“Tesori dei Faraoni”. In esposizione 130 straordinari reperti nella grande mostra alle Scuderie del Quirinale (fino al 3 Maggio)

di Nica FIORI

In esposizione pezzi straordinari provenienti dal Museo del Cairo e da Luxor (ma l’allestimento non è esente da critiche).

La civiltà egizia è una delle più affascinanti tra quelle nate nel bacino del Mediterraneo. La sua storia plurimillenaria, le conoscenze tecniche e scientifiche, i monumenti colossali che si ergono in un paesaggio dagli incredibili contrasti e alcuni aspetti della vita quotidiana continuano a suscitare l’interesse di una vasta cerchia di ammiratori, così come avevano colpito l’immaginazione di altri popoli fin dai tempi degli invasori Hyksos, dei Greci e dei Romani. Già allora il nome Egitto evocava non solo l’idea della grandiosità faraonica, ma anche la conoscenza dei misteri della vita e del cosmo, ovvero la perfetta sapienza, come a Roma è stato artisticamente espresso in uno dei monumenti berniniani più curiosi: l’elefantino di piazza della Minerva, che reca sulla sua groppa come simbolo di sapienza un obelisco egizio.

1 Tesori dei Faraoni

Roma ospita nelle Scuderie del Quirinale, fino al 3 maggio 2026, la grande mostra “Tesori dei Faraoni”, curata da Tarek El Awady, già direttore del Museo Egizio del Cairo, e realizzata grazie alla sinergia tra il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano, rappresentato dal Consiglio Supremo delle Antichità, e il Ministero della Cultura italiano con l’organizzazione di Ales e di Mondo Mostre. Sono esposti 130 preziosi reperti, dei quali 108 provengono dal Museo Egizio del Cairo, due manufatti sono del Museo di Luxor e venti sono quelli riportati alla luce durante i recenti scavi condotti sulla riva occidentale di Luxor, nella cosiddetta Città d’oro, da una missione archeologica egiziana diretta dal noto egittologo Zahi Hawass.

Tutti questi oggetti, risalenti ai diversi periodi in cui la civiltà egizia si sviluppò fino a raggiungere livelli di raffinatezza senza precedenti, riflettono la magnificenza, la maestria e la creatività degli artisti e artigiani che ci hanno trasmesso la loro visione religiosa, il concetto di regalità, la vita quotidiana, le credenze magiche e il rapporto con la morte.

A questi reperti si aggiunge una singolare opera proveniente dal Museo Egizio di Torino, la cosiddetta Mensa Isiaca, rinvenuta a Roma nel 1525 e acquistata, dopo alcuni passaggi di proprietà, nel 1626-1630 dal duca di Savoia Carlo Emanuele I. Si tratta di una tavoletta bronzea con intarsi in rame, argento e niello, caratterizzata da raffigurazioni di divinità egizie e segni decorativi, che inizialmente vennero scambiati per geroglifici originali, suscitando enorme interesse tra gli appassionati di reperti antichi: in particolare fu studiata dal Padre gesuita Athanasius Kircher, che è stato il primo studioso delle antichità egizie conservate a Roma, soprattutto obelischi, anche se non riuscì a decifrarne i caratteri geroglifici.

2 Mensa isiaca,Torino, Museo Egizio, foto Nicola Dell’Aquila

Questo oggetto, che si pensa provenisse dall’Iseo Campense (il maggior santuario romano dedicato a Iside, che si trovava in Campo Marzio), è databile forse al I secolo d.C., e potrebbe essere visto come la traduzione visiva delle aretalogie (inni che esaltano le virtù) della dea.

La sua collocazione in mostra alla fine del percorso, in un piccolo focus intitolato “La mensa isiaca: l’antico Egitto tra storia e immaginario”, purtroppo rischia di passare inosservata perché il reperto, già scuro di suo, non è adeguatamente illuminato e quasi scompare nella sala 10, dedicata al concetto di regalità, che espone al centro l’abbagliante maschera funeraria in cartonnage rivestito d’oro del faraone Amenemope (X secolo a.C.), della XXI dinastia, III Periodo intermedio, e sul fondo due importanti gruppi scultorei.

3 Allestimento con al centro la maschera funeraria di Amenemope
4 Triade di Micerino. Il Cairo Museo Egizio. Foto Massimo Listri

Sulla sinistra della sala è collocata la “Triade di Micerino”, realizzata in scisto, che rappresenta il faraone Micerino (XXVI secolo a.C.), della IV dinastia, Antico Regno, noto per una delle piramidi di Giza, con la corona bianca dell’Alto Egitto e il caratteristico gonnellino plissettato che arriva alle ginocchia, tra la dea Hathor e la personificazione del nòmo di Tebe, che si rivolge direttamente al re dicendogli: “Ti ho dato tutto ciò che è nel Sud, tutto il cibo, tutte le offerte…”, come risulta dall’iscrizione sulla base.

