Si apre il Conclave: un compromesso tra le varie anime del Collegio Cardinalizio? “Stavolta potrebbe essere la via meno facile”.

di Chiara GRAZIANI

dalla Sala Stampa Vaticana

Imprevedibile come mai nella storia della Chiesa, il collegio cardinalizio più vasto ed internazionale di sempre, è attraversato da due opposte, estreme, pulsioni. Rompere l’ultimo cancello e uscire nel mondo – sale evangelico  e lievito dell’intera  fraternità umana sognata e predicata da Papa Francesco – o proteggere la Chiesa come da secoli la conosciamo, pur se arata e seminata dalla rivoluzione ancora incompiuta del Concilio Vaticano II. Custodi versus profeti, torri versus reti, nel Dna della Chiesa per tradizione emerge il compromesso, soprattutto nella scelta del “successor di Pietro”. Ma stavolta la potenza del processo dal basso messo in moto dal gesuita che si chiamò come Francesco D’Assisi è tale che il compromesso terreno potrebbe essere la via meno facile. Troppi spiriti sono fuggiti dal vaso, in troppi hanno preso parola: o parleranno nella Chiesa o andranno a parlare altrove.

La scelta del Vicario di Cristo, dunque, dovrà tener conto che la Chiesa sta già camminando in una direzione, quella dell’uscita nel mondo, come indicato da Francesco che quasi all’ultimo istante del suo pontificato stabilì che Roma avrebbe ospitato la prima assemblea universale del popolo di Dio nell’ottobre del 2028 a conclusione del Sinodo sulla sinodalità da lui avviato nel 2021.

Successore di Pietro fino all’ultimo istante della sua vita, Francesco, ha lasciato a chi verrà dopo di lui (e che chiamò più di una volta “Giovanni XXIV”) una strada tracciata ed un abbrivio impresso all’istituzione religiosa più antica del mondo sempre più aperta al ruolo dei laici, delle donne, al rapporto e all’alleanza con le altre religioni. Conservare e gestire, in questa situazione, potrebbe essere addirittura più difficile che un’improbabile sterzata all’indietro, come quella che sembra indicare, fra gli altri, il teologo ratzingeriano Gerhard Müller, creato cardinale da Francesco eppure tra i più attivi a chiedere un pontefice diverso da lui e che stringa i freni della dottrina: con la mitezza dialogante di un Arborelius, il carmelitano vescovo di Stoccolma che incontra favori trasversali o con il carisma di Peter Erdő , ungherese, creato cardinale da Giovanni Paolo II, esponente del “partito” dei teologi-custodi definibili come “conservatori”.

Sullo sfondo l’attivismo dell’episcopato statunitense e del cardinal Timothy Dolan che però ha un serissimo problema: l’endorsement di Donald Trump, il presidente Usa che ha il dono di far perdere quelli che appoggia (come insegnano le elezioni in Canada e Australia dove la repulsione per l’arroganza della Casa Bianca ha spazzato via ogni sondaggio favorevole alle destre). Trump ha ben pensato che un suo ritratto in abiti papali, ricavato con l’intelligenza artificiale, fosse una trovata geniale e ne ha postato uno sul profilo ufficiale della Casa Bianca e poi anche sul social di sua proprietà. Dito indice alzato in segno di comando, la volgarità gratuita del papa Trump rischia di influenzare il Conclave ma non esattamente nel senso auspicato da Dolan,  estimatore di un presidente che Francesco considerava “non cristiano”. Perfino un uomo distante da Dolan come il cardinal Robert Prevost, altro statunitense dato in corsa, potrebbe essere coinvolto dal bacio della morte dell’appoggio trumpiano. Appurato che Trump dovrebbe perdere (anche) in Conclave oltre che in Canada, resta da vedere che compromesso possa venir fuori  da un Conclave attraversato dalla faglia di divisione che separa i “sinodalisti” dai prudenti, se non proprio dai critici dichiarati della riforma dal basso avviata da Bergoglio.

Numeri alla mano i “sinodalisti”, quelli che sono stati delegati ai lavori sinodali, rappresentano un terzo abbondante del corpo elettorale (terzo che dovrebbe corrispondere a 44 cardinali). Non sufficienti ad eleggere un Papa (il quorum è di due terzi),  abbastanza per rallentare una scelta che non li coinvolgesse. E per i “sinodalisti” (in testa Jean Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo ed il “papabile” Mario Grech, che del Sinodo è stato segretario) la Chiesa non deve perdere l’abbrivio in uscita impresso da Francesco. Per la Chiesa, vista in cammino insieme alla fraternità umana, alleata degli altri credenti in Dio e degli uomini di buona volontà, sarebbe il tempo per affrontare i “cattivi pastori” che violentano i popoli e l’ambiente, curare le ferite, annunciare Cristo in una dimensione di popolo più vicina a quella del primo cristianesimo.

Il cardinal Baldassare Reina, in una omelia accorata,  si è rivolto giorni fa ai confratelli porporati vicini ormai alla scelta.

