Caravaggio e il ragazzo “che da una lucerta era morso”. Riemerge da una collezione romana la versione con il “putto che piange …”.  

di Sergio ROSSI

Accanto alle due versioni più note del cosiddetto Ragazzo morso da un ramarro (in realtà si tratta inoppugnabilmente di una lucertola) del Caravaggio, quella della National Gallery di Londra [fig.1] e quella della Collezione Longhi di Firenze [fig.2],

Figg 1,2 Ragazzo morso da un ramarro (sx Londra; dx Firenze)

in questa sede intendo analizzarne una terza, in collezione privata romana [fig.3, cm. 65,5×50], che a mio avviso è da considerarsi anch’essa un capolavoro autografo del Merisi, e che già Maurizio Marini aveva segnalato come tale.

Fig 3 Ragazzo morso da una lucertola (Roma coll. privata; dopo la rimozione della vernice)
Fig 3 Ragazzo morso da una lucertola (Roma coll. privata) Riflettografia

Al proposito Giacomo Berra[1] scrive:

«Ancora il Marini nel 2006 ha segnalato la presenza in una collezione privata romana di quel che egli ritiene “una terza versione” del Ragazzo morso da un ramarro caravaggesco (olio su tela, cm. 65 x 49,5) da lui giudicato di notevole qualità (eine sehr qualität volle dritte version). Lo studioso non ha però pubblicato alcuna fotografia e quindi è difficile precisare se si tratti di una versione diversa del dipinto del Merisi oppure di una semplice copia»[2].

Tale la considera in effetti Alessandro Zuccari in una sua recente e interessantissima pubblicazione[3] dalla quale intendo prendere le mosse, non prima però di aver reso conto di quello che sul dipinto ebbero a scrivere Giovanni Baglione, Giulio Mancini e Jacob Sandrart. Il primo osserva che il nostro pittore «fece anche un fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori e da frutti, era morso, e parea quella testa veramente stridere, et il tutto con diligenza era lavorato»[4]; il secondo afferma che Caravaggio fece per vendere «un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano, e dopo pure un putto che mondava una pera con il cortello»[5]. E ancora il Sandrart, nel 1675 e nel 1683, parla, nelle due versioni in tedesco ed in latino di un kind o puer che “sembrava piangere a calde lacrime” ovvero di un “puer …à lacerta per insidias in manum admorsum, prae dolore miserum in modum ejulans[6].

Volendo ora rendere brevemente conto delle varie opinioni circa l’autografia di uno o di entrambi i dipinti prima citati, quello della National Gallery di Londra e quello della Fondazione Longhi di Firenze osserviamo che quest’ultima ipotesi è oggi condivisa dalla maggior parte degli studiosi (A. Moir, L. Salerno, M. Gregori, D. Mahon, M. Cinotti, G. Berra), mentre a favore della versione inglese si sono espressi tra gli altri, M. Calvesi, T. Wilson-Smith, V. Sgarbi e lo stesso Alessandro Zuccari. Quest’ultimo, dopo aver reso conto con efficace sintesi del complesso dibattito critico ancora in corso, ed avere respinto l’ipotesi che Baglione da un lato e Mancini e Sandrart dall’altro parlino di due quadri differenti afferma: «Un’ulteriore conferma del fatto che Mancini si riferisca al Ragazzo morso da un ramarro e non ad un secondo dipinto è offerta da un’interessante copia di collezione privata romana che aiuta a comprendere come mai il conoscitore senese parli di un “putto che piange”: l’immagine, meglio conservata della versione londinese, mostra infatti la traccia di un pianto incipiente. Inoltre va ricordato che anche la descrizione proposta nel 1675 da Joachim von Sandrart sottolinea che per il morso il fanciullo “sembrava piangere a calde lacrime”. Nella copia romana si nota bene che l’occhio destro del ragazzo è gonfio di lacrime, particolare che oggi non si rintraccia nella versione di Londra ed è appena accennato in quella di Firenze. Il recupero di questo dettaglio chiarisce che l’indicazione di Mancini e Sandrart non è incongrua e fa supporre che i due biografi abbiano memorizzato e descritto un effetto straordinario che oggi non possiamo più percepire, perché è andato perduto. E ciò ben si addice al quadro londinese, che risulta svelato anche nel volto. Evidentemente in questa zona del dipinto sono scomparse sottili pennellate di colore e delicate lumeggiature alla “fiamminga” che ancora si apprezzano nei riflessi e nelle trasparenze del vaso di vetro, decisamente più naturalistici e sottili rispetto alla versione di Longhi. In quest’ultima si può invece notare che le incisive lumeggiature sono meglio conservate e imitano l’umidità degli occhi con notevole efficacia, ma in modo più tenue che nella versione romana».[7]

