“Amelia e le Arti”. Dalle mura megalitiche al tardo Rinascimento, un perfetto percorso d’arte nel libro di Paola Mangia

di Stefania MACIOCE

Paola Mangia, Amelia e le Arti, De Luca Editori d’Arte, Roma 2021

Questo volume costituisce la prima opera dedicata ad Amelia nella sua interezza, poiché la vicenda storica della città, oggetto dell’ indagine di Paola Mangia, prende le mosse dal mondo antico per arrivare al XX secolo. Il concatenarsi degli eventi artistici si snoda sulla base di una memoria dell’antico tanto che la stessa autrice definisce felicemente Amelia una sorta di “deposito di memorie dell’Antico”.

Diversi sono stati, in precedenza, gli studi dedicati alla città amerina, in gran parte a carattere monografico come il recente libro degli Atti del Germanico o, in un passato non lontano, gli studi su Piermatteo d’Amelia con mostre e convegni, curati da Francesco Mancini, cui si aggiungono quelli di Massimo Moretti sui Petrignani. A suo tempo, lo ricordiamo, Federico Zeri tra i primi aveva “riscoperto” e valorizzato la figura del pittore Piermatteo d’Amelia. A ciò vanno aggiunti i lavori di catalogazione delle pitture del ‘600 e ‘700 esistenti sul territorio dell’Alta Valle del Tevere condotti dal Dipartimento di Storia dell’arte dell’Università di Roma Tre, oltre naturalmente ai repertori fotografici e agli itinerari locali specie sui palazzi. Mancava però un testo di carattere generale che, sotto il profilo artistico, illustrasse il rapporto della città con il territorio in un arco cronologico completo. Opere così ampie possono rischiare di essere tacciate di una certa genericità. Ma non è questo il caso poiché oltre alla descrizione e all’analisi delle diverse emergenze, collocate nel loro esatto contesto storico e culturale e offerte al lettore con immediatezza, la studiosa produce nell’appendice del volume il frutto di una consolidata esperienza archivistica che si snoda in un articolato regesto documentario.

L’ antica Ameria, inglobata nel dominio di Roma, è testimoniata, tra la metà del III secolo e la metà del II, dalle tracce di una fortificazione arcaica e dalle mura megalitiche che ancora delimitano lo spazio urbano. Ne sono documento gli scavi archeologici e le fonti letterarie risalenti al periodo imperiale, quando la città divenne una fiorente colonia di Roma.

Columella, Plinio il Vecchio e Tacito la descrivono come luogo fertile e salubre e il locale Museo Archeologico conserva l’effigie monumentale di Germanico, commissionata dalla casata imperiale. Nella seconda metà del terzo secolo d.C. l’imperatore Aureliano decise di trasferire temporaneamente la sua residenza in questa località̀ di provincia per sfuggire alla peste dilagante a Roma e come sottolinea l’autrice:

Alla sua permanenza si lega la magnificenza di alcuni Principi che prendono qui la residenza, usanza che ritornerà̀ in voga nel Rinascimento”.

E’ da qui che si evince il filo conduttore del volume che, come s’è detto, è la memoria dell’antico. Al di sotto dei rinascimentali palazzi Venturelli e Farrattini per citarne alcuni, restano infatti importanti testimonianze archeologiche di queste ricche dimore imperiali.

Amelia, Palazzo Farrattini

La via Mercatoria evidenzia la vocazione di Amelia come città del commercio che non viene meno nel periodo comunale, come attestano lo statuto cittadino e le Arti, organizzate in corporazioni.

Dopo il periodo comunale Amelia continua a condividere la realtà̀ storica del Patrimonio di San Pietro cui appartiene […] e La città diventa meta delle visite dei pontefici, riceve e mantiene dopo i conclavi i privilegi mentre diverse famiglie locali tessono attraverso loro rappresentati legami con la curia romana”.