L’altro gruppo scultoreo, in granito rosso, rappresenta Thutmosi III e il dio Amon, seduti e con le braccia che si cingono reciprocamente. Thutmosi III (1458-1425 a.C.), della XVIII dinastia, Nuovo Regno, è uno dei faraoni più importanti in assoluto, tanto da essere conosciuto come il “Napoleone d’Egitto” per le sue numerose conquiste militari, anche se inizialmente venne tenuto lontano dal potere dalla zia e matrigna Hatshepsut, la regina che di fatto regnò a Tebe (attuale Luxor) per circa venti anni (fino al 1458 a.C.) ed è nota soprattutto per il suo splendido tempio di Deir El Bahari.  Di lei è presente nella sala adiacente una scultura che la ritrae inginocchiata come faraone, con tanto di barba posticcia, simbolo di potere, il gonnellino e il copricapo khat, decorato con il cobra divino all’altezza della fronte.

5 La regina Hatshepsut inginocchiata, granito rosso, Il Cairo Museo Egizio
6 Ramesse VI con il dio Amon, Museo di Luxor

Un’altra pregevole scultura con un altro faraone proviene dal Museo di Luxor e raffigura Ramesse VI con il dio Amon (XX Dinastia, Nuovo Regno, scisto verde). Questo faraone (1145/4 – 1136 a.C.), in posizione stante con la gamba sinistra avanzata, indossa il copricapo nemes, sormontato dalla doppia corona dell’Alto (bianca) e del Basso Egitto (rossa) e offre una statua di Amon, che poggia su un piedistallo a parte.

Ricordiamo che il concetto di regalità sacra, affermatosi sin dagli albori della storia egizia, intorno al 3200 a.C., fu all’origine di uno dei sistemi di governo più complessi e duraturi mai esistiti, che rimase quasi immutato per oltre tremila anni. Il faraone era considerato dagli Egizi un dio vivente, perché in lui s’incarnava – nel momento dell’incoronazione – la forza vitale degli dei. In veste di Horus, il figlio di Iside e di Osiride che aveva lottato per riconquistare il trono del padre, usurpato dal dio Seth, il sovrano difendeva il trono d’Egitto e, al tempo stesso, garantiva la conservazione dell’ordine cosmico, governando in base al concetto di maat: verità, giustizia e armonia universale.

Alla sua morte, assumeva un’altra forma divina, diventando una manifestazione di Osiride, signore dell’Oltretomba. Il faraone era al tempo stesso figlio di Ra, antichissimo dio del sole, creatore dell’universo e dell’umanità, e come tale aveva il dovere di dimostrare al suo popolo di essere in grado di compiere imprese prodigiose.

Egli deteneva il potere politico, religioso, militare e amministrativo: tutto gli apparteneva ma era distribuito secondo un ordine sociale gerarchico, che permetteva una mobilità tra le classi basata sul merito e sulle capacità personali. Al di sotto del re c’erano gli aristocratici, i sacerdoti e i ministri. La classe media era costituita dagli scribi, soldati e professionisti specializzati, tra cui gli artisti e artigiani.

7 Alcune raffigurazioni di egiziani

Seguivano i contadini, gli operai, i pescatori, i marinai, e infine i servi. Quando la stagione delle piene non consentiva ai contadini di proseguire con il lavoro nei campi, essi contribuivano, insieme agli operai edili, all’edificazione di grandi opere architettoniche per il faraone, sperando in questo modo di ingraziarsi il sovrano, assimilato a un dio, soprattutto in vista del viaggio nella vita eterna.

Quando pensiamo all’antico Egitto, il nostro pensiero corre alla definizione “dono del Nilo”, che gli ha dato Erodoto (V secolo a.C.), perché era dal Nilo che il Paese traeva abbondanza di acqua e di pesce e dalle sue piene derivava la grande ricchezza agricola, dovuta alla fertilità del limo, che vi veniva depositato a ogni piena. Oltretutto il fiume costituiva la principale via di comunicazione tra il nord e il sud e di conseguenza il più rapido mezzo di diffusione culturale. Tra i diversi reperti che illustrano la vita quotidiana del popolo, sono esposti un modellino di barca in legno dipinto dell’inizio del Nuovo Regno, trovato in un pozzo funerario a Saqqara, e due piccole sculture in pietra calcarea dipinta, raffiguranti un Servitore che prepara la birra (Antico Regno, necropoli di Giza) ed Henutsen che macina il grano (Nuovo Regno, necropoli di Giza).

