Bertel Thorvaldsen, novità da un inventario inedito. I parte

di Rita RANDOLFI

Riconsiderazioni su Thorvaldsen: la casa, gli ateliers e le collezioni dall’inventario dei beni del 1844. I parte *

*Pubblichiamo la prima parte di un ampio saggio di Rita Randolfi che fa luce, sulla base di un’ importartante documentazione inedita, su aspetti di grande rilievo relativi alla figura e all’opera di Bertel Thorvaldsen, all’ambiente in cui visse e al mondo del Neoclassicismo.

Introduzione

Dopo aver trascorso quarantuno anni a Roma, dove era giunto nel lontano 1797,  Bertel Thorvaldsen decise di far ritorno a Copenaghen, sua città natale, nel 1838. Il motivo di questa scelta risiedeva nella volontà di seguire da vicino il sogno vagheggiato da una vita: la costruzione di un museo che conservasse le  opere, i bozzetti, i gessi e la ricchissima collezione di antichità e dipinti da lui messa insieme. Lo scultore danese avrebbe voluto erigere una sorta di museo-mausoleo almeno dal 1820, individuando la sede nel palazzo Giraud di piazza Scossacavalli nel rione  Borgo, ma l’affare sfumò e l’edificio fu acquistato dai Torlonia.[1] L’idea originaria in ogni caso  non venne abbandonata e nel 1830  l’artista stilò il suo primo testamento, ripetuto e ampliato nel 1832 e poi ancora nel 1835, in cui  dichiarava di voler donare tutti i suoi lavori, compresa la  cospicua raccolta personale, a Copenaghen, con il vincolo che vi si costruisse un museo in suo onore, nel quale l’intero lascito trovasse la sua dimora definitiva e permanente.

Tra l’ultimo testamento e il ritorno in patria si interpose una lettera pubblicata il 6 dicembre del 1832 dal giornale Kjøbenhavns-Posten,  ma spedita da Roma il 1 novembre dello stesso anno, in cui  si affermavano le antiche intenzioni:

Thorvaldsen non è ancora tornato e non ha neanche scritto a nessuno (…). Perciò prima della partenza ha fatto il suo testamento nel quale testamenta le sue collezioni di quadri e di monete, oltre a tutti i suoi tesori d’arte, alla patria con il desiderio che dopo la sua morte siano conservati a Copenaghen, in un locale adatto. 20.000 scudi sono stati assegnati alla figlia che usufruirà delle rendite e alla morte di lui le saranno devoluti anche gli altri capitali; ma se costei dovesse morire senza eredi, il capitale dovrà essere utilizzato per l’acquisto di oggetti d’arte  per ampliare il Museo Thorvaldsen.[2]

Quindi, nonostante il danese avesse scelto deliberatamente di risiedere nella città eterna, aveva ben chiaro che doveva affidare il capriccio  di restare nella memoria dei posteri e di autocelebrazione di se stesso alla terra natia.

Nel 1835  Ludwig Schwanthaler, divenuto professore dell’Accademia di Belle Arti di Monaco,  aveva scritto a Thorvaldsen per indurlo a donare i calchi delle sue opere alla città tedesca, condividendogli la gioia e l’onore che avrebbe provato il sovrano Ludovico. La proposta non andò in porto, ma lo scultore fu lusingato da tale offerta, che poteva utilizzare come una sorta di ricatto nei confronti di Copenaghen, verso cui erano già partite alcune casse imballate da Livorno. Un’altra parte di gessi era stata donata all’erigendo  Kunstschule di Stoccarda, ma  andò dispersa durante la seconda guerra mondiale.

I testamenti del 1830 e del 1832, quest’ultimo rogato in prossimità delle nozze della figlia Elisa,  non erano considerati validi a Roma, e Ludvig Bødtcher nella città papalina e Jonas Collins a Copenaghen tentarono in tutti i modi di convincere l’amico a sottoscrivere un nuovo atto, cosa alla quale  Thorvaldsen si sottomise il 24 agosto del 1837, spedendone una copia alla madrepatria.[3]

Ancora il 5 dicembre del 1838 Bertel scrisse:

Alla mia città natale di Copenaghen, faccio dono di tutti gli oggetti d’arte di mia proprietà, sia quelli che già si trovano nella capitale, sia la maggior parte di quelli che si trovano a Roma, e inoltre gli oggetti che fino alla mia morte dovessero essere aggiunti, tutte le statue e i bassorilievi in marmo e in gesso, vasi antichi, pietre tagliate, paste, bronzi e terrecotte, medaglie, quadri, oggetti preziosi, incisioni su lastre di rame, stampe e litografie, disegni fatti a mano, libri e qualsiasi altro oggetto antico e moderno che abbia attinenza con le scienze e le belle arti.[4]