Fig. 4 Ragazzo morso da una lucertola (Roma coll.privata; prima della rimozione della vernice)

In realtà, se è certamente possibile che nella versione di Londra le lacrime, un tempo presenti, siano scomparse dopo un restauro non appropriato, lo è altrettanto che le lacrime non siano mai esistite: e nessuno potrà ormai dimostrare quale delle due ipotesi sia quella giusta. Tanto più che un restauratore inesperto avrebbe dovuto levare le lacrime anche dalla versione di Firenze, il che comincia ad essere veramente difficile da credere. Ciò che è assolutamente evidente, invece, è che la descrizione del Mancini e del Sandrart si attagli alla perfezione alla versione romana, l’unica che, come sottolinea anche Zuccari, mostri un “occhio gonfio di lacrime” e che pertanto deve a mio avviso considerarsi, anche per una serie di altre ragioni che andremo presto ad approfondire, il prototipo autografo del Caravaggio[fig. 4]; la versione di Londra, che è forse dal punto di vista del puro godimento estetico la più bella, ma anche la meno drammatica e impattante, addolcita com’è nell’impasto e nella resa dei riverberi luminosi, è una replica autografa, probabilmente quella descritta da Baglione e che per l’appunto non parla di lacrime, mentre quella della Fondazione Longhi è una copia coeva, di splendida fattura e di un artista che operava comunque a stretto contatto con lo stesso Caravaggio.

Che Baglione e Mancini parlino in effetti di due dipinti diversi è anche il parere recente (sia pure reso in modo dubitativo) di Giacomo Berra:

«Alcuni indizi farebbero pensare a due versioni differenti. Non si può infatti non notare che la descrizione del Baglione è quella che appare più consona alle due versioni autografe conosciute… Il Baglione scrive “e parea quella testa veramente stridere”, mentre il Mancini parla “di un putto che piange”, un verbo che viene usato anche dal Sandrart: “weinen” e “ejulans”. Il dipinto descritto dal Mancini sembra dunque abbastanza diverso dalle versioni ora a Londra o a Firenze. Non possiamo quindi scartare del tutto (anche se mancano delle prove) l’ipotesi dell’esistenza di due diverse versioni del dipinto del Caravaggio: una con “un putto che piange” e una seconda con un “fanciullo” che fa una smorfia di dolore, entrambi morsi da una lucertola».[8]

Ora la prova mancante la fornisce proprio l’esistenza della terza versione del dipinto, in collezione privata romana, in cui il protagonista, per l’appunto, ha le pupille gonfie di lacrime, ben visibili anche ad occhio nudo. Certo Mancini e Sandrart parlano di un putto o puer, ma al proposito è ancora Zuccari (che pure, lo ripeto, non crede all’esistenza di due versioni diverse) a fornire la spiegazione più convincente: «E’ pur vero che Giulio Mancini non parla di un giovane, ma di un “putto”- termine che oggi indicherebbe un bambino (kind o puer lo definisce anche Sandrart- e dichiara che “tiene in mano” il ramarro, mentre il rettile spunta da sotto e gli morde il dito medio; tuttavia tali “imprecisioni” sono imputabili sia alla memoria che a distanza di anni si fa sfocata, sia al linguaggio in uso a quel tempo. Se da un lato, infatti va tenuto presente che è molto facile non ricordare tutti i dettagli di un’opera non osservata di recente (lo rivela l’incertezza con cui il medico senese descrive il Mondafrutto: nel codice Marciano e in quello Palatino oscilla tra una pera e una mela); dall’altro è utile precisare che nel Sei e Settecento il vocabolario della Crusca conferisce al medesimo sostantivo il significato di “Fanciullo, ragazzo. Non a caso anche Gaspare Celio –come ha riferito Riccardo Gandolfi- definisce “putto” il giovane protagonista del Suonatore di Liuto del Caravaggio».[9]

