Un appello per Vittorio Sgarbi. Una subdola depressione ha ridotto l’insuperato divulgatore della storia dell’arte in un ‘vir melancholicus’.

di Stefania MACIOCE

Accogliamo con vero piacere questo articolo che la Prof.ssa Stefania Macioce dedica alla figura dell’amico Vittorio Sgarbi, come augurio di una pronta ripresa da una malattia che la studiosa ricostruisce su basi storiche.
Chiunque può sottoscrivere.

Una sequenza di eventi negativi ha coinvolto Vittorio Sgarbi in un vortice nefasto.

L’insuperato divulgatore della storia dell’arte, critico sapiente e personaggio unico, ma anche mattatore di seguitissimi programmi televisivi, è ora caduto in una grave depressione. L’illustre storico dell’arte, una delle menti più brillanti del nostro tempo, colui che ha coinvolto masse di spettatori, non sempre simpatizzanti, con il suo eloquio intelligente, appassionato e provocatorio con personalissime valutazioni sulla cultura, sulla politica e sulla società, è crollato sotto la pressione di uno spietato accanimento mediatico. È cosa nota oggi che personalità scomode vengano prese di mira dalla stampa scatenando sovente una vera macchina del fango che, alla perenne ricerca di scoop, brucia ogni possibiltà di difesa dalle accuse, se non in tempi lunghi.  Le motivazioni della diffamazione sono varie, non sempre fondate, da valutare comunque con estrema cautela. Ogni commento a questo stato di cose, frutto di operazioni dalle finalità nemmeno troppo oscure, è superfluo e amplierebbe i confini dell’analisi al di fuori di quanto concesso in questa sede. Vittorio Sgarbi è noto a tutti per la sua vivacità intellettuale, per l’ampiezza dei suoi interessi, per la sua prontezza dovuta all’irruenza di un pensiero forte nella logica e determinato nella volontà, ma le sabbie mobili della subdola depressione in cui si trova ne hanno fatto al momento un vir melancholicus , confinandolo nella stasi di ogni forma immaginativa e creativa.

Il mondo antico sapeva bene cosa fosse la melanconia, ovvero quella che oggi si definisce depressione, tanto che la scienza moderna ha potuto confermare molte indicazioni su questa penosa patologia dell’anima, derivate dalla medicina antica.  Ai malinconici gli antichi suggerivano di esporsi alla luce solare e di evitare l’oscurità, la scienza ha verificato poi che la luce aumenta la produzione della serotonina, così come la musica vivace, una corretta alimentazione e molto altro.  Aristotele sosteneva che gli individui eccezionali, emergenti in attività filosofiche politiche, artistiche o letterarie, avevano un temperamento malinconico, e tale opinione è stata poi confermata da Cicerone che ascriveva ai malinconici un che di geniale affermando: «ingeniosos melancholicos esse».

Anticamente questa gravosa oppressione dello spirito veniva considerata come una malattia prevalentemente corporea, originata da un eccesso di bile. Secondo la medicina ippocratica infatti il comportamento umano poteva essere alterato da quattro ‘umori’ (ovvero liquidi corporei): bile nera, bile gialla, flegma e sangue; l’eccesso di uno di questi umori poteva determinare una alterazione degli stati d’animo, incidendo sul temperamento dell’individuo. Secondo Plinio il Vecchio, la cura era da riporre nel sapiente uso delle piante.

Gli studi di Klibansky, Panofsky e Saxl [1] cui fecero seguito quelli di Rudolf e Margot Wittkower[2] portarono alla luce una messe di fonti antiche, medievali e rinascimentali sulla dottrina dei quattro temperamenti e le peculiarità delle diverse ’complessioni’ tra cui quella melanconica, dapprima considerata come espressione di temperamenti negativi, ma poi ampiamente riscattata dagli autori rinascimentali.

L’affermarsi della categoria antropologica di melanconia si deve infatti a Marsilio Ficino che, nella Theologia Platonica de immortalitate animorum e nel De vita libri tres, ha consegnato alla tradizione successiva una specifica accezione positiva della melanconia, che in positivo diviene appunto caratteristica del temperamento geniale.

