Romano Dazzi, due aggiunte ed una rassegna di effigi e ritratti nel segno di un’arte anticonvenzionale

di Franco POZZI

Nulla dies sine linea1. Due aggiunte per Romano Dazzi. 

Fu Ugo Ojetti, affermato scrittore e critico d’arte italiano dei primi decenni del novecento, ad intuire e rendere noto lo straordinario talento toccato in sorte a Romano Dazzi (1905 – 1976)2 figlio dello scultore Arturo, del quale era amico al punto