“La portata  – ha detto – è immensa, e si insinuano le tentazioni che velano l’unica cosa che conta: desiderare, cercare, operare in attesa di un nuovo cielo e di una nuova terra. E non può essere, questo, il tempo di equilibrismi, tattiche, prudenze, il tempo che asseconda l’istinto di tornare indietro, o peggio, di rivalse e di alleanze di potere, ma serve una disposizione radicale a entrare nel sogno di Dio affidato alle nostre povere mani”.

Il sogno di Dio che, ha ribadito il cardinal Sandri, argentino e figlio di migranti italiani, è stato rivelato agli anziani e deve essere tradotto in realtà dall’entusiasmo dei giovani. Un segnale chiaro che potrebbe cadere anche il tabù dell’età troppo giovane.  La battuta (ed è una battuta nata nella Curia) che ha sempre chiuso il discorso su questo tabù è: “Ci serve un Santo Padre, non un Padre Eterno”. Ogni due lustri, insomma, i giochi (anche di potere terreno) vanno riaperti.

Tante cose hanno suggerito in queste ore che il partito dei “sinodalisti” si sentirebbe pronto a scelte radicali, inedite: un uomo di missione, un giovane con uno sguardo affrancato dai condizionamenti locali, una figura che possa sollevare lo sguardo sul mondo da un’altra prospettiva ed essere, come Francesco, riferimento e autorevole compagno di cammino. In una situazione storica che ricorda l’alba del ‘900 con la guerra mondiale dietro l’angolo viene in mente il maestro Guccini quando canta “un’altra grande forza spiegava allora le sue ali\parole che dicevano gli uomini sono tutti uguali”. La grande forza a cavallo dei due secoli era, dice il poeta, l’aspirazione alla giustizia sociale, frustrata da “re e tiranni” che la affogarono nel bagno di sangue dell’inutile strage, la prima guerra mondiale.

La grande forza che spiega le sue ali mentre il mondo brucia, oggi, potrebbe essere il cristianesimo che ritorna al modello delle origini e che, grazie a Bergoglio, ha iniziato a costruire giustizia e pace con autorevolezza e legittimità riconosciuta globalmente. Il suo manifesto – oltre alle encicliche Fratelli Tutti e Laudato Sì (quest’ultima un enciclica sociale e non ecologica) – il documento sulla fratellanza umana, la pace mondiale e la convivenza comune firmato da Francesco e dal  Grande Imam di Al-Azhar nel 2019. L’inedita alleanza delle religioni per restituire a Dio quel che è di Dio, ossia “raggiungere una pace universale di cui godano tutti gli uomini in questa vita”. L’incipit suona così:

“In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace”.

Per i sinodalisti, alla lettera quelli che fanno il cammino insieme, allontanarsi da questa soglia storica sarebbe gettare una grande occasione di evangelizzazione con la quale la Chiesa sarebbe parte attiva nella cura del Creato. La voce di Francesco si è imposta come riferimento accettato dal basso e poco ascoltato dall’alto, il lavoro deve continuare. C’è l’Asia, con la Cina che si sta aprendo a velocità impercettibile (i tempi lunghissimi sono una caratteristica comune alla Chiesa ed alla Cina) consentendo, tra le altre cose, a suoi scienziati di sedere nella Pontificia accademia delle Scienze e in quella delle Scienze sociali, ulteriore apertura di credito dopo l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi. C’è l’islam, sciita e sunnita, che a Francesco ha prestato orecchio e dato credito (storico l’incontro con il grande Ayatollah Al Sistani). C’è il continente africano, dove Francesco si è recato 10 volte  in cerca di pace e dove ha alzato la voce contro il mercato delle armi (legale o illegale per il Papa non faceva differenza) e contro l’uso della religione come pretesto per la guerra. E poi c’è il buco nero di Gaza che sta inghiottendo la coscienza dell’Occidente – ammesso esista ancora come blocco coeso attorno a dei valori – davanti ad un folle sterminio che Francesco ebbe il coraggio di chiamare con il suo nome “genocidio”.

L’attesa dei sinodalisti è per un papa profetico, padre universale, un giovane che realizzi i sogni degli anziani, come aveva chiesto il cardinal Sandri pochi giorni fa. L’immagine della tenda e del giovane profeta richiama, irresistibilmente, il profilo missionario di Giorgio Marengo, 51 anni (pochissimi per gli standard della papabilità), prefetto apostolico di Ulan Bator, Mongolia. Italiano solo all’anagrafe, in Conclave rientra tra i cardinali asiatici.

La Ger dei Mongoli

La Chiesa che custodisce, un piccolissimo popolo di circa duemila persone, potrebbe stare tutto in una foto. I cristiani di Mongolia pregano e vivono nelle tende circolari dei nomadi, le “Ger” sempre aperte e sempre in movimento. Il giovane evangelizzatore che pratica il modello del piccolo seme nel giardino dell’umanità, piacque a papa Francesco nel suo viaggio in Asia, terra che amava dalla Mongolia alla Cina. Non sarà lui ad affacciarsi alla loggia delle Benedizioni, probabilmente. In Vaticano un sessantenne, come Pierbattista Pizzaballa è “un giovane”. Di certo il pastore di Ulan Bator ha il volto del sogno della Chiesa, tentata da prendere, una volta per sempre, il mare di una storia diversa da scrivere. Quella dei “Fratelli Tutti”.

Chiara GRAZIANI   Roma 7 Maggio 2025