Concordo ancora con Zuccari quando questi, nel confronto tra la versione londinese e quella fiorentina del nostro dipinto, propende decisamente per l’autenticità della prima, per il sapiente dosaggio dei contrasti luministici, per la sapiente e “morbida” definizione della spalla in primo piano, per il complessivo equilibrio compositivo rispetto alla versione della collezione Longhi, di cui la stessa Mina Gregori, pur convinta sostenitrice di questo dipinto, ha evidenziato “la franchezza quasi giocosa e gaglioffa dell’esecuzione”. Sempre nella tela fiorentina, ad esempio, si può notare la resa troppo netta della ruga profonda che compare al centro della fronte e parte subito prima dell’attaccatura del naso (leggermente più adunco rispetto agli altri due dipinti), terminando sotto la pupilla destra e determinando un vero e proprio solco, senza contorni o sfumature, che non è assolutamente in linea col modo di dipingere caravaggesco; o ancora il deciso contrasto tra luci ed ombre, sia nel volto che nella spalla in primo piano, che è troppo netto e marcato e non in linea col modus operandi del Merisi, e infine i gambi della rosa e dei gelsomini nella caraffa in primo piano, che sono di una fattura ben più grossolana sia della versione londinese che di quella romana.

Al contrario quest’ultima, che io ritengo il prototipo, è invece maggiormente in linea col modo di dipingere del Maestro in persona prima. Innanzi tutto per il volto di straordinaria fattura, minuziosa resa anatomica e sottili giochi cromatici, con le bellissime sfumatura di rosa della guancia destra [fig.5];

Fig 5 Ragazzo morso da una lucertola (Roma coll.privata) Macrofotografia
Fig 5 Macrofotografia a luce radente

quindi per i sottili trapassi di ocra che marcano le pupille, così come per il particolare dell’occhio inumidito dalle lacrime che scendono leggere e trasparenti [fig.6],

Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

vero virtuosismo “alla fiamminga” del tutto assente nelle altre versioni e ancora per il sensuale carminio delle labbra.

Splendida è poi la torsione della spalla abbacinata per tre quarti dalla luce e la cui linearità verticale contrasta con le pieghe ondivaghe della bianca tunica, che vanno appunto nella direzione opposta [fig.7].

Fig 7 Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

Le mani, sia quella in primo piano, sia quella più lontana [figg. 8 – 9]  hanno una loro delicata e insieme pungente eleganza e specie quest’ultima è definita in modo assai più preciso e insieme “morbido” rispetto alle altre due versioni.

Figg 8 – 9 Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

La caraffa piena d’acqua [fig.10] è resa sì con minuzia descrittiva, ma insieme con quel fare “rotondo” che è di Caravaggio e di lui solo e con un virtuosistico trapasso di grigi che è qui più avvolgente e meno meccanico rispetto alle altre versioni, anche a quella londinese, che pure è pittoricamente superiore a quella della Fondazione Longhi.

Fig 10 Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia
Macrofotografia a luce radente

Ancora le ciliegie e la piccola sorba in primissimo piano sono come in bilico, altro segno caratteristico del nostro artista, ed appaiono in effetti meno levigate che nelle repliche, ma proprio per questo potrebbero esserne il prototipo [figg.11 e 12].

Fig 11 Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

Fig 12 Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

L’elemento però che più distingue (anche iconologicamente) il “nostro” ragazzo dagli altri due è soprattutto la rosa recisa al centro del vaso, che sembra quasi fatta di carne ed ha una sua sensualità che svanisce nelle altre versioni, dove essa è già appassita, come vedremo più avanti.

Quanto alla datazione dei due dipinti autografi, quello in collezione privata romana e quello ora alla National Gallery, in mancanza di prove certe dobbiamo affidarci solo all’analisi stilistica e questa mi porta a collocarli a breve distanza uno dall’altro, a ridosso del Bacchino malato e comunque non oltre il 1595.[10] Mentre la replica della Fondazione Longhi, come sostiene anche Zuccari, dovrebbe appartenere ad un pittore vicino alla manfrediana metodus e collocarsi intorno al secondo decennio del Seicento.