Rilevanti per la storia della città nel primo Rinascimento sono i rapporti con Roma durante i pontificati di Martino V Colonna, Niccolò V Parentucelli, Pio II Piccolomini. Dal 1410 palazzo Boccarini diverrà̀ sede del Governatore pontificio la cui giurisdizione si estenderà̀ anche su Terni e Orvieto. Il consolidato potere dello Stato Pontificio porta ai vertici della società̀ amerina un’oligarchia di patrizi che reggerà la città almeno sino alla fine del sec. XVI, ponendo le basi per una crescita artistica e culturale. A ciò si aggiungono insediamenti degli ordini mendicanti e, più̀ in generale, dei molti edifici di culto che nascono all’interno e all’esterno delle mura della città, ma soprattutto le vicende costruttive e decorative dei numerosi palazzi che ancora oggi caratterizzano il volto nobiliare della città.

Nel corso del Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento, nasce ad Amelia una “scuola umanistica” che tra le diverse famiglie vede emergere quella dei Geraldini, che darà vita in città a straordinari episodi artistici nel campo della scultura rinascimentale coinvolgendo artisti di grido come Agostino di Duccio, Andrea Bregno, Luigi Capponi.

Piermatteo d’Amelia, Annunciazione, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum

Tra i pittori figura di spicco è quella di Piermatteo d’Amelia, forse tra gli artisti più significativi  dell’Umbria meridionale. Questi deve molto alla protezione dei Geraldini che, negli anni in cui il pittore lavora nei Palazzi Vaticani, occupa posizioni apicali in seno alle gerarchie pontificie. Oltre i Geraldini, anche la ricca famiglia Farrattini diviene tipico esempio di una nobiltà̀ originata dalla trasformazione di una classe alto-borghese che sarà̀ protagonista di larga parte della storia cinquecentesca di Amelia. Come, ad esempio, la costruzione del palazzo su progetto di Antonio da Sangallo.

Elemento di distinzione sociale, nel senso di una riappropriazione consapevole delle proprie radici, ma anche conseguenza della moda del tempo, è il reimpiego sistematico in molti palazzi di vestigia della romanità̀, fatto che attira l’attenzione dell’umanista, architetto e scultore Giovanni Antonio Dosio, il quale, affascinato dalla qualità̀ di questi inserti archeologici, ne fa oggetto di una preziosa serie di schizzi e disegni. A metà strada tra le sontuose dimore metropolitane e le case di campagna, i palazzi di Amelia offrono al loro interno, nei saloni di rappresentanza, cicli di affreschi che esaltano, con allegorie o storie legate ai fasti della famiglia committente, il raggiungimento di un indiscusso ruolo sociale. Gli autori di questi cicli appartengono a quella diffusa koinè̀ tardo manieristica, un tempo definita genericamente “zuccaresca”, caratterizzata dalla comune adesione a uno stile sostanzialmente omogeneo, aderente ai modi pittorici in voga a Roma nella seconda metà del ’500.

Il Rinascimento è, dunque, il periodo di massimo splendore per Amelia e, nell’analisi dei diversi cicli di affreschi, la studiosa individua mani, propone nomi, giungendo a convincenti attribuzioni oppure circoscrivendo l’ambito di produzione o la bottega, in seno alla quale le diverse decorazioni furono progettate e realizzate tenendo a mente incisioni e testi figurati, ma anche esempi illustri di famose casate aristocratiche, come i Farnese.

Dalla ricerca emerge e si consolida la formazione di una ‘bottega’ amerina che, sugli esempi romani a partire dai cantieri sistini, vede i pittori lavorare velocemente su cartoni che vengono riutilizzati, e che si configurano sulla base di  modelli incisori e libri di disegni di artisti celebri in primis, del loro maestro, Livio Agresti. Sulla scorta delle vestigia antiche e del rafforzamento del potere pontificio si determina nel Rinascimento amerino un clima di “renovatio” della città.