Le richieste dello scultore  si rivelarono tuttavia modeste: «Un locale a prova di incendio e ben illuminato»,[5] che  non poteva di certo essere sufficiente, se già dal primo catalogo del nuovo museo risultano descritti ben 12.000 oggetti.[6]

Quando dunque Bertel giunse, con alcune delle sue collezioni, da Livorno a Copenaghen, salpando dalla fregata reale Rota, l’Accademia Reale di Danimarca già possedeva diversi modelli originali spediti da Roma a partire dal 1825.[7] Ma  è solo dal 1838 che l’architetto Michael Gottlieb Bindesbøll avviò i lavori  di edificazione del museo.[8] Da questo momento il maestro visse tra la sua città d’origine e lo studio di Nisø messogli a disposizione dalla baronessa Stampe. Fu proprio con la famiglia Stampe che il danese rientrò  a Roma nel 1841, dove rimase fino alla metà del 1843.[9] Qui, oltre a ultimare alcune commesse e a modificare i modelli per la Vor Frue Kirke che non lo avevano soddisfatto, continuò a seguire la spedizione delle casse dirette in Danimarca. Tuttavia nel 1844 quando il più celebre scultore nordico dell’epoca venne a mancare in maniera alquanto spettacolare -fu colto da infarto mentre assisteva a teatro alla rappresentazione della novella boccaccesca  Griselda – ancora molte sue opere erano rimaste negli atelier romani, come certifica l’inventario che si vuole commentare in questa sede. La rilevanza del documento si evince anche dai nomi dei suoi redattori:  Giovanni Bravo,  pittore danese “regente di Sua Maestà il Re di Danimarca”, nominato nel 1843 agente artistico e nel 1847 console,[10]  il signor Carl Dalgas console danese a Livorno,[11] il cavaliere Carlo Kolb, console di Wuttemberg per tutto lo stato pontificio, residente in via Pozzo delle Cornacchie 17,[12] Elisa Baciocchi, granduchessa di Toscana e  il conte Antonio Savorelli.[13] Dunque erano presenti autorità danesi ed italiane a garanzia che non si compissero imbrogli, e questo la dice lunga sull’importanza conferita all’enorme produzione del cosiddetto “Fidia nordico”, e alla volontà di esaudire il suo desiderio di costituire un museo a Copenaghen che ne decretasse la fama imperitura.

In effetti  l’inventario del 1844 fornisce un’idea più precisa di come dovevano essere le residenze e gli atelier del maestro, il cui gusto, sensibilità e personalità emergono con maggior chiarezza.[14]

Per tentare di dipanare la situazione, oltre alla bibliografia fin qui nota, è stato utile consultare il prezioso sito web del Museo Thorvaldsen di Copenaghen.

Il criterio seguito per l’analisi del documento è quello dell’esposizione delle opere nei singoli locali. Tuttavia quando una replica o un’altra versione dello stesso soggetto si trova in un altro ambiente la sua descrizione viene anticipata accanto a quella trovata per la prima volta. Si è anche affrontato il problema della dislocazione degli studi di Thorvaldsen, confrontando il documento con le   testimonianze grafiche e scritte coeve.

 La questione delle dimore romane di Thorvaldsen attraverso i documenti e le opere grafiche

Dall’inventario del 1844 si apprende che negli ultimi anni di permanenza romana Thorvaldsen aveva continuato ad abitare in via Sistina nella celebre pensione di palazzo Buti Tomati.

Il danese aveva dimorato sempre nella stessa area geografica: nel 1797,   al suo arrivo nella città eterna, aveva occupato un appartamento ad angolo tra via del Babuino ed il vicolo che conduceva al Teatro Alibert,[15] per poi approdare in via Sistina prima al n. 25, successivamente al n. 28, oggi corrispondente al civico 148, presso Orsola Polverini Narlinghi, dove divideva un alloggio al secondo piano con il pittore tirolese Joseph Anton Koch, del quale  possedeva alcuni dipinti.[16] Nel maggio del 1804 era andato a vivere nella pensione di casa Buti di via Sistina 46,[17] come certificano gli Stati d’Anime di Sant’Andrea delle Fratte del 1805,  che registrano al n. 43 della stessa strada uno studio di scultura. La notizia trova conferma negli elenchi parrocchiali del  1811 e del 1813, dai quali si desume che il celebre Ingres risiedeva al secondo piano del medesimo edificio.  Nel 1817 Thorvaldsen abitava con il collega tedesco Christian Daniel Rauch.[18]

