di Lori FALCOLINI
“L’artista sa porci a contatto col mistero presente anche in ciò che appare banale perché abituale…permettendo a tutti noi di incontrarlo in modo nuovo ogni volta.” (Risonanze. Tra pittura e psiche, Paolo Aite).
È in corso a Roma presso l’Accademia Nazionale di San Luca la mostra Una storia nell’arte. I Marchini tra impegno e passione, un dialogo che intreccia le opere di settantasette artisti con le raccolte e gli spazi suggestivi di Palazzo Carpegna nello spirito di una famiglia straordinaria e di una galleria storica di Roma, La Nuova Pesa, fondata da Alvaro Marchini e diretta oggi da Simona Marchini. Padre e figlia con la stessa vitalità e l’identico sentimento ispiratore.
L’esposizione – cui About art ha dedicato già la dovuta attenzione (Cfr https://www.aboutartonline.com/una-storia-nellarte-allaccademia-di-san-luca-in-mostra-la-collezione-marchini-tra-impegno-e-passione/ inizia nella sale della Galleria Accademica al terzo piano articolandosi in suggestive sezioni, si arricchisce di fotografie documenti ed opere in scena lungo l’elegante rampa elicoidale di Palazzo Carpegna e prosegue fino alle sale del pianterreno. Un lungo percorso d’arte e di vita composto da esponenti dell’arte moderna e contemporanea e la famiglia Marchini. Tante e importanti le opere presenti: Balla, Carrà, De Chirico, Guttuso e poi Raphaël, Léger, Savinio, Magritte, Patella, Salvatori e tanti altri artisti fino ad Araki, Nagasawa, Scialoja, Zaza.
L’intervista con Simona Marchini, gallerista e protagonista a tutto tondo nel mondo dell’arte, si svolge presso La Nuova Pesa.
-Simona Marchini, com’è nata la sua passione per l’arte?
R: Da sempre ho vissuto vicino all’arte, come anche mia sorella, perché mio padre aveva un atteggiamento di grande curiosità, amava ogni forma d’arte e ci ha naturalmente contagiato, come anche mia madre; a casa venivano gli artisti. Quando mio padre aprì La Nuova Pesa nel ‘59 c’era una grande coesione tra tutti gli artisti, non soltanto tra i suoi amici della “scuola romana”, la componente diciamo figurativa; c’era una complicità sostanziale, più ideale che ideologica e che superava quindi le differenze di ricerca artistica. Roma era piena di fervori, era un punto d’incontro internazionale, arrivavano gli artisti da tutto il mondo, aprivano le gallerie straniere e quindi noi respiravamo quest’aria. La Nuova Pesa di mio padre ospitava mostre di artisti straordinari grazie anche all’amicizia con Kahnweiler che era un grandissimo mercante dei cubisti. Nacquero così la mostra di Picasso, di Juan Gris, di Léger, una mostra clamorosa perché Kahnweiler non aveva mai voluto darla a certi mercanti italiani ma a mio padre sì, perché tra loro c’era stima e amicizia. La passione apriva le porte a mio padre. Si fecero tante mostre dei figurativi di cui Guttuso era il “padre” ma anche mostre di grande apertura come quella di Nathan. A Roma, in quel periodo, era molto viva l’attenzione all’arte.
-Mi sembra che le fotografie costituiscano il filo più emozionante di questa mostra straordinaria.