8 Modellino di barca in legno dipinto
9 Servitore che prepara la birra e Henutsen che macina il grano

Anticamente per designare il Paese si usava il termine Kamt, cioè “nero”, che sta a indicare il colore scuro della terra limacciosa lungo il Nilo. Il termine fu poi tramandato ai Greci, ai Romani e agli Arabi come kheme, da cui sarebbero derivate le parole “alchimia” e “chimica”. In effetti gli egiziani erano abili nella lavorazione dei metalli. Come specificato in un pannello, i faraoni introdussero i primi sistemi conosciuti per l’estrazione dell’oro già intorno al 3200 a.C. Una vera e propria mappa topografica dei luoghi ricchi del prezioso metallo è presente in un papiro del XII secolo a.C., conservato a Torino, noto come “Papiro delle miniere d’oro”. Ricordiamo che l’oro si trova ancora oggi in Egitto, in particolare nel deserto orientale vicino alle colline del Mar Rosso e nel sud del Paese.

Ed è proprio l’oro il protagonista principale di questa mostra, a partire dalla prima sala espositiva intitolata “Egitto, terra dell’oro”. Essendo incorruttibile, l’oro era apprezzato per il suo valore simbolico di immortalità ed era appannaggio del faraone, come si legge negli “editti” relativi ai lavori di estrazione incisi sulle rocce vicine alle miniere, ma il sovrano poteva concedere ai nobili il possesso dell’oro, che diveniva quindi simbolo di prestigio sociale. Allo stesso tempo l’oro era utilizzato come riferimento per determinare il valore delle merci.

I faraoni credevano che il corpo degli dèi (in particolare Ra e sua figlia Hathor, spesso definita “la dorata”) fosse fatto d’oro e dunque le statue delle divinità collocate nei templi dovevano essere modellate in oro puro. Probabilmente fu per questo motivo che il nobile metallo divenne un elemento essenziale nella preparazione delle salme mummificate, prima che fossero sepolte nella loro dimora eterna.

Diverse maschere funerarie che coprivano le mummie e perfino i sarcofagi di re, aristocratici e alti dignitari venivano rivestiti d’oro per assicurare la conservazione delle spoglie e oltretutto nelle tombe venivano collocati i meravigliosi gioielli e manufatti dei quali avevano goduto in vita. L’oro venne usato in abbondanza nel Nuovo Regno e in mostra ce lo ricorda il coperchio del sarcofago in legno dorato (XVI secolo a.C.) della regina Ahhotep II (fine XVII o inizio XVIIII dinastia, regno di Ahmose I), che raffigura il volto e il collo della regina con una grande parrucca terminante con due lunghe bande avvolte a ricciolo attorno a un cerchio blu.

10 Coperchio del sarcofago della regina Ahhotep II, Museo Egizio del Cairo

Dalla sua tomba, scoperta dal celebre egittologo Auguste Mariette nel 1859, proviene la straordinaria “Collana delle mosche”, che è la più alta decorazione al valore militare, conferita ai comandanti per il loro valore. Evidentemente questa regina, pur non avendo combattuto personalmente, potrebbe aver svolto un ruolo di rilievo militare durante la guerra di liberazione contro gli Hyksos.

11 Preziosi gioielli, Il Cairo Museo Egizio
12 Grande collare di Psusennes, Il Cairo Museo Egizio Foto Massimo Listri

Questo gioiello è accostato ad altri tesori di arte orafa del Nuovo Regno, tra cui il coloratissimo “Pettorale di Hatiay”, con lapislazzuli, corniola, turchese, ambra e ad altri manufatti di altri periodi, come il pesantissimo Collare di Psusennes I (XXI dinastia, III Periodo intermedio), databile intorno al 1000 a.C. e scoperto nella sua mummia a Tanis nel 1940.

In una delle sale successive, dedicate alla vita dopo la morte, è esposto il pezzo forse più bello di tutta la mostra, il sarcofago antropoide esterno di Tuya, proveniente dalla tomba di Yuya e Tuya (sposa di Yuya), nella Valle dei Re a Luxor. Anche se i due non erano di stirpe reale, vennero sepolti tra i reali in quanto genitori della regina Tiye, moglie principale di Amenhotep III (noto anche col nome grecizzato Amenofi), altro faraone di grandissima fama che ha regnato tra il 1410 e il 1372 a.C., cui si devono tra le altre cose i celebri Colossi di Memnone.

13 Allestimenti mostra Tesori dei Faraoni. Foto Monkeys VideoLab
14 Vaso canopo di Tuya, Il Cairo Museo egizio

Il sarcofago esterno di Tuya (legno dorato con intarsi in vetro azzurro e ossidiana, vetro blu e rosso), miracolosamente sopravvissuto ai saccheggi perpetrati dai tombaroli nella Valle dei Re, presenta varie iscrizioni e raffigurazioni di divinità, tra cui la dea del Cielo Nut che distende le ali per accogliere Tuya, il cui volto con gli occhi aperti contornati di vetro azzurro è stato scelto come immagine guida della mostra.

Fanno parte della sezione un vaso canopo in alabastro di Tuya, quattro vasi finti di Yuya, uno scrigno canopico di Yuya con coperchio spiovente e la statuina di un suo servitore funerario (ushebti) con la relativa cassetta, il letto ligneo dei due coniugi e altri oggetti.

15 Ushebti e il suo contenitore, Il Cairo Museo egizio

Pure in oro è la copertura della mummia del già citato Psusennes I (XXI dinastia, III Periodo intermedio), mancante della parte relativa al volto ma con cinque copridita in oro e altri oggetti preziosi della sua tomba, tra cui un bracciale con scarabeo in lapislazzuli, una cavigliera, un versatoio in oro.

16 Copertura della mummia di Psusennes I, Il Cairo Museo Egizio

 

Altri gioielli ci colpiscono per la loro preziosità e raffinatezza, tra cui un amuleto in oro con il volto di Hathor, proveniente dalla tomba del sommo sacerdote e principe Sheshonq (XXII dinastia, III Periodo intermedio) e un pendente in oro e lapislazzuli, sempre con il volto di Hathor.

17 Pendente col volto di Hathor, oro e lapislazzuli, Il Cairo Museo egizio, foto Massimo Listri

Altri oggetti meno appariscenti, ma di grande interesse culturale sono il papiro con passi del Libro dei morti di una cantatrice di Amon e le stele funerarie in pietra calcarea dipinta.

Proseguendo il percorso al piano superiore troviamo altre stele nella sezione dedicata alla religione, come le stele votive, che venivano offerte alle divinità nei templi o nei santuari sparsi all’interno delle necropoli.

18 Allestimenti mostra Tesori dei Faraoni. Foto Monkeys Video Lab7

Nella Tomba Reale di Tell El Amarna è stata rinvenuta una stele in pietra calcarea dipinta con la raffigurazione del faraone Akhenaton e la sua famiglia in adorazione del dio Aton, ovvero il disco solare (XVIII dinastia, Nuovo Regno).

19 Papiro della Cantatrice di Amon, dettaglio, Il Cairo Museo Egizio

Ricordiamo che questo faraone, che ha regnato inizialmente come Amenhotep IV, era figlio di Amenhotep III e cambiò il proprio nome in Akhenaton, perché convinto che l’unico dio fosse Aton e costruì una nuova capitale, chiamata Akhetaton (ora Tell El Amarna). La sua rivoluzione religiosa, accompagnata anche da una rivoluzione in campo artistico, colpì la potente classe sacerdotale del dio Amon, ma alla sua morte (intorno al 1335 a.C.) i sovrani successivi (tra cui il giovanissimo Tutankhamon) ritornarono al culto di Amon e degli altri dei. La storia di questo periodo, che in campo artistico ha dato celebri capolavori, come il ritratto della regina Nefertiti, conservato a Berlino, e in campo letterario l’Inno al Sole, composto dallo stesso faraone, ha ispirato lo scrittore finlandese Mika Waltari per il suo romanzo Sinuhe l’egiziano (1945), la cui trama fu adattata dal cinema di Hollywood per un film dallo stesso titolo nel 1954.

20 Akhenaton e la famiglia in adorazione del dio Aton, Il Cairo Museo Egizio, foto Massimo Listri

Il faraone Akhenaton si è fatto sempre raffigurare con in mano l’ankh, cioè la chiave della vita, costituita da una croce ansata. Questo è uno dei simboli più frequenti dell’iconografia magico-religiosa egizia e lo portano sia gli dei che i faraoni. Altri importanti simboli religiosi venivano utilizzati come amuleti, tra cui l’udjat, l’occhio sacro che si collega al mito della lotta tra Horus e Seth, il djed, il pilastro simbolo della colonna vertebrale di Osiride e lo scarabeo, simbolo di rinascita.

Una sezione della mostra è dedicata alla cosiddetta Città d’oro, ritrovata nel 2021 dal gruppo di Zahi Hawass, che era alla ricerca del tempio funerario di Tutankhamon, sulla riva occidentale del Nilo, a Luxor. Invece del tempio, fu rinvenuta una città di artigiani, risalente al regno di Amenhotep III e conosciuta nell’antico Egitto come il “Dominio dell’abbagliante Aton”. Gli scavi hanno fatto riemergere gran parte della città, che comprendeva numerose officine per la produzione di amuleti e manufatti in pelle (in particolare sandali), oltre a laboratori di tessitura, cucina e ceramica e una grande fabbrica di mattoni crudi. Questa città fa pensare che il culto di Aton, attribuito esclusivamente ad Akhenaton, fosse stato in realtà già favorito al tempo del padre, anche se Amenhotep III non era certo monoteista come è stato il figlio.

A dispetto dell’oro che abbonda in alcune sale, l’ambientazione della mostra è decisamente lugubre e monotona.

Gli allestitori hanno optato per un contorno in nero, secondo una discutibile moda che rende difficile la lettura di molte didascalie a chi non ha una vista perfetta, e pertanto contraria ai criteri di accessibilità visiva, sostenuti dalla check-list del Ministero della Cultura sulla fruibilità del patrimonio culturale. Tra l’altro vorrei segnalare che le didascalie mancano della data relativa ai reperti, limitandosi a indicare solo la dinastia e l’appartenenza all’Antico, al Medio, al Nuovo Regno e a quelli intermedi, così che il visitatore interessato deve fare una ricerca a parte.

Gli oggetti esposti sono di grande importanza storico-artistica, ma mancano di qualunque ricostruzione del contesto di rinvenimento e le poche foto presenti in mostra sono delle gigantografie in bianco e nero (con un’unica eccezione a colori presso il gruppo scultoreo del sindaco Sennefer con la moglie e la figlia), che non restituiscono la solarità del paesaggio egiziano.

Rifacendomi a quanto affermava il critico d’arte francese Robert de La Sizeranne in Les prisons de l’art (1899), questi reperti decontestualizzati potrebbero essere paragonati a “brandelli di corpi freddi sui lastroni degli obitori”.

Sono oggetti concepiti per trasmettere in eterno la gloria dei faraoni e dell’élite egiziana e certamente suscitano la nostra ammirazione, ma qualche spiegazione in più, come pure qualche raffronto con altre opere avrebbero reso il tutto più comprensibile. Apprezzabile, invece, è il bel catalogo (edito da Allemandi, 39 euro), il cui testo è a cura di Zahi Hawass, mentre le foto sono di Massimo Listri.

21 Allestimenti-mostra-tesori-dei-faraoni-Foto Monkeys Video Lab7

Una cosa che avrebbe meritato di essere affrontata in mostra, magari in un’apposita sezione conclusiva, è il rapporto dell’Egitto con Roma, accennato soltanto vagamente nell’esposizione della “Mensa isiaca”, proveniente dal Museo Egizio di Torino. Non dimentichiamo che l’egittomania nacque proprio nell’Urbe quando i Romani, con la conquista della Valle del Nilo nel I secolo a.C., si lasciarono a loro volta conquistare dalla sua civiltà plurimillenaria. Nonostante gli strali lanciati dai letterati più tradizionalisti contro la corruzione dei costumi che veniva dall’Oriente, l’arte e il gusto egizi ebbero una larga presa su Roma, paragonabile soltanto con l’égyptiennerie che dominò la Francia dopo la spedizione napoleonica sulle rive del Nilo: basti pensare alla realizzazione di alcune tombe a forma di piramide, delle quali è sopravvissuta solo la Cestia, all’erezione di numerosi obelischi e ai santuari dedicati alle divinità importate dall’Egitto. Alcuni musei romani, come pure la vicina Villa Adriana, possiedono diversi manufatti che avrebbero potuto entrare in dialogo con gli oggetti esposti: un esempio potrebbe essere la Sfinge di Hatshepsut del Museo Barracco, che, stranamente, non viene neanche citata nel catalogo. Eppure si tratta di un reperto raro, in quanto sopravvissuto alla vandalizzazione e distruzione delle immagini della regina-faraone dopo la sua morte (1458 a.C.), forse in una sorta di damnatio memoriae ad opera del successore Thutmosi III, anche se le ultimissime scoperte nell’area di Deir El Bahari mettono in dubbio che possa essere stato lui.

Nica FIORI  Roma 2 NOvembre 2025

“Tesori dei faraoni”

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio, 16 – Roma

Dal 24 ottobre 2025 al 3 maggio 2026

Orari: dalle 10 alle 20 (ultimo ingresso ore 19)

Sito ufficiale: http://scuderiequirinale.it