Interessante notare come,  oltre al vezzo di  dichiarare spesso la  stessa età in anni diversi, nel 1825  e nel 1827 Bertel, di solito registrato a via Sistina 46,  viene rubricato al primo piano di via Sistina n. 51,  insieme al collaboratore e compatriota Hermann Ernst Freund.[19] Nel 1828 addirittura lo scultore risulta risiedere al n. 51 mentre ai civici 45 e 46 sono registrati gli studi.[20]La “locanda dei forestieri”[21],  era costituita in realtà da un palazzo, costruito dalla famiglia piemontese dei Tomati, prospiciente via Gregoriana (Fig. 1), e da uno stabile, proprietà dello scultore Camillo Buti, su via Sistina (Fig. 2). Il giudizio del Thiele sull’immobile è tutt’altro che lusinghiero:

È pur vero che la chiamano Palazzo Tomati, ma si tratta di una nobiltà immeritata, visto che non si distingue in alcunché dalle altre costruzioni, se non per il fatto di ospitare al primo piano uno dei maggiori artisti del mondo.[22]

In effetti la facciata del fabbricato, come viene restituita da un disegno di anonimo a Londra (Fig. 3), risulta alquanto insignificante.

3.

Nella stessa pensione, ma dal lato di  via Gregoriana 44, gli Stati d’anime del 1828  ricordavano gli artisti  KochMichelangelo Pacetti e Giulio Cravari.[23] Anche Il Mercurio di Roma del 1843 registra l’abitazione di Thorvaldsen al n. 51 di via Sistina,[24] e la certezza che il civico della casa fosse quello si deduce dall’inventario: i  compilatori dell’atto  entrarono dal n. 46 e si recarono al primo piano, per passare «alla porta che ammette alle camere già abitate dal lodato commendatore» che corrispondevano al n 51. Evidentemente dall’interno gli ambienti erano comunicanti e dagli studi si poteva accedere direttamente all’appartamento vero e proprio.

Dal  disegno londinese citato poc’anzi, si intuisce chiaramente la presenza di un laboratorio di scultura anticipato da alcune lastre di marmo arbitrariamente poggiate sul muro della porta di ingresso. Se si contano le aperture  ipotizzando che al 46, dove si vedono i pezzi di marmo,  ci sia lo studio di scultura,  il 51 sembra corrispondere con l’accesso al palazzo più grande.  Del resto anche il poeta Hans Christian Andersen, che  nel 1833 dichiarava: «Abito nella stessa strada di Thorvaldsen, cioè via Sistina»[25]  e dalla finestra di casa sua aveva schizzato l’edificio, pur se tagliando una parte di casa  sulla sinistra,  nel 1842 scriveva:

La dimora dell’altro re si trova nella medesima strada; ha più l’aspetto d’un palazzo, sebbene le finestre siano un po’ irregolari. Un ingresso buio con la scala di pietra (la stessa ricordata persino dal Thiele) conduce alle stanze, le quali hanno semplici pavimenti in mattoni, ma pareti adorne di magnifici quadri. Qui abita Thorvaldsen[26] (Fig. 4).
4.

Da questo rapido schizzo risulta chiaramente che il portone dello stabile era decentrato e doveva corrispondere al civico 51. L’errore, ovviamente non di primaria importanza,  di pensare che l’abitazione fosse  al n. 46 è stato  probabilmente avallato dalla lapide ivi apposta dal Comune di Roma,  che ricorda la permanenza di Piranesi, di Thorvaldsen e di Canina. Inoltre nel pianerottolo sopra l’androne di questo stabile  si trova  un busto del danese con l’iscrizione PER MEMORIA / DI AVERE ABITATO IN QUESTA CASA 7 ALBERTO THORVALDSEN / DURANTE IL SUO LUNGO  SOGGIORNO IN ROMA 7 MDCCCXXXXIV.

Va invece evidenziato come dal civico 46 si accedeva ad un magazzino sotterraneo, come rivela l’inventario del 1844, dove erano ammucchiati busti rotti,  frammenti di gesso accanto ad alcuni arnesi da lavoro. Il maestro, che utilizzava persino le camere del suo appartamento per esporre i  pezzi e per conservarvi la cospicua raccolta di opere d’arte antiche e moderne, incisioni, diplomi e quant’altro, come si vedrà in seguito, disponeva anche di numerosi ateliers.

Nel 1797 Bertel aveva iniziato a lavorare in  uno studio al n. 119 di via del Babuino, un locale utilizzato in precedenza dal collega inglese John Flaxman, per trasferirsi, nell’agosto del 1804, in vicolo delle Catenelle Barberini,[27] in un ambiente denominato dal Thiele il «secondo studio di palazzo Barberini»,  dove aveva scolpito il Giasone.[28]

5.