R: Sì, un aspetto particolarmente interessante di questa mostra, a parte la qualità delle opere, è la cronaca di quello che è stato. Questa famiglia curiosa che partiva da Moiano, sezione di Città della Pieve, con questo nonno prima socialista, poi comunista, che aveva costruito la Casa del Popolo, l’input alla cultura lo studio la conoscenza, un umanesimo vissuto. Poi arrivò il fascismo, distrussero la Casa del Popolo e misero in galera mio nonno per qualche giorno e poi lui partì da Moiano con tutta la famiglia e si trasferì a Roma. Mio padre e mio zio sono stati due medaglie d’argento della Resistenza … Il loro era un modo di stare al mondo, sempre accompagnato dal piacere di fare vivere l’arte. I Marchini erano costruttori importanti, rispettati; sul piano politico erano dei mediatori perché quella era un’epoca di compromessi necessari ma, soprattutto, c’era l’intento comune di fare rinascere questo paese ed un grande rispetto reciproco tra i partiti. Il pubblico della Nuova Pesa era quindi eterogeneo; la mostra era un rito collettivo e sociale, c’era una borghesia colta, appassionata, c’era poi un mercato vivace. La galleria ha avuto una vita molto interessante, intensa, piena, di grande qualità, però negli anni di piombo cominciò la paura dei rapimenti, i problemi professionali così nel ‘76 mio padre con grande pena decise di chiudere la galleria. Noi giravamo con la scorta perché eravamo considerati un bersaglio così ci trasferimmo a Londra per un paio d’anni, poi tornammo. Passarono parecchi anni, La Nuova Pesa violentemente sospesa mi era rimasta nel cuore così nell’85, nonostante le complicazioni di quegli anni, decisi di riaprire la galleria con grande coraggio. Questo spazio è nato subito come luogo dei linguaggi perché immediatamente sono venuti giovani artisti tra cui Arnaldo Colasanti che lavorava con Siciliano a Nuovi Argomenti e faceva parte di un gruppo molto vivace di artisti, i Nuovi Nuovi. Venne ad incontrarmi per chiedere ospitalità ed io dissi subito di sì. Da allora non ci siamo più lasciati; siamo un piccolo gruppo di tre o quattro persone che comprende artisti e scrittori, decidiamo insieme, lavoriamo insieme anche perché io sono molto presa dal lavoro di attrice.
-Il dialogo, la relazione è il messaggio di questa mostra?
R: Io credo che i problemi più grandi della società siano i pregiudizi, le ideologie, tutto ciò che crea una barriera, un disagio ed anche una impossibilità evolutiva dei rapporti. Il dialogo ci appartiene come educazione al sentimento ed anche come principio di vita. Poi, naturalmente, puoi rivedere le tue idee, l’esperienza ti guida, però sostanzialmente amiamo qualcosa che nutre i sentimenti, le idee, le idealità. Mia sorella ha aperto un teatro per bambini meraviglioso tirando fuori il suo talento creativo. Lei realizza costumi bellissimi, costruisce pupazzi. Ognuna di noi ha espresso in forme diverse questo spirito di curiosità, di entusiasmo per tutto ciò che viene dal cuore e dalla testa.
-Le sue parole mi fanno pensare a come Jung definisce in Tipi Psicologici il sentimento: pensare con il cuore.
R: Credo di essere una persona che pensa con il cuore, così come i miei genitori, mia sorella o le persone belle che ho intorno. È il sentimento che ci muove e che prima muoveva il mondo intorno a me. Il poverello che bussava alla porta di casa, veniva accolto come un ospite. C’era un’idea di amore e di accoglienza che sono poi valori cristiani nel senso profondo del termine. Mi viene in mente una battuta di Gigi Magni. Un giorno il sacerdote della Chiesa degli Artisti, un uomo molto aperto e intelligente, gli ha detto: “Scusa, Gigi, tu praticamente parli come un cristiano ma allora come mai sei comunista?” E Gigi ridendo: ”Sai che c’è? Io so’ comunista da sessanta anni ma so’ cristiano da duemila”. Il sentimento è il mio modo di affrontare la vita. Negli anni si sono accumulate ovviamente le disillusioni, le disavventure, la delusione di gente che cresce poco e magari si approfitta e basta (ride); però, se faccio oggi un bilancio della mia vita, mi sento pacificata con il mondo.
-Cosa vuol dire pensare con il cuore applicato al suo lavoro di gallerista?
R: Intanto vuol dire molto semplicemente accogliere gli artisti che sono oggetti e soggetti d’interesse perché comunque contengono qualcosa di misterioso che è la capacità di esprimere una creatività, che è una scelta di segno, di espressione, di raccontarsi, di manifestarsi in un modo o nell’altro, però sempre sentimentale.
Le mostre “miracolose” di Rebecca Horn e Jannis Kounellis ed anche la mostra di De Dominicis, che purtroppo dopo due anni è morto, sono nate da un rapporto di affetto, di affinità. Il sentimento è un veicolo di approccio ed anche di apertura, come se fosse una chiave. Kounellis non aveva alcun motivo di fare una mostra qui, però ci frequentavamo, ci volevamo bene con lui e la moglie e una sera mi ha detto: ”Che mostra ti piacerebbe fare?”. “Bé, la tua” ho risposto ridendo e allora lui: ”E allora la facciamo.” Questi doni di stima e di affetto che ancora oggi tocco con mano sono venuti da lì.
–Nello spettacolo teatrale La mostra di Gigi Proietti lei diceva che l’arte è tutto ciò che non è ovvio, scontato, convenzionale; è una sensibilità che si ha ma che si esercita, si affina. Anche la sua, come gallerista?