Molti palazzi, come Palazzo Farrattini o palazzo Venturelli, nascono sui siti dove sopravvivono resti antichi, come gli impianti termali e vengono arricchiti al loro interno da sontuose decorazioni a fresco. Sono proprio questi edifici, ben individuabili ancora oggi nel centro storico della città attraverso i portali ornati dagli stemmi, a creare, sulla base dei prototipi rinascimentali romani, il nuovo volto austero ed elegante di Amelia.

La ricerca di Paola Mangia verifica e attesta su base documentaria presenze artistiche rilevanti, dal citato Livio Agresti, ai fratelli Taddeo e Federico Zuccari nella pala della Cappella Farrattini, fino ad Antonio Viviani e poi Antonio Pomarancio, presenze significative nella bottega amerina, in cui tuttavia non si rintraccia un unico protagonista, ma una o più̀ équipe al lavoro nei palazzi, formata via via da diversi collaboratori. Il solo nome documentato è quello di Liotardo Pìccioli, senza però le opere da lui eseguite in Amelia e con lui Tarquinio Racàni, presenti insieme nell’Oratorio: artefici di diverse opere, si configurano come i due esponenti/collaboratori della Bottega amerina formatasi al seguito di Livio Agresti e collaboratori. La bottega verrà difatti via via alimentata da altre presenze giunte ad Amelia da fuori e in particolare da Roma.

Nei pittori della bottega, l’autrice mette in luce anche stilemi toscani provenienti dall’area dell’alta Teverina, avvalorati dagli storici legami con i Medici di Firenze da parte di alcune famiglie amerine, come i Cansacchi e i citati Geraldini. La trasmissione dell’influsso tosco-romano giunge nel territorio della Valnerina attraverso l’influenza dello stesso Livio Agresti che, non solo aveva lavorato a Palazzo Vecchio a Firenze (1565 ca.), ma era entrato in contatto con Giorgio Vasari durante i lavori nella Sala Regia (inizio 1572). Rimarchevole inoltre nella bottega amerina la presenza di pittori fiamminghi attivi nei paesaggi e grottesche, come a Palazzo Cansacchi.

Nella seconda metà del ‘500, dunque, in linea con quanto avviene a Roma e nel territorio umbro-laziale, si assiste ad una radicale trasformazione della tipologia decorativa dei palazzi di Amelia. E la penetrazione del gusto sin rintraccia anche nelle tematiche come nei motivi decorativi. Amelia costituisce, ad esempio, una delle testimonianze più̀ significative della fortuna del fregio continuo, eseguito generalmente a fresco nel sottotetto dei saloni di rappresentanza dei palazzi nobiliari. Ad Amelia i fregi prevedono un sistema architettonico-decorativo specifico e ricorrente nella distribuzione degli spazi. Nei diversi palazzi l’apparato decorativo è infatti simile con poche varianti, ridotto all’essenziale e semplificato rispetto ai più̀ alti modelli romani. Le scene rappresentate ospitano episodi liberamente espunti sia da fatti reali, che da narrazioni mitologiche e garantiscono la continuità̀ della narrazione accompagnati quasi sempre dalle Allegorie delle Virtù̀, allusive alle qualità̀ morali del committente, alle imprese virtuose della sua gens, espunte dai trattati di iconologia dell’epoca e dal repertorio della numismatica classica con la funzione di esaltare al massimo la rappresentatività̀ politica, sociale o economica della committenza.

Le radici di queste tipologie si rintracciano nella ricchissima tradizione raffaellesca delle decorazioni delle volte e dei sottotetti dei diversi palazzi nobiliari romani, avviate nella Villa di Papa Giulio III, nella Sala delle Prospettive della Villa di Agostino Chigi, a Palazzo Sacchetti, per giungere a fine secolo ai Palazzi Mattei, Giustiniani, Crescenzi e Ruggeri e altri. Fregi continui si ritrovano poi nelle decorazioni delle fastose dimore innalzate nella campagna laziale, la Villa d’Este a Tivoli, il Palazzo Farnese di Caprarola, il Castello di Bassano a Sutri, la Palazzina Gambara di Villa Lante di Bagnaia nel Viterbese e, verso nord, il Palazzo dei Della Corgna a Castiglione al Lago. L’esempio più̀ vicino anche cronologicamente è quello delle Sale del Palazzo Cesi di Acquasparta.

