
[8]Sul mecenatismo inglese in terra romana valgano  D.R. Marshall, S. Russell, K. Wolfe (a cura di), Roma Britannica: Art Patronage and Cultural Exchange in Eighteenth-Century Rome, The British School at Rome, London 2011; A. Pinelli, Souvenir. L’industria dell’antico e il Grand Tour a Roma, Laterza 2010.