R:Sì senz’altro. Quand’ero bambina in casa vedevo soprattutto quadri figurativi, crescendo sono ovviamente venuta in contatto con altri linguaggi, però li ho accolti. Quando vedevo un Kandinskij o un Klee sentivo che qualcosa dentro di me vibrava. Io dico che il quadro ti chiama. Nei musei, dopo tre o quattro sale io comincio ad essere stanca perché il “sentire” è impegnativo sul piano energetico.
–Una galleria d’arte è un osservatorio privilegiato sull’arte. Secondo lei, come sta cambiando l’arte contemporanea?
R: Diciamo che i tempi sono andati modificandosi quindi è cambiato il mondo rispetto all’arte. L’America è sempre la partenza di tutti i mali (ride) o quasi! Chi è più forte economicamente finisce anche per decidere, quindi si sono centuplicate le fiere, le aste, i grandi mercanti sono associazioni di capitali sempre più grossi e aprono gallerie in tutto il mondo. Quindi, c’è stata una modificazione profonda del mercato dell’arte. Da noi, prima, il mercato non era debole perché c’erano collezionisti straordinari anche molto lungimiranti, anche i grandi industriali avevano imparato ad apprezzare l’arte ma, oggi, un collezionista ricco – anche per essere nell’attualità- se ne va in giro per fiere, compra all’estero. La Transavanguardia in Italia ha segnato questo spostamento; non che fossero artisti di serie B, erano buoni artisti, però si sono messi insieme un grande mercato e un grande critico e hanno creato il fenomeno. Tra le giovani generazioni di collezionisti, alcuni sono rimasti appassionati, molti rispondono a logiche di mercato. Il 90% si orienta da quella parte perché il mercato è più forte di tutti. Anche Londra è irriconoscibile, si è adeguata. Si è creato un sistema. È come vendere la Coca Cola (ride) che fa pure malissimo ma ci hanno tanto martellato che la beviamo.
–L’arte ha una funzione terapeutica secondo lei?
R: Sì, sempre. Con i giovani che vengono in galleria io parlo d’amore che è anche trovare la bellezza, il contatto. L’arte fa bene perché stimola, mette in moto qualche cosa. L’arte è anche quella di vedere il vicino e parlarci (ride). Sembra un discorso da parroco di campagna! Io avevo fatto un progetto per le scuole, ero anche andata a parlare con Anna Ascani, per aggregare i ragazzi in attività creative che potessero divertirli come la danza, la musica, la recitazione, il canto. Proponevo anche di portarli a visitare gli studi degli artisti, le gallerie cioè di metterli a contatto con l’arte. Io conosco insegnanti straordinari, professionisti seri, capaci e appassionati del loro lavoro. Perché la passione è la cosa più importante.
–Passiamo dal suo lavoro di gallerista a quello di attrice. In Mine Vaganti, opera teatrale di Ferzan Ozpetek, lei interpreta il ruolo della nonna, un personaggio aperto alle differenze in un contesto conservatore. Cosa ci mette di suo?
R: C’è molto di mio. All’inizio, io ero molto indecisa, venivo da un anno terribile ma questo personaggio mi piaceva molto, lo avevo visto a cinema nell’interpretazione di Ilaria Occhini. Hanno insistito, così io ho deciso di accettare perché ho pensato che avessimo molte cose in comune io e questa nonna. Lei è una donna coraggiosa, solida, con questo amore parallelo per il fratello del marito, è aperta, sensibile; il fatto che lei si suicidi con i dolci – è diabetica- per salvare l’azienda familiare è una cosa che io capisco. L’amore che esprime questo personaggio non è soltanto quello per il cognato, è un amore per proteggere la vita, per farla durare nelle persone che ama. L’ho sentita molto vicina anche perché i miei affetti familiari sono radicati come anche quelli amicali. Amo tutto ciò che crea vita, che crea una possibilità anche per l’altro. È come avere una fonte dentro che devi in qualche maniera orientare. Così questo personaggio mi è piaciuto molto e sto scoprendo che ho un grande successo – naturalmente tutto lo spettacolo funziona benissimo, abbiamo sempre il teatro esaurito- le persone mi applaudono, mi aspettano fuori dal camerino per salutarmi, anche i giovani. La sento molto questa nonna, essendo io stessa nonna. Essere nonni è stupendo, si perde veramente la testa per i nipoti!
Lori FALCOLINI Roma 10 Aprile 2022