Caratterizzati da una ricerca prospettica gli esempi più significativi si ritrovano ad Amelia in Palazzo Farrattini e in Palazzo Clementini ove è evidente il richiamo alla pittura prospettica in auge nella Roma di Clemente VIII Aldobrandini, specie degli Alberti che, nella sala Clementina, raggiungeva i suoi più̀ alti risultati. Nelle prime cinque sale di Palazzo Petrignani, invece, il sistema decorativo è diverso e si estende sulle volte. La moltiplicazione dei partimenti geometrici e la simmetria sia dei motivi decorativi sia delle piccole figure sul fondo bianco crea una trama dipinta ordinata e ritmica che si sviluppa attorno al quadro riportato centrale.

Il richiamo è al sistema decorativo antichizzante della volta del Salone maggiore di Giovanni da Udine in Palazzo Baldassini o a quello della Sala della Biblioteca attribuito a Luzio Luzi e collaboratori nell’appartamento di Paolo III Farnese a Castel Sant’Angelo. I fregi si configurano dunque come rotuli dipinti che offrono una sequenza narrativa il cui prototipo è la Colonna Traiana, testimoniando come in un libro il costante richiamo all’Antico e all’immagine di una Chiesa cristiana trionfante in un’ ideale continuità̀ con i programmi iconografici già̀ ampiamenti sviluppati in precedenza nei Palazzi Vaticani.

Sigillo di araldica rappresentatività̀ della committenza i fregi amerini si fondano sempre su un programma erudito, ispirato a fonti antiche dalle Vite di Plutarco, al Trionfo di Lucullo, le Storie di Coriolano e di Lucio Emilio Paolo, le Metamorfosi d’Ovidio, i testi apocrifi dell’Antico e Nuovo Testamento, noti anche attraverso la diffusione delle incisioni. Se pur complessi sotto il profilo iconografico in tutti i cicli, i fregi sembrano seguire uno schema compositivo comune di fastosità̀ e di ricchezza. Nel fregio del Palazzo di Anchise Cansacchi l’apparato decorativo si scosta dal consueto modello: è legato infatti alla rappresentazione di una Natura stravagante e oscura, con figure in forma di statue “grottesche”, vi compaiono maschere caratterizzate da smorfie, torbidi telamoni e cariatidi: il risultato è un’immersione in una animata realtà̀ vegetale secondo un naturalismo di tipo settentrionale fra “terribilità̀ e capriccio”.

Il fregio di Palazzo Farrattini si incentra, invece, sulla Storia e la Nobiltà̀ della casata e vi si allineano figure di Imperatori, finte statue di personaggi della Romanità, con un evidente richiamo alle decorazione scolpite del romano Palazzo Spada che si alternano ai “quadri riportati”, appesi su finti arazzi, che esaltano, in forma allegorica, le gesta di Giuseppe Farrattini. La decorazione di Palazzo Petrignani costituisce l’esempio più̀ noto di un ciclo basato sulla figura di un personaggio illustre della Chiesa romana, Monsignor Fantino Petrignani la cui vicenda si intreccia con Caravaggio a Roma. Nei pannelli centrali delle diverse sale dipinte, e in particolare in quella del salone di rappresentanza, è infatti predominante il tema della supremazia della Chiesa attraverso l’autorevolezza dei pontefici i cui stemmi figurano agli angoli delle sale. I luoghi rappresentativi di questo potere fanno da cornice nei sovrapporta, simboleggiati dalle piante delle città, Roma-Firenze-Costantinopoli-Bologna riprese dalle incisioni di Domenico Tibaldi (1541-1583) e di Matteo Florini (1580-1612).