Il cambio di paradigma operato dall’umanista riconosceva nello stato melanconico una via privilegiata alla contemplazione delle realtà divine e, soprattutto, la ragione fondamentale della propensione artistica, ma anche filosofica e speculativa. Da questa nuova prospettiva, le menti eccellenti e le personalità geniali risultavano tali in virtù dell’influsso di Saturno e, quindi, dell’umore melanconico causato dal pianeta. Così l’astro che determinava nell’uomo conseguenze negative, fu considerato come un corpo celeste il cui influsso sull’uomo era quello di esaltare la propria stessa natura. Ficino dunque si distaccava radicalmente dall’interpretazione tardo-antica e medievale circa gli effetti prevalentemente nefasti provocati dall’umore melanconico, per attestare in quell’umore (tipico di diversi artisti) i tratti del genio, dalle straordinarie doti intellettuali e spirituali (persino di preveggenza).

Melencolia I o Melancholia I, la celeberrima e studiatissima incisione realizzata da Dürer nel 1514, offre una trattazione divenuta riferimento canonico per l’accezione del termine malinconia. La figura femminile alata siede con aria pensosa davanti a vari oggetti, simbolo del mondo alchemico.  L’opera infatti rappresenta la complessità del percorso alchemico finalizzato al tentativo di tramutare il piombo (la materia) in oro (la pietra filosofale).  Melancholia I dunque è un ‘immagine emblematica del pensiero dell’artista sull’arte e soprattutto sulla genesi creativa dell’artista vir melancolicus per eccellenza. Dürer dimostra come l’alchimia sia metafora del cammino spirituale verso la conoscenza, indicando un tratto fondamentale delle menti speculatrici come del resto avevano già affermato Boccaccio nel definire Dante «melanconico e pensoso»[3] e Dante stesso nel canto XXI del Paradiso pone le anime speculatrici nel cielo di Saturno.[4]

Sotto l’effetto della malinconia, quando avvolge le menti geniali, si interrompono le frenetiche iperconnessioni del quotidiano determinando la sospensione di un ciclo della vita, in questa fase di doloroso silenzio si creano al contempo i presupposti per una rinascita interiore e per una ripresa della creatività, fortificate da una nuova e consapevole energia vitale.

La melanconia, o depressione, è dunque un oscuro peso che, in varie forme, grava su chi ne è afflitto, fin quasi ad annullarlo: le membra e gli organi si rilasciano rispetto alla naturale tensione; non si percepiscono più i sensi, gli impulsi vitali, le forze immaginative e creative; i pensieri si paralizzano in una coazione a ripetere e ogni volontà è spossata. Nel languire di ogni gioia e stimolo, tutto si rallenta e si disgiunge dalle tre dimensioni delineate da sant’ Agostino: presente, passato e futuro perdono i loro naturali confini. La depressione è uno stato doloroso dell’individuo che vive una non vita ove tutto si è spento. E’ certo che la mente geniale di Vittorio Sgarbi, filtrata da questo doloroso percorso, ritroverà il filo rosso della sua vita, poiché come sosteneva Aristotele gli uomini malinconici sono sempre i più arguti. A volte la nostra luce si spegne, ma viene riaccesa istantaneamente da un incontro con un altro essere umano- sosteneva Albert Schweitzer- ma a volte basterebbe l’incontro con una semplice creatura (forse un micio che faccia le fusa alla porta) a restituire a una giornata oscura la luce del sole.

Certo oggi la frammentata e fragile società italiana ha bisogno più che mai di personalità come Sgarbi, capaci di illuminare l’altra faccia della luna, offrendo motivi per approfondire le conoscenze e i valori che le sottendono che, per pigrizia, disinteresse e purtroppo ignoranza, assai spesso restano avvolte nell’oscurità. Auguri caro Vittorio, ti aspettiamo.

Stefania MACIOCE  Roma  29 Marzo 2025

[1] R. Klibansky, E.Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion, and Art, Nelson, London 1964

[2] Margot WittkowerRudolf Wittkower, Nati sotto Saturno, La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, (1968) Torino, Einaudi, 2018.

[3] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, 1362, XX.

[4]  Paradiso, XXI vv. 43-72.