Non intendo ora entrare nel merito dell’analisi della sterminata bibliografia che si è occupata delle due versioni note di questo dipinto, per la quale rimando all’esauriente saggio di Beatrice Riccardo su questo stesso numero di About Art;  mi limiterò pertanto a fornire un breve riepilogo di quelle che sono le interpretazioni più accreditate e condivisibili dell’opera, che è sicuramente da intendersi come, ma non solo, un’allegoria della Vanitas e della fugacità dei beni dei terreni, cui però si deve aggiungere anche un profondo sostrato religioso e “cattolico” molto meno indagato dalla storiografia.

Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

Intanto nella nostra versione del Ragazzo morso da una lucertola  (perché, come ho già detto, in effetti di una lucertola e non di un ramarro si tratta) che io ritengo il prototipo, sul tavolo compaiono una sorba, una pera e delle ciliegie di vario colore. Le pere sono presenti anche nella Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana e nella Cena in Emmaus della National Gallery di Londra e sono portatrici di un profondo significato cristologico, ribadito qui dalla presenza delle ciliegie che da sempre sono un simbolo della Passione di Cristo o, se associate alla figura della Vergine, al tema della prefigurazione del futuro martirio. Ma come spesso accade nella simbologia artistica di questo periodo esse possono avere un significato ambivalente e alludere anche, per il loro aspetto e il loro sapore dolcissimo, al piacere dei sensi. E non a caso anche la lucertola può avere una doppia valenza simbolica.

Essa, infatti,

«personifica il desiderio di penetrare la luce dell’aldilà attraverso la morte ed è perciò riprodotta su antichi monumenti sepolcrali e urne cinerarie, anche in relazione ad Apollo Sauoktonos, che acconsente al suo desiderio di morire per mano del dio della luce. In particolare il sonno invernale e la muta regolare costituiscono le basi per la simbologia della rigenerazione, ad essa collegata… Antichi libri tedeschi di animali hanno poi ripreso le esposizioni del Phisiologus sulla lucertola, insieme con l’applicazione pratica di Ugo di San Vittore (De bestis et aliis rebus): “quando la lucertola con l’età diventa cieca, gira la testa verso est, dalla terra o da una fessura del muro e guarda costantemente il sole nascente e ritorna a vedere”…Dunque l’uomo, che ha in sé l’antico peccato, deve convertirsi a Cristo che è il vero sole».[11]

Da questa analisi consegue che la lucertola, nel nostro dipinto, oltre ai più tradizionali riferimenti alla Vanitas, alla caducità dei beni terreni, ecc. ha anche un preciso significato religioso di richiamo al memento mori da un lato ed al valore salvifico della grazia dall’altro. Elementi del tutto assenti anche nella recente interpretazione di Giacomo Berra che interpreta il “dolore” provato dall’innamorato solo in chiave erotica:

«Amore, causando l’improvviso innamoramento, colpisce con le sue armi provocando un’intensa sofferenza nel giovane amante. Questa pena d’amore poteva essere raffigurata, sulla scia di una diffusissima convenzione poetico-letteraria, con diverse immagini: la saetta, il dardo, il dente che feriscono; l’ape che punge; la tarantola, lo scorpione, e la serpe che mordono. Il pittore per le caratteristiche compositivo-formali del suo quadro ha scelto l’immagine di una lucertola che, nascosta tra le foglie e le succulenti ciliegie, simbolo del piacere, morde il dito del giovane il quale, con la rosa tra i capelli, ha tutte le caratteristiche tipiche dell’innamorato».
Ragazzo morso da una lucertola  (Roma coll.privata) Macrofotografia

Analisi che pur contenendo una parte di verità è troppo riduttiva per essere considerata quella da preferire.

Al contrario, infatti, il giovane, che è lo stesso Caravaggio (pur non trattandosi di un vero e proprio autoritratto ma simboleggiando anche l’intera umanità), sta per perdersi, attratto dai piacerei terreni, ma punto dalla lucertola si ritira sconvolto, proprio come se avesse visto in faccia la morte o, il che è lo stesso, stesse già per cadere nell’abisso del peccato. Del resto la lucertola rappresenta proprio la conquista della luce, cioè della grazia, attraverso la “morte”, cioè la rinuncia ai beni terreni ed al dominio dei sensi. Ed il contrasto tra la rosa ancora fresca che il giovane tiene tra i capelli e quella recisa contenuta nel vaso acuisce questa contrapposizione.

