Architettura e società civile: come può prendere Forma l’ Anonimato; una ricerca e una riflessione

di Massimo MARTINI

Migranti sull’About

di M. Martini e F. Montuori

Mi sento un pò strano, vado a farmi un giro…

DIRITTO ALL’OBLIO

Ricerca nebulosa, di valori nitidi, in realtà nebulose

PARTE PRIMA – UN EDIFICIO ALLA VOLTA

Saranno le allergie di primavera ma mi sento tutto strano. Forse perché ho detto a me stesso che mi piacerebbe fare il reporter. Dentro questo fare articoli da architetto. Ma non esiste in realtà una ragione sociale che possa sostenere questo mio desiderio. E non esiste forse nemmeno il desiderio. Piuttosto il fascino che emana dal format reporter. Luoghi, vestiti, avventura, oriente in fiamme, deserto come sedazione del pensiero. Così devo inventarmi un’emergenza, un’emergenza del linguaggio, (che ne so, una balbuzie nella serialità delle finestre disposte al terzo piano degli edifici di civile abitazione…). Un’emergenza che spinga me a testimoniare di questo incombente deficit sociale, indagare con le forze a disposizione, insomma rispondere alla mia stanca coscienza di architetto. E già lo so come va a finire. Inseguo la complessità intravista. Mi piego alla ragionevolezza dei miei limiti. Trovo rifugio nell’ironia del guarda caso. I luoghi, quelli ambigui della media borghesia urbana. I vestiti, quelli scolpiti nel tutto del blue jeans. L’avventura, nel destino irrisolto di una città senza uno straccio di grattacielo. L’oriente in fiamme, nelle guerre esibite sul Golgota del piccolo schermo. Il deserto, nel sospiro profondo di chi, comunque, non rinuncia ad illudersi. Così, quasi istintivamente, chiedo a qualcuno di cui mi fido di accompagnarmi, di spendere un poco della sua aura a mio favore, di condividere la fatica della performance, nel corso del viaggio. Di dirmi poi magari cosa ne pensa. Lo chiedo a George Segal e alle sue sculture. (fig 1)

Figura 1- George Segal, L’artista all’opera nel suo studio (’24-00)

Mi domando: esiste una forma preferenziale di anonimato? Oppure ci si deve accontentare di una figura mimetica buona per tutte le occasioni? (Laddove nel mimetismo convergono tutte le strategie: quella per nascondersi nell’ambiente circostante… quella per sfuggire al nemico… quella per dissimulare le proprie idee per non dire il proprio passato). Dando per scontato che l’anonimato non sia tanto un carattere collettivo innato, quanto un carattere indotto (voluto oppure subìto)… E mi faccio questa domanda perché vedo incrociarsi, inesorabili, due distinte volontà sociali. Da un lato il desiderio (poi diritto!) alla privacy da parte di tutti i cittadini di tutti i ceti sociali. Dall’altro il disinteresse verso i cosiddetti linguaggi comuni, da parte degli storici dell’arte (casta di sacerdoti-adoratori di soli capolavori)… Esiste una Guida all’architettura del ‘900 a Ladispoli? No! Nemmeno a Cesenatico, Grottaminarda, Crotone, Rovigo o Gorizia. Esistono alcune storie dell’arte generaliste, tutte incentrate sugli stessi, pochi, imperituri esempi. E d’altro canto. Provate a fare foto trasandate, di architetture trasandate, lungo strade trasandate: là dove vivono i linguaggi comuni. Arriva sempre qualcuno a chiedervi del perché tu sia lì!… Mentre è tutto un fervore di piazzisti di Identità nazionali-locali-familiari certificate e liofilizzate.  (Io che, d’istinto, mi sento cittadino del mondo)… Dunque verso alcuni ipotizzati territori dell’anonimato mi accingo a muovere il passo. Ben provvisto come sono, di adeguati strumenti di conoscenza. Nella forma di picaresche schede pittoriche! (fig 2)

Figura 2- M. Martini, Forma dell’anonimato n. x23, (’19). (Palazzina anonima n. x23 – Bianco come “forma del dubbio”)