Nel 1815 lo scultore prendeva in affitto dal principe Francesco Barberini tre case «da ridurre a Studi di scultura … poste nel vicolo delle Colonnette, cioè la casa posta nel giardinetto num.o 19 contigua allo Studio ritenuto in affitto dal med.o Sig. Thorvaldsen seg.o num. 20, la casa posta nel cortile prossimo il num.o 18 e l’altra che ha l’ingresso nel vicolo sud. Num. 17». Le spese per la trasformazione dei tre fabbricati in studi venivano defalcate dalle pigioni di 15 scudi per il n. 19 e 31 per gli altri due.[29] Si trattava dunque di tre edifici di dimensioni ridotte con ingresso da un giardino comune, come si vede in un disegno conservato nel Museo Thorvaldsen, attribuito al pittore Marstrand e datato all’incirca al 1846, dove si individuano anche il recinto con le piante rampicanti e i pezzi di marmo lungo la strada, ad ulteriore testimonianza della presenza di laboratori di scultura (Fig. 5).[30] Lo stesso Marstrand è l’autore di un altro disegno, conservato nel Gabinetto  delle stampe di Copenaghen e pubblicato nel 1963 dallo Hartmann, che lo datava al 1846, dove la strada è ripresa dallo stesso punto di vista.[31] Tuttavia il recinto sembra aver subito lavori di abbellimento e il cancello di ingresso appare ricostruito in forme più imponenti e fiancheggiato, nella parte interna, da due alti cipressi, inesistenti nell’elaborato grafico del Museo Thorvaldsen. Va evidenziato come i due fogli, o per lo meno il secondo, potrebbero registrare una situazione diversa da quella supposta finora: infatti nell’inventario del 1844 Thorvaldsen non risultava più l’affittuario dei  tre piccoli studi, ma soltanto di uno, al civico 38, mentre i tre atelier si rintracciano  nell’inventario dei beni di Pietro Tenerani, evidentemente subentrato al maestro quando questi era ancora in vita. In ogni caso l’ingresso fiancheggiato dai due alberi, al di là del quale sono visibili tre casette, è riprodotto anche in un’acquaforte dell’epoca già resa nota dallo Hartmann.[32]  Si precisa  che  via della Catenella e via delle Colonnette Barberini, poi vicolo delle Colonnette, erano la stessa strada, corrispondente all’odierno vicolo, senza uscita, dei Barberini, tuttora esistente di lato al cinema Barberini (Fig. 6), al cui imbocco si trovavano due colonnette che sorreggevano una catena, da cui derivavano le diverse nomenclature, a manifestarne la proprietà privata.[33]

 

6

Dietro la fontana del Tritone, nell’acquarello di Johan Thomas Lundbye, conservato nel Museo Thorvaldsen, che raffigura Piazza Barberini, si vede perfettamente  l’accesso al vicolo, sottolineato dalla presenza delle due colonne con catenella (Fig. 7).[34] Inoltre nella particella 71 del catasto gregoriano del 1816 gli studi piccoli di Thorvaldsen, corrispondenti ai civici 17, 18, 19, 20 e 22 sono chiaramente individuabili[35] e nel Brogliardo del 1820, all’isola 7, concernente il rione Trevi, è riportato: «Vicolo delle Colennette n. 20 studio di scultura, n. 18 giardino con studio di scultura».

7.

Il  civico 20 di via delle Colonnette corrispondeva al laboratorio il cui pavimento aveva ceduto proprio l’8 novembre del 1820 e affacciava sul delizioso giardino che aveva incantato anche il Thiele.[36] Dietro a questo studio, nel 1824, Thiele ne ricordava uno di dimensioni ridotte, dove erano esposti la statua della principessa Baryatinski, un piccolo Ganimede ed altri bassorilievi. Dall’altro lato del vicolo si trovava un laboratorio che Thorvaldsen, secondo la testimonianza del suo biografo, lasciò al Tenerani.[37] I piccoli ateliers del danese corrispondenti esattamente a quelli citati nel contratto, affacciavano sul medesimo giardino, dove fiorivano rose selvatiche accanto a viti, e dove erano collocati un vaso con una pianta di aloe ed una vasca ricoperta di muschio.[38]  Da una carta, proveniente dall’archivio Marini Miarelli, nell’Archivio di Stato di Roma, si evince che nel 1816 Thorvaldsen aveva preso in affitto due studi di scultura di fronte alla chiesa dei SS. Tommaso e Idelfonso da Villanova su via Sistina, poi ceduti ad un altro collega di nome Aleandro, forse spagnolo, come gli agostiniani scalzi che avevano costruito la chiesa, più due piccoli ambienti presi in locazione dal 1813 fino al 1817, di cui non si specifica l’esatta ubicazione, ma che probabilmente erano sulla stessa via.[39] È plausibile che in questi spazi lo scultore avesse sistemato quei numerosi  e ingombranti calchi da esposizione che intendeva riunire in un unico locale.