Tutti questi cicli dipinti sono comunque accomunati dal riferimento alla terra d’origine, Amelia, esaltata come territorio d’appartenenza, secondo uno spirito “neofeudale”. A Palazzo Boccarini Amelia figura nelle vesti della Telluris Mater, feconda nelle diverse stagioni dell’anno sotto il segno benefico degli astri. Le attività̀ dell’Uomo in relazione al Tempo e alla Storia contemporanea, assumono in tutti questi cicli un contenuto simbolico in relazione alla crescita della spiritualità̀ umana connessa alla laboriosità̀, come nel fregio di Palazzo Clementini datato al 1603, ove compare l’Allegoria del Labor la cui matrice fiamminga si rintraccia nell’incisione di Sadeler: l’allegoria non troppo abituale è presente a Roma in palazzo Zuccari e nella Sala Clementina in Vaticano.

Diversamente dai contenuti storici degli altri cicli, le scene di Palazzo Clementini indicano le modalità̀ concrete di governo e ne consegnano lo strumento pratico. Ed esaltano l’affermazione del committente o del proprietario come novello Princeps rispecchiando il concetto, essenzialmente umanistico e laico dell’Uomo, eletto per le sue facoltà̀ intellettuali e morali oltre che per le virtù̀ concrete e materiali. La “grottesca”, attinta dall’Antico e dalla cultura antiquariale a seguito dello scoprimento della Domus Aurea, giunge in Umbria meridionale attraverso le botteghe di Pinturicchio e Raffaello.

Questa tipologia decorativa trova fortuna, in modo particolare, nella produzione artistica amerina in quanto occupa un largo spazio nelle decorazioni a fresco delle sale di rappresentanza dei palazzi nobiliari di Amelia con una varietà̀ di motivi ornamentali che, però, va di pari passo con le indicazioni teoriche in materia di figurazione della Chiesa Romana. A partire dagli anni Novanta del sec. XVI, la grottesca si trasforma da elemento ornamentale a corredo delle scene storiche, a soggetto autonomo, come nelle volte di Palazzo Petrignani. Qui in piccole episodi vivono personaggi fantastici dalle forme frutto di originali commistioni tra il mondo animale e vegetale o compiono incredibili acrobazie nel vuoto. Le volte con le grottesche della Sala di Eraclio, dei Somaschi e di Strigonia in Palazzo Petrignani, eseguite secondo i documenti nel 1607 da Marzio Ganassini, rappresentano l’evoluzione di questa tipologia decorativa la cui fantasia si rivela debitrice nei confronti di Zuccari, a Caprarola, ma guarda ormai al linguaggio del Cavalier d’Arpino, il pittore più̀ accreditato come capocantiere a Roma, a cavallo del nuovo secolo. Questa sorta di coralità che caratterizza l’arte rinascimentale della città amerina la si potrà ritrovare con un salto di secoli nel Teatro sociale di Amelia, simbolo della Comunità̀ dalla fine del XVIII secolo, la cui storia inizia nel 1782 per volontà delle famiglie nobili locali.

Amelia, Teatro sociale

Completato più tardi dall’ apparato decorativo, il Teatro è pregevole testimonianza della fortuna dello stile Liberty affidato alla mano dell’allora pittore in voga, Domenico Bruschi (1840-1910). A lui spetta la decorazione del plafond del soffitto, del Foyer e di alcuni ambienti adiacenti alla sala, realizzata tra il 1880 e il 1886. L’originalità di questo elegante teatro e della sua decorazione hanno richiamato nel Novecento l’interesse di direttori d’orchestra e di registi a testimonianza dell’apertura culturale di questa pregevole cittadina, iniziata nel Rinascimento.

Conosco Paola Mangia da tempo e anche in questa occasione ne verifico l’esperienza derivatagli dai ruoli direttivi svolti nella Soprintendenza di Roma. Ma anche una inesauribile e lodevole passione per la ricerca condotta sempre con grande onestà intellettuale, senza cedimenti ad arbìtri interpretativi. Il suo volume costituisce il risultato di un’indagine capillare sul territorio, affrontata con il rigore dello storico che le è proprio.

Stefania MACIOCE  Roma 3 Luglio 2022