Rivolgo la mia attenzione a cinque palazzine della zona bene, consolidata della città, anzi di un’ipotetica città (che non voglio trovarmi con il problema degli indirizzi, dei citofoni e via discorrendo, se possibile). L’edificio di civile abitazione è la madre di tutte le architetture. Qui, nel luogo del mio curiosare, i nuclei familiari sono organizzati in condomini con 30 diversi proprietari e passa. Dipende dal taglio degli appartamenti. (Potrei ricostruire a tavolino una pianta tipo, verificando sulle facciate la disposizione e il numero delle finestre dei servizi… ma non ritengo utile farlo, almeno ora). Mi organizzo mentalmente per le cinque picaresche schede pittoriche. Poi anche per lo scritto che immagino descrittivo, ma non troppo. Intermittente, direi. Con spazio alle ansie. Borbottii di uno che cammina, nulla più, (il reporter deve sudare e ansimare per essere vero). Alle ore 14,45 di un giorno feriale inizio a gironzolare. Il sole va e viene. L’intonaco vige sovrano. Nessun rivestimento ai piani superiori. Timidi paramenti al piano terra. Travertino in tutte le taglie. (Non vedo i maltagliati, che mi piacciono tanto). Mi domando se devo prendere in considerazione una grande pompa di benzina posta all’inizio del percorso. Decido di no. Un magazzino di pneumatici trasforma un avanzo di lotto in progetto di discarica. Il negozio è un poco più in là, lungo la via. Operai in tuta curvi lungo il marciapiede. Mi faccio piacere tutto. (fig 3)

Figura 3- M. Martini, Forma dell’anonimato n. x41, (’19). (Palazzina anonima n. x41 – Bianco come “forma del dubbio”)

Come ovvio sono confuso. Non si va mai in un luogo, per studiarlo, senza essersi fatti preventivamente un’idea, quale che sia. Senza un’idea non puoi cambiare idea (in cerca di quella migliore…). Vieni accecato da un bagliore che sembra immotivato. Ma la ragione c’è. Tutto arriva troppo insieme, senza l’utile filtro di qualche umano pregiudizio. Lo devo tenere a mente, prima di intraprendere il prossimo reportage. Dietro l’angolo mi attende non solo il meno conosciuto. Ma anche il distorto. Lo stereotipo soprattutto: la noia che consola! Cosicché devo riconoscere che il centro della missione mi appare sfuocato, forse artificioso. Sul taccuino, Moleskine d’ordinanza, sta scritto: esiste una forma preferenziale di anonimato? E nell’istinto di cui mi fido, decido di accelerare… insomma intravedo che, a fronte di un disegno tranquillo e controllato, i balconi degli edifici tengono basso il tasso di identità del singolo manufatto. (I balconi sono un indicatore semplice ma sicuro). E se l’identità sbiadisce, già avviata com’è verso forme prevedibili seppur non trasandate, allora mi sfiora l’idea di una prima forma di anonimato: un anonimato signorile, tipo avvocato Agnelli con i blue jeans. Anche gli ingressi principali ai caseggiati sono sapientemente nascosti fra le cianfrusaglie del piano terra. Ingressi come di soppiatto. Si rinuncia ad esibire il portone! Il costruttore e il suo architetto non intendono strafare. L’ex edificio elegante, ora sfiorito dal consumo dei segni e dei simboli, si assesta ai miei occhi come il bene rifugio di nuovo tipo. (fig 4)

Figura 4- M. Martini, Forma dell’anonimato n. x45, (’19). (Palazzina anonima n. x45 – Bianco come “forma del dubbio”)

Le schede picaresche già scorrono nella pretesa di essere autosufficienti (perché soggettive e pittoriche). Nella mia mente valgono l’antico album degli schizzi di viaggio dell’architetto viandante. Oggi piuttosto spiegazzato dai corsi di aggiornamento a punti. Più libero, forse. Certo più smagato. Un uomo, una donna, di alte imperfezioni certificate. Materia viva, l’imperfezione, nel meccanismo salvifico dell’evoluzione. Chissà quanto interessati, l’uomo, la donna, a riscrivere le regole dell’architettura dei balconi. Di questi dicevamo… ce ne sono sparsi qua e là anche in forma di loggia, con le ombre ben incassate nel volume generale dell’edificio. Parapetti di vetro opaco e, in numero superiore, ringhiere fitte, regolari, quasi ritagli di un retino veloce. Al di sotto delle solette si affacciano anche le testate delle travi, quando divengono mensole e vogliono far mostra di sé. Poi la mensola va in fuga e si affusola esibendo un segno inclinato. Quindi il segno inclinato si mette in proprio, non più come effetto di una struttura che sta lavorando al meglio. Si notano balconi simili ai cassetti aperti di uno schedario. Deboli identità. Ci vuole altro oggi. L’assunto della ricerca regge, però. Così, con il tempo che scorre, siamo alle 16,15 circa, qualcosa sembra essere adatto a significare. Di certo un altro sopraluogo non riesco a evitarlo… E per rendere il futuro più sfuggente, comincio a chiedermi come saranno gli interni. Gli appartamenti. Le stanze. I tappeti. I quadri appesi alle pareti. Che sono, tutti, proibiti al viandante. Che sono la privacy fatta vita ristretta, quotidiana. Il tesoro nascosto. La forma dell’identità. Quell’ente che per sopravvivere chiede l’oblio. Attraverso un mondo di tranquilli anonimati. Nelle forme che consentano, al bisogno, di esibire comunque una qualche maschera d’occasione. (fig 5)