È così che nel 1829 il letterato Frederik Christian Hillerup scrisse:

Per molti anni l’artista si contentava di suddetti studioli modesti per un tale uomo; ma con l’incremento della sua attività dopo il ritorno dal Paese natio nel 1820 egli si rendeva conto della necessità di prendere in affitto dal principe Barberini una assai grande stalla da trasformarsi in studio, il che succedeva un paio di anni più tardi.  In quest’ultimo sono collocate Cristo e gli Apostoli. Una ventina di persone sono giornalmente impiegate nelle descritte località.[40]

Il grande atelier infatti fu preso in locazione nel luglio 1822.[41] Rileggendo il contratto di affitto, già reso noto dallo Hartmann, e confrontandolo con l’inventario del 1844 e con diverse altre testimonianze  sia scritte  che grafiche  l’annosa querelle sull’ubicazione dello studio grande di Thorvaldsen,  che aveva visto fronteggiarsi il principe Urbano Barberini e lo studioso Hartmann, sembra finalmente  trovare  una soluzione inequivocabile.[42]

L’atelier si trovava sicuramente all’interno delle proprietà Barberini, come recita l’incipit del contratto: «Studio di scultura posto  nel recinto del suo Palazzo e contiguo al Cortile delle Scuderie» e come ripetono  più o meno instancabilmente la maggior parte dei visitatori, dal biografo Thiele «in un locale che un tempo costituiva le stalle di Palazzo Barberini», all’adolescente Giovanni Corboli Bussi nel 1827, «Nel recinto che circonda questo palazzo (si tratta di palazzo Barberini), ha posto il suo studio quel celebre scultore»,[43] al già citato Hillerup, al Keller nel 1830 «Stalle Barberini»,[44] al Valery nel 1834 «J’ai visité, près du palais Barberini, l’atelier de Thorwaldsen»,[45] al Brancadoro «Via delle Colonnette e alla scuderia di Barberini, sua abitazione via Sistina 51»,[46] per concludere con l’inventario del 1844:

Si va nello studio grande per uso di scultura … nelle adiacenze del Palazzo della Eccellentissima famiglia Barberini (c. 112v) e precisamente dalla parte che guarda la piazza denominata piazza de’ Barberini, e nel locale dove  sono situate le Rimesse di proprietà dello stessa Ecc.ma casa nell’ultima delle quali esiste l’indicato studio di scultura.

È proprio questa frase la chiave di volta per individuare il celebre studio-museo, situato nell’ultimo locale delle rimesse Barberini. Il principe Urbano Barberini asseriva che questo era stato sistemato

In quel fabbricato lungo e basso a due piani, dal prospetto sobrio disegnato con mano  ferma da Pietro da Cortona. Questo edificio che, innestandosi al palazzo Sforza, contiguo al palazzo Barberini, ne marcava il termine, divenne la sede del “teatro da comedie” verso la metà del XVII secolo se dobbiamo credere alla didascalia dell’incisione dello Specchi che ce lo addita come tale,[47]

e un anno dopo il nobile  insisteva nell’identificare il luogo «Al piano superiore nel luminoso ambiente dell’edificio cortonesco un giorno adibito forse a teatro ».[48]

Già lo Hartmann nutriva forti perplessità  sulla collocazione di un atelier  di scultura in un secondo piano. L’ipotesi in effetti non può reggere per diversi motivi: il primo come già confutato dallo Hartmann[49] per il peso dei pezzi che, anche se in maggioranza gessi, erano comunque numerosi e di dimensioni colossali, come ricordava il biografo Thiele, e ciò trova conferma nel documento del 1844,  in secondo luogo nessun visitatore aveva mai riferito di aver salito una scala per accedere allo studio, terzo sarebbe stato scomodo e poco fruibile per i visitatori e per i turisti, considerando anche lo scopo marcatamente pubblicitario dell’esposizione, ma soprattutto sarebbe riuscito poco pratico per i lavoranti e per i facchini trasportare i gessi ad un livello superiore  con l’enorme rischio di romperne qualcuno,  tenendo conto che il maestro era già rimasto scottato dall’esperienza del crollo del pavimento dello studio piccolo di via delle Colonnette 20; l’ipotesi dunque pare poco attendibile, dato  che persino  le clausole del contratto alludono alle responsabilità delle parti nelle eventualità di catastrofi naturali.