Ragazzo morso dal ramarro (part.) Versione Longhi (Firenze)

Mentre nelle versioni di Londra ma soprattutto di Firenze più che un memento mori abbiamo un vero e proprio de profundis, in quanto la rosa della caraffa (specie nella versione Longhi) appare già appassita, come se il destino del protagonista fosse ormai definitivamente compromesso.

Anche in questo dipinto giovanile in collezione privata romana dunque, come poi farà nel Martirio di san Matteo in San Luigi dei Francesi o nel tardissimo David e Golia della Galleria Borghese Caravaggio si raffigura in bilico tra la vita e la morte, la salvezza e il peccato. E la rosa non ancora del tutto appassita, anzi di carnale bellezza, rientra in quest’ottica ambivalente: sta per appassire ma non ha ancora chiuso il suo ciclo vitale, come avviene nelle altre due versioni. In definitiva: nel nostro dipinto l’ammonimento della lucertola è giunto in tempo?  Ed il giovane è intenzionato a seguirlo? Caravaggio non ce lo dice e lascia in bilico anche noi.

Il giovane del nostro dipinto

«racchiude in sé stesso entrambe le raffigurazioni, quella del pervicace peccatore e quella del pentito in cerca della retta via e della luce della grazia. Quale dei due elementi prevarrà noi non lo sappiamo e non lo sapeva nemmeno il grande pittore, se ancora pochi mesi prima di morire non era ancora stato in grado di sciogliere il nodo gordiano che lo ha attanagliato fin dai suoi esordi, quello cioè di essere un peccatore in perenne ricerca di redenzione»[12].

Sergio ROSSI   Roma 27 giugno 2021

NOTE
[1] G. Berra, Il ragazzo morso da un ramarro del Caravaggio. Enigma di un morso improvviso, Firenze 2016, pp. 14-16, cui rimando anche per un’efficace sintesi delle innumerevoli (e a volta cervellotiche, come ammette lo stesso studioso) ipotesi sulla complessa simbologia del dipinto.
[2] M. Marini, Caravaggios “Doppelgänger”. Unbekannte Originale, Zweitversionen und Mehrfachnennungen im Werk Michelangelo Merisis, in Caravaggio: Originale und Kopien im Spiegel der Forschung, Catalogo della Mostra a cura di J. Harten e J.-H Hubert, Düsseldorf 2006, p. 49.
[3] Le due versioni del Ragazzo morso da un ramarro attribuite a Caravaggio, in Il giovane Caravaggio. “Sine ira et studio”, Roma 2018, pp. 65-73.
[4] G. Baglione, Le vite de’ Pittori, Scultori et architetti dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino ai tempi di Papa Urbano VIII del 1642, Roma !642, p. 136, ora in S. Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, p. 323.
[5] G. Mancini, Alcune considerazioni appartenenti alla pittura come diletto di un Gentiluomo (1621 ca.), ed. a cura di A. Marucchi, Roma 1956-57, p.224, ora in Macioce, cit. p. 319.
[6] J. von Sandrart, “L’Academia Todesca della Architettura, Scultura e Pittura, oder Teutsche Academie de Elden Bau-, Bild-und Mahlerey- Künste’, Nürberg 1675, pp. 189 e “Academia Nobilissimae Artis Pictoriae”, Nürberg 1683, p.181, traduzione italiana in Macioce, cit. p.330.
[7] Zuccari, cit. p. 67.
[8] Berra, cit. p. 24.
[9] Zuccari, cit. pp. 66-67.
[10] Anche perché non credo, come ho scritto in tutte le mie più recenti pubblicazioni, che questa sia la data della venuta del Caravaggio a Roma e penso che essa vada spostata almeno all’anno precedente.
[11] G. Heinz-Mohr, Lessico di iconografia cristiana, Milano 1982, pp. 209-210.
[12] Come ho scritto nel mio saggio Caravaggio in bilico tra peccato e redenzione pubblicato il 13 giugno su questa stessa Rivista.