Figura 5- M. Martini, Forma dell’anonimato n. x62, (’19). (Palazzina anonima n. x62 – Bianco come “forma del dubbio”)

La decisione di tornare per un secondo sopraluogo mi spinge a rimanere sulle generali, grandi strappi non ne vedo, pochi gli episodi che danno un carattere. Non riesco a giudicare i negozi, che non sono molti d’altronde. E non ci riesco perché sopraffatto dalla vita di strada, traffico, macchine parcheggiate, tram in versione corsia preferenziale. Comincio a riflettere che non sono al mio tavolo, nel mio studio, i disegni (che per altro non possiedo) ben disposti in attesa del mio giudizio. Insomma non ho la storia dell’arte dalla mia parte. Solo un istinto ben allenato. Cui si somma un dato che ho ampiamente sottovalutato. Le cinque palazzine messe in bella fila non godono di una sola strada di accesso, bensì di due. Parallele fra loro, ambedue importanti e scorrevoli. In teoria sarebbero disponibili, per facciate identitarie, ben due fronti principali (anche se la forma-concetto di una palazzina non se ne cura proprio di questa opportunità, finendo per assomigliare – da queste parti ma non nel caso specifico – a una vera e propria ameba multiforme a vocazione schizoide, con un piede a terra dove capita e come capita, con un tetto pieno di abusi condominiali, nella veste provvisoria di lavatoi e cassoni dell’acqua). Vincono le orizzontali, oppure le verticali? Vince la scatola traforata da finestre e porte finestra oppure piani e pianetti nella leggerezza non portante delle tamponature perimetrali? Di certo non c’è traccia, in questi linguaggi, delle scansioni regolari del cemento armato. E l’anonimato? E’ garantito dalla tenuta di un gruppo di segni omogenei o piuttosto dallo sfaldarsi del lessico verso una babele di simboli in cerca d’autore? Ore 17,00 mi concedo un cappuccino. (fig 6)

Figura 6- M. Martini, Forma dell’anonimato n. x63, (’19). (Palazzina anonima n. x63 – Bianco come “forma del dubbio”)

George Segal, alle figure 1 e 7, dice tutto con maggior sintesi ed efficacia di questo scritto e di queste schede. Ci dice che, come artista, non riesce a prendere in considerazione l’uomo, la donna, nei lineamenti e nei gesti che crediamo di conoscere. Per riconoscerli davvero o per riscoprirli di nuovo, quei lineamenti, quei gesti, lui li deve come anestetizzare. Fissare per un tempo senza tempo in un mondo neutro. Dove la massa sia percepibile. I particolari no. L’identità preservata in una qualche memoria esterna. L’originale salvo. Esegue un calco, ma questo calco non è la copia! Il calco è anche l’originale!  Insomma ci siamo. L’identità è nascosta. Ma esiste e, in qualche maniera, ce ne possiamo riappropriare… E nel frattempo che cerchiamo di orientarci… qualcuno giustamente fa uso dell’anonimato in attesa di tempi migliori. Legittimamente. Vale per le case, come per gli uomini e le donne di Segal… In un mare di interrogativi, che vedo spuntare come papaveri, in questo campo di parole. (fig 7)

Figura 7- George Segal, Un’opera finita e una in corso, nello studio dell’artista (’24-00)

Massimo MARTINI    Roma  giugno 2019

(Il seguito in uno dei prossimi numeri di About Art on Line)