La porta dello studio, come recita il punto 3 del contratto, fronteggiava il cancello di ingresso alle proprietà Barberini sulla piazza,   riconoscibile  in un acquerello di Troels Lund del 1840, nel Museo Thorvaldsen.[50] Dalla prospettiva in cui si pone l’artista si osserva il cancello e dietro la struttura trasversale con tetto a spioventi.  Poco prima sulla sinistra si vede una facciata con tetto a capanna, che non prosegue in un fabbricato. A destra, dopo il vicolo delle Colonnette, si nota un altro laboratorio di scultura.[51]

8.

In un altro acquarello poco noto che riprende la piazza dal lato della chiesa dei Cappuccini, riproducendo anche la celebre croce issata su una base lavorata dal Thorvaldsen stesso,[52] si scorgono alcune lastre di marmo sul fondo del muro che fiancheggia l’ingresso, corrispondente al luogo dove oggi sorge il cinema Barberini (Fig. 8), dimostrando  che l’accesso al grande atelier avveniva   dalla piazza, soprattutto per gli ospiti illustri. Infatti nel contratto al punto 3 si dichiarava che «L’ingresso dello Studio rimane stabilito dall’attuale Porta sotto il Portico corrispondente verso l’interno del Cortile della Cavallerizza, incontro il Portone sulla Piazza Barberini». Il principe Urbano  ricordava:

Conoscendosi con esattezza l’ubicazione del grande portale che si elevava sulla piazza, il portico, che si trovava di fronte ad esso era aperto sotto quell’edificio a carattere popolare, di modesta architettura, fino ai nostri giorni  abitazione dei cocchieri (…) sotto il portico vi era l’ingresso allo studio.

Considerando  l’imponenza dei gessi, il tetto a spiovente poi riprodotto nel disegno del Ricciardelli e nel quadro di Martens, si scorge chiaramente la posizione di questa casa, forse una stalla ai tempi di Thorvaldsen, successivamente  trasformata in abitazione  dei cocchieri, come ricordava il principe Urbano Barberini, che lo riconosceva in una stampa già resa nota dallo Hartmann.[53]  Si potrebbe ipotizzare che quella fosse l’ultima rimessa alla quale  si riferiva l’inventario ottocentesco; inoltre il confronto con la fotografia che documenta le demolizioni di Piacentini per la realizzazione di via Barberini, sembrerebbe non lasciare dubbi.[54]  L’edificio occupa due piani in altezza, ma internamente doveva essere concepito come una chiesa e dunque con un solo piano e un soffitto alto, come si desume del resto dalle testimonianze grafiche. L’illuminazione  sarebbe stata garantita dal fatto di risultare un casamento piuttosto isolato,  che affacciava sul cortile della cavallerizza, visibile in un dipinto conservato nel Museo di Palazzo Braschi, in cui sono rappresentati i giochi in onore dell’arrivo di Cristina di Svezia, verso piazza Barberini e dall’altro lato su quello delle scuderie.   Le dimensioni erano piuttosto ampie,  ma la sensazione di stupore descritta da molti viaggiatori, che avevano l’impressione di trovarsi in una chiesa, si deve non solo alla presenza delle capriate lignee interne, ma anche  al tetto a spioventi, nonché dal confronto con i più piccoli e modesti studi che circondavano tutta la zona e che avevano la tipologia tipica di un atelier e non certo  vestivano i panni  di un museo, secondo i desideri del danese.

Un secondo ingresso, destinato al passaggio dei materiali più ingombranti e pesanti,  era stato aperto sul versante di via San Nicola da Tolentino, dove si trovavano i grottoni, come esplicitamente garantito nel punto 4 del contratto.  Se i grottoni, come affermava il principe Barberini,  appartenevano al circo di Flora presso Palazzo Sforza, su via di San Nicola da Tolentino, di fronte all’omonima chiesa, l’ubicazione di questo secondo accesso viene incontrovertibilmente  confermata.

Thorvaldsen quindi poteva godere di un’entrata  più imponente, riservata agli amanti della scultura, attratti dalla sua fama, e di una di servizio per i lavoranti. Dunque aveva ragione Urbano Barberini a voler collocare lo studio grande all’interno delle proprietà di famiglia, ma un’errata interpretazione del punto 6 del contratto lo aveva portato  a pensare che fosse collocato ad un livello superiore, mentre la parola «piano», come già supponeva lo Hartmann andava soltanto interpretata come pavimento.  Lo storico dell’arte danese dal canto suo  credeva che lo studio fosse esterno al recinto del palazzo, ubicato dove oggi sorge l’hotel Bernini: l’acquarello del Nicolle, di proprietà del  principe Barberini,   dimostra in ogni caso che lì si trovava effettivamente  un atelier di scultura.

