Smontata una pretestuosa polemica anti Bergoglio: il “Presepe Castelli” è un’opera d’arte

di Sergio ROSSI

Il Presepe esposto quest’anno in Piazza San Pietro e proveniente dal piccolo centro abruzzese di Castelli [fig.1], con le sue statue di ceramica che si discostano dalle più convenzionali raffigurazioni del tema sacro e con i suoi riferimenti alla contemporaneità ha scatenato in effetti un mare di polemiche e di reazioni scomposte e indignate che sicuramente gli organizzatori dell’evento non si aspettavano.

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La realtà, però, è assolutamente opposta a quella che è stata rappresentata da questi detrattori dell’ultima ora e su di un punto vorrei proprio tranquillizzarli: questo non è assolutamente un “presepe comunista”; l’Armata bolscevica, dopo aver guadato il Volga, non ha ancora fatto lo stesso col Tevere e Piazza San Pietro non è ancora una succursale della Piazza Rossa con il presepe di cui sopra al posto del Mausoleo di Lenin.

Ma la cosa più assurda è che l’oggetto scelto per colpire il Pontefice, vero punto di caduta di tutto questo trambusto, non ha nulla a che vedere con il sinodo dell’Amazzonia, con la Pacha Mama e via discorrendo (cioè quelli che sono considerati i peggiori delitti bergogliani), perché è un presepe fatto da degli studenti liceali abruzzesi tra il 1965 ed 1975 e dunque tutti i polemisti di cui sopra, come è evidente ma come ora preciserò meglio, hanno sbagliato completamente bersaglio. A dimostrare che si tratti di un’esposizione che voleva essere in origine priva di connotazioni politiche vi è poi l’elenco delle autorità che hanno presieduto alla sua inaugurazione: il card. Giuseppe Bertello, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; il vescovo di Teramo-Atri, mons. Lorenzo Leuzzi; il commissario straordinario per la ricostruzione post-sisma, Giovanni Legnini; il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia ed il presidente della provincia di Teramo, Diego Di Bonaventura, anch’egli del centro destra.

Comunque è indubbio che quello che è stato esposto in piazza San Pietro quest’anno, come ha scritto Marco Calvarese (SIR, 12/12/2020): «non è un Presepe per tutti ed è un’opera d’arte che ha voglia di essere scoperta. Legata alla tradizione della natività di Gesù Cristo, ma affacciata alla società moderna con i personaggi che interrogano la storia, richiamando alla mente la conquista della luna, il Concilio Vaticano II e l’abolizione della pena di morte. Non basterà fermarsi un attimo, guardare se il bambinello è bello o no [fig.2], poi girarsi di spalle e farsi un selfie con in mano il cellulare, ma servirà fermarsi un po’ più a lungo per cercare di capire meglio quelle figure in ceramica che assalgono chi guarda e gli puntano dritte contro.

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Raccolto tra le montagne e il mare, caratteristica della piccola Castelli, punto di riferimento della ceramica internazionale, il presepe monumentale dell’Istituto statale d’arte “F.A. Grue” ha alle spalle la sagoma luminosa del gigante che dorme, come viene chiamato il Gran Sasso dagli abruzzesi, e davanti invece il mare Adriatico, vicini tra loro come anche la natura li ha creati.

«Piazza San Pietro torna a “fare rumore per alcuni” e ancora una volta per l’arte che accoglie, come è stato per la scultura Angels Unawares di Timothy Schmalz, dove, tra i tanti migranti e rifugiati, c’è anche la Sacra Famiglia, illuminata nel dettaglio per l’occasione natalizia. Ma non è proprio questo lo scopo dell’arte da sempre? Un’opera realizzata nel 1965 e completata nel decennio seguente, in una piccola località abruzzese dove Carlo Levi si fermò ammirato davanti al soffitto della chiesa di San Donato e la definì la “Cappella Sistina della maiolica”, ancora oggi crea attenzione e pone interrogativi ad una società che corre così veloce».

Entrando più nel dettaglio, i docenti-scultori che hanno lavorato alla realizzazione di questa monumentale opera (54 statue in ceramica a grandezza naturale) sono stati Gianfranco Trucchia, Daniele Guerrieri, Roberto Bentini, con la collaborazione di Francesco Mancini, Vincenzo Spinelli, Lucio Fieni, Eugenio Volpe. Ma soprattutto è un Presepe cui hanno attivamente lavorato anche gli studenti che si sono succeduti nella scuola in quel decennio e che

«non solo assistevano il Maestro, ma partecipavano anche al lavoro, intervenendo nelle parti più decorative dopo l’abbozzo da parte del docente o svolgendo attività complementari, come la preparazione dei lucignoli utilizzati per la realizzazione delle capigliature dei personaggi o il manto degli animali».[1]

Lunga è poi la serie dei luoghi in cui l’opera è stata esposta, sempre con grande successo e senza le polemiche strumentali di quest’anno, a partire da quella iniziale della stessa Castelli, sul sagrato della chiesa madre di San Giovanni Battista del 1966, quando ancora erano state realizzate poche statue. Anzi qualche polemica in effetti vi fu, come quella del barbiere del paese: “Belle! Belle! Vulosse vedà se te nasciosse nu fije cuscìe (Bello! Bello! Vorrei vedere se ti nascesse un figlio così)”, che almeno aveva il pregio di essere una critica nel merito e non alimentata da pregiudiziali ideologiche.

Nel natale del 1970 l’opera è stata presentata a Roma nella sede dei Mercati Traianei e così acutamente commentata da Cesare Vivaldi:

«Il Presepe di Castelli è davvero uno straordinario monumento; tanto più straordinario in quanto, essendo stato elaborato attraverso gli anni, risente di influenze diverse ed è il portato di orientamenti stilistici diversi. Se infatti i pezzi più antichi sono di sapore vagamente martiniano e possono far pensare a un ceramista come Melandri ‘virato’ nel popolaresco, i pezzi più recenti si richiamano al neo barocco novecentesco e all’informale, a scultori in maiolica come Gambone e Leoncillo o addirittura al più arduo Fontana o a Zauli. Giocate come sono sui bianchi e sui grigi le ultime statue del presepe appaiono di estrema finezza e sobrietà formale, impressionanti anche in un contesto impressionante come la vasta rappresentazione castellana».[2]

Quindi si sono susseguite le esposizioni di Betlemme (Natale del 1976, chiostro francescano di san Gerolamo); Gerusalemme (gennaio del ’77 sala grande dell’Associazione Cristiana dei Giovani) ed infine al museo Haaretz di Tel Aviv.

Successivamente, per evitare ogni rischio di danneggiamento del delicato materiale, la direzione dell’Istituto Grue di Castelli, dove il Presepe è esposto in permanenza, ha deciso di limitarne al massimo gli spostamenti, con le eccezioni del natale del 2003, sempre presso il sagrato della chiesa Madre di Castelli; del luglio del 2009 a L’Aquila in occasione del G8 e infine di quest’ultimo Natale a piazza San Pietro, dove però è stato esposto solo un numero molto ridotto di statue. E pur comprendendo le esigenze di tutela dei singoli pezzi, devo dire che questa scelta, insieme a quella improvvida di racchiudere il monumento in un contenitore veramente inadeguato, ha contribuito a far sì che il Presepe, che visto nel suo insieme può considerarsi come uno dei capolavori della ceramica novecentesca, così ridotto e quasi sparuto nell’enorme piazza, abbia finito col perdere parte del suo fascino.

Quest’ultimo deriva anche, come ha ben osservato Cesare Vivaldi, dal fatto di essereil portato di orientamenti stilistici diversi” che hanno poi trovato un’opportuna amalgama nell’abilità tecnica degli esecutori. Inoltre possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una sorta di storia dell’arte universale in miniatura, con certi pezzi (penso allo stesso Giuseppe [fig.3],

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ai re Magi, alle Dame, alle popolane, ai musicanti) che affondano addirittura le loro radici nell’arte sumerica, micenea, egizia, naturalmente rivisitate in un’ottica contemporanea; altri, come i guerrieri, hanno già un potenza barbarica e medievale [fig.4]; altri ancora, infine, come i Profeti [fig.5] o il potentissimo boia [fig.6] hanno un’essenzialità astratta tutta novecentesca.

Quanto ai contenuti dell’opera è indubbio che essa risenta delle posizioni “conciliariste” (e non uso questo termine come un insulto, come hanno fatto molti detrattori del monumento) proprie degli anni in cui essa è stata concepita.

 

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Baldassarre, ad esempio, ha i tipici tratti di un africano sub sahariano riportandoci così al tema delle migrazioni senza controllo [fig.7];

uno dei condannati a morte, con la kefiah bene in vista, è a tutti gli effetti un profugo palestinese; gli aspetti truci dei guerrieri e del boia sottintendono una condanna esplicita della pena capitale e delle guerre; l’astronauta che omaggia il Bambino vuole invece essere un auspicio della scienza posta al servizio dell’umanità. Tutti sentimenti nobili e condivisibili, magari espressi con un tono a volte un po’ enfatico ed ingenuo, ma non dimentichiamoci che sono sempre nati del contesto di un Liceo artistico che coinvolgeva direttamente i giovani studenti. E vorrei vedere che in una scuola di secondo grado di insegnasse invece ad essere favorevoli alla pena di morte, alle discriminazioni razziali, alla violenza ed alla sopraffazione dei più deboli!

Ma parliamoci chiaro e diciamolo fuori dai denti, anche se può sembrare assurdo: se nel 2019 non ci fosse stato il sinodo sull’Amazzonia tutte le polemiche sul nostro Presepe, che naturalmente con tutto questo non c’entra niente, come ho più volte sottolineato, non ci sarebbero state. Senza voler aprire una parentesi che ci porterebbe troppo lontano voglio però citare, per riportare la questione nei suoi giusti termini, quanto ha scritto in un articolo per L’Osservatore Romano in edicola con la data del 13 novembre del 2019 il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas (Messico), mons. Felipe Arizmendi Esquivel, ritornando su una questione che pretestuosamente era stata cavalcata in maniera polemica contro il Papa e il sinodo sull’Amazzonia:

«Le statuette Pachamama non sono dee; non c’è stato alcun culto idolatrico. Sono simboli di realtà ed esperienze amazzoniche, con motivazioni non solo culturali, ma anche religiose, ma non di adorazione, perché questa si deve solo a Dio … Grande scalpore – ricorda infatti il presule messicano – hanno suscitato le immagini o figure utilizzate nella cerimonia nei giardini vaticani all’inizio del sinodo pan amazzonico e nella processione dalla basilica di San Pietro all’Aula sinodale, alle quali ha partecipato Papa Francesco, e poi in altre chiese di Roma. Alcuni condannano questi atti come se fossero un’idolatria, un’adorazione della ‘madre terrà e di altre ‘divinità’. Non c’è stato niente di tutto ciò».

Il vescovo spiega queste sue affermazioni con l’osservazione diretta dei costumi degli indigeni, di cui ha condiviso la vita per molti anni:

«Nella mia precedente diocesi – scrive – quando sentivo parlare con grande affetto e rispetto della “madre terra”, provavo disagio, perché mi dicevo: “Le mie uniche madri sono la mia mamma, la Vergine Maria e la Chiesa”. E quando vedevo che si prostravano per baciare la terra, provavo ancora più disagio. Ma convivendo con gli indigeni ho capito che non l’adorano come una dea, ma la vogliono valorizzare e riconoscere come una vera madre, perché è la terra a darci da mangiare, a darci l’acqua, l’aria e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere: non la considerano una dea, non la adorano, le esprimono solo il loro rispetto e pregano rendendo grazie a Dio per essa».

Sono del resto convinto della necessità di comprendere le radici profonde di certe credenze autoctone che bisognerebbe avere l’intelligenza di accogliere ecumenicamente e non respingere aprioristicamente. E visto che a me piace parlare di argomenti che conosco, a differenza dei tanti che si sono espressi sul nostro Presepe senza sapere nemmeno di cosa si trattasse, voglio aprire una breve parentesi relativa a quel singolare movimento artistico che va sotto il nome di Scuola di Cuzco e che ha improntato l’arte peruviana (e andina in genere) almeno dal XVI al XVIII secolo.

Si tratta di un fenomeno collettivo di espressione artistica importato nel secondo Cinquecento dai dominatori spagnoli e dove all’interno delle tradizionali forme religiose cattoliche si inseriscono elementi culturali propri dei nativi, creando così un’arte che fa del sincretismo, estetico e religioso, il proprio segno distintivo. Infatti la visione cattolica dei conquistatori, che indicano nell’ascesi mistica la via per la salvezza dell’umanità si incardina nella visione indigena panteista legata alla terra, alla natura, alle feste, ai riti sontuosi, all’appagamento dei sensi.

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Da questa mescolanza nascono una serie di sorprendenti dipinti che introducono nelle più tradizionali scene tratti dai Vangeli fiori, piante, animali, cibi, costumi, propri degli indigeni o dei conquistatori spagnoli, come in questa deliziosa Fuga in Egitto di Diego Quispe Tito (1611-1681), dove la Vergine è riccamente vestita e S. Giuseppe, come del resto in tutte queste raffigurazioni, è molto più giovane rispetto alla analoghe scene europee [fig.8].

Si prenda ancora il tema dell’Ultima cena, di cui forse l’esempio più famoso, ma non certo l’unico, è quello di Marcos Zapata (1710-1773) nella cattedrale di Cuzco. Qui, al centro della tavola bandita, al posto dell’agnello compare il gustosissimo cuy, il porcellino d’India che è uno dei piatti pregiati della cucina peruviana; al posto del vino gli Apostoli bevono la chicha morada, bevanda tipica del paese, fatta a base di mais fermentato; e infine, sparse qua e là sulla tavola, anche se non ben visibili nella riproduzione fotografica, vi sono alcune foglie di coca, mentre nelle vesti di Giuda è raffigurato il famigerato conquistatore Hernán Cortés [fig.9].

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Altra iconografia del tutto particolare è quella che unisce i soggetti della Madonna del Latte e della Carità romana in numerosi dipinti come questo di Ignacio Chacón (17745-1775) nel Convento de la Merced sempre a Cuzco [fig.10].

La Vergine, oltre ad allattare col seno destro il Divino fanciullo offre infatti l’altra mammella a San Pedro Nolasco, il fondatore dell’ordine dei Mercedari, molto diffuso in America Latina. Nato con lo scopo prevalente di liberare dalla schiavitù i cristiani catturati dai mussulmani, l’ordine ha infatti esteso la sua missione all’aiuto dei carcerati e delle loro famiglie, alla cura degli infermi e all’alloggio dei pellegrini, a mettere cioè in pratica le sette opere di misericordia. Di tutt’altro genere, ma sempre espressione di un curioso sincretismo è l’iconografia dell’Angel Arcabucero, che mostra l’arcangelo Uriel (angelo della luce) nelle vesti di soldato e ufficiale dei Terzi (cioè moschettieri) spagnoli ed è raffigurato nel momento del caricamento della polvere da sparo nel trespolo del suo archibugio.

E per rimanere nel tema di come l’incontro tra religione cattolica e usanze locali può dar esito a fenomeni veramente curiosi voglio citarvi il caso della mia sorpresa nel notare come in alcune chiese colombiane, specie se lontane dai centri abitati se non proprio sparse nelle campagne, le statue lignee di Sant’Antonio, molto diffuse, avevano spesso le braccia o le mani troncate di netto. E la guida locale mi ha spiegato che i fedeli del posto, in prevalenza contadini, che si recano confidenti ad invocare l’aiuto e la grazia da Sant’Antonio, anche portando piccoli doni, se non vengono esauditi nelle loro richieste si vendicano mutilandone la statua.

Sono solo esempi sparsi di quello che è certamente un fenomeno di più vasta portata e che non riguarda certo solo l’America latina, ma che servono a dimostrare come l’ecumenismo ed il proselitismo dovrebbero nutrirsi di tolleranza e comprensione delle culture locali e senza di esse non possano andare lontano.

Per concludere e tornando al Presepe di piazza San Pietro da cui siamo partiti, tolleranza, ecumenismo, spirito di solidarietà, sono valori che quest’opera vuole rappresentare e che in un momento difficile come questo risultano particolarmente importanti e condivisibili; ed anche il fatto che siano stati espressi attraverso uno stile innovativo e non convenzionale, ma mai blasfemo o irriguardoso, costituisce un pregio e non un difetto. Pertanto solo una visione miope e piccina della religiosità che rifiuta tutto quello che si discosta da un piatto conservatorismo può avere generato tutte le critiche pretestuose cui questo Presepe è stato sottoposto. Certo può non piacere, ed a molti non è piaciuto, ma le contestazioni accettabili sono quelle che entrano nel merito e non quelle espresse solo in base ad anacronistici pregiudizi ideologici.

Sergio ROSSI    Roma 31 gennaio 2021

NOTE

[1] G. Giacomini, Il Presepe di Castelli. Poesia in ceramica, Castelli 2020, p. 23.

[2] ibidem, p. 27.