L’inventario in  ogni modo rivela che  Thorvaldsen  nel 1844  non godeva più dei piccoli studi, nel frattempo passati al Tenerani,  ma di un laboratorio più ampio sempre su via delle Colonnette, ma al civico 38. L’analisi del documento proposta in questa sede segue il criterio della successione degli ambienti e delle opere ivi contenute, mettendo a confronto i numeri dell’inventario antico, introdotti dalla n. di numero,  con i corrispettivi del Museo Thorvaldsen di Copenaghen, dove una lettera precede il numero vero e proprio.

[1]  Miss 2014, 55-56.

[2] Jørnaes  1957, 189.

[3] Ibid., 187-189; 198-199.

[4] Ibid.,  217-218.

[5] Ibid.,  219.

[6] Ibid.,   220.

[7] Thorvaldsen era partito da Roma il 5 agosto del 1838 alla volta di Livorno, da dove salpò il 7 dello stesso mese. Giunse a Copenaghen il 17 settembre. Il capitano dell’imbarcazione era il Dahlerup.

[8] Bindesbøll rimase a Roma negli anni trenta dell’Ottocento per approntare progetti finalizzati alla realizzazione di tale museo, cercando di coinvolgere Thorvaldsen, il quale tuttavia in una lettera all’amico architetto avrebbe espresso il desiderio di una costruzione semplice, con sale in infilata  delle medesime dimensioni, in modo che ne potessero essere aggiunte delle altre all’occorrenza. Per le opere di grandi dimensioni come Cristo e gli Apostoli l’artista non reputava necessario edificare un ambiente di grandi dimensioni, in quanto il visitatore poteva recarsi nella cattedrale di Copenaghen e vederle direttamente. Cfr. Miss 2014, 56.

[9] Grandesso 2010, 264.

[10] Jørnaes 1957,  236.

[11] Dalgas  era il fratello di Christine  Dalgas Stampe.

[12] L’indirizzo del Kolb si desume da Il Mercurio di Roma, 1843,  147-148, che specificava anche come il cavaliere fosse incaricato di affari e consigliere di legazione in assenza del barone Gremp de Freudenstein.

[13] I Savorelli erano originari di Forlì, abitavano nel palazzo  ereditato dai Muti-Papazzurri di piazza SS. Apostoli, si allontanarono da Roma per recarsi a Castel Gandolfo, con l’intento di sfuggire ad un’epidemia di colera del 1837. Antonio era figlio di Alessandro e di Caterina Vespignani. Cfr.  Silvagni 1971, IV,  131; 138. Alessandro Muti Papazzurri, detto conte Savorelli, fece ristrutturare la cappella del palazzo su progetto del conte Vespignani. Cfr.  Silvagni  1971, I, 318, nota 33.

[14] Anche di recente Jon Zahle si lamentava delle scarse conoscenze a riguardo. Cfr.  Zahle 2010,  91.

[15] La notizia è riportata da  Thiele 1851, I, 118, 123.

[16] Durante questo periodo Thorvaldsen stesso si dedicò al disegno, riproducendo opere del Casterns, alla morte del quale, nel 1798, acquistò alcune composizioni. Cfr. Jørnaes 1957,  44, 45. Zoega abitava al numero 44 e i coniugi Uhden al 126 della stessa via Sistina.

[17] Alla morte dell’architetto Camillo Buti, collaboratore di Mengs e proprietario del casamento, la moglie e le tre figlie, soprannominate le “Grazie”, per la loro bellezza,  continuarono a vivere gestendo l’omonima pensione, dove risedettero numerosi artisti. Vittoria Buti sposò lo scultore Julius Troschel, Elena era fidanzata con Rudolph Schadow, che però morì prima di sposarla, ed Olimpia si unì in nozze con il pittore Lengerich. Cfr. Hartmann 1963, 2;  Carpaneto 1991,  507-508.

[18] ASVR, Sant’Andrea delle Fratte, Stati d’anime, 1805, via Sistina Alberto Torvaldsen scultore anni 30; 1811, via Sistina 46, Alberto Torvaldsen scultore anni 40; 1813,  via Sistina casa 46, primo piano, Alberto Torvaldsa scultore anni 41; secondo piano Agostino Ingres pittore, anni 20; 1817, f. 21, via Sistina 46, primo piano, Alberto Torvaldsen scultore 40; Cristiano Rauch scultore 37; 1820, f.  21, via Sistina, 46, primo piano, Alberto Torvaldsen, scultore anni 40.

[19] ASVR, Sant’Andrea delle Fratte, Stati d’anime, 1825: f. 17, via Sistina, 52, primo piano, Alberto Torvaldsen danese scultore, anni 53; Freiund, danese scultore 33. Al secondo piano abitavano i Buti e al terzo: Stefano Vigna pittore francese anni 26, M. Brudissieur pittore francese anni 29. Al civico 51 è ancora registrato negli Stati d’Anime del 1827, f. 47v: Via Sistina 51, primo piano Alberto Thorvaldsen  scultore 55, Frund danese scultore 35.

[20] ASVR, Sant’Andrea delle Fratte, Stati d’anime, 1828, f. 51v, Palazzo Tomati, via Sistina, numeri 45-46 studi di scultura,  51 Thorvals.

[21] Così era definita la pensione negli elenchi parrocchiali.

[22] Thiele in Di Majo  et al. 1989,  330.

[23] Su questo scultore  si veda: Debenedetti,  Randolfi 1999, XXII, 193.

[24] Il Mercurio 1843, 295-296. Vengono menzionati anche gli studi a via delle Colonnette e quello grande nella scuderia di palazzo Barberini.

[25]  Hartmann  1957,  562.

[26] Ibid.,   571.

[27] Hartmann 1963, 1-2.

[28] Thiele in Di Majo et al. 1989, 330;  Miss 2014,  52.

[29]  Hartmann 1963, 7-8.

[30] Sulla questione degli indirizzi degli studi di Thorvaldsen e Tenerani si rinvia a:  Randolfi 2010, 75-90;  Randolfi 2014, 193-201; Randolfi 2016, 124-132.

[31] Per questo secondo elaborato si rinvia a  Hartmann 1963, 3.

[32] Hartmann 1964, 6; Hartmann 1965, 10-18, in partic.  15.  Thorvaldsen affidava le chiavi del portoncino  ai collaboratori più stretti, dapprima  a Tenerani, poi al Galli, successivamente a Carl Frederik Holbeche, dietro l’accorta supervisione di Johan Bravo. Per quanto riguarda il subentro di Tenerani si veda: Randolfi 2014, 193-194.

[33] Romano 1947, 339: «Barberini vicolo, già vicolo delle Colonnette dei Barberini».

[34] Lundbye, danese,  era giunto a Roma il 14 luglio del 1845, e divise il suo appartamento con l’amico scultore J.A. Jerichau e con il pittore Thorald Læssøe. Poiché i tre non andavano molto d’accordo Lundbye si spostò in un alloggio a piazza Barberini.

[35] Silvestro 2006, 168-171, in partic. p. 171. Questi atelier erano stati presi in affitto il 14 novembre del 1815. cfr. Hartmann 1963,  12-13.

[36] Thiele in Di Majo  et al. 1989,  330 per il  giardino, e  331: «Di fronte a questo (ha appena descritto lo studio dove Thorvaldsen aveva scolpito il Giasone) nel lato sinistro del giardino, c’è lo studio, in cui nel 1820 avvenne il famoso crollo».

[37]  Tenerani, oltre a divenire il proprietario degli studi ai nn. 17, 18 e 19, ne acquistò ancora uno al civico 33, precedentemente  tenuto in appartenuto ai fratelli Fantini. Cfr. Randolfi 2014, 193-194.

[38] Thiele in Di Majo  et al.  1989, 331.

[39] ASR, Archivio Marini Miarelli, b. 5.

[40]  Hartmann 1963,  6-7.

[41]  Ibid.,  12-13.

[42] Ibid., 1-18; Barberini 1963, 3-8;  Barberini 1964, 1-4;  Hartmann 1964, 3-11;  Silvestro 2006,  168-171, in partic. 170-171;  Randolfi 2010, 88, nota 24. Il Mercurio parla dello studio alle rimesse Barberini di quello alle Colonnette e della casa a via Sistina 51.

[43] Randolfi 2010, 79.

[44] De Keller 1830, 92-96.

[45] Valery 1833,  IV, p. 163.

[46] Brancadoro 1834, 52.

[47] Barberini 1963,  5.

[48] Barberini  1964,  1.

[49] Ibid.,  4.

[50] Lund riprese piazza Barberini anche in un altro acquerello ora nella Biblioteca della regina  di Copenhagen.

[51] Thiele (in Di Majo  et al.  1989, 331)., affermava trattarsi del laboratorio di BIenaimè.

[52] Hartmann 1965,  10-18.

[53] Hartmann 1964, 5, fig. 3.

[54]  Barberini  1964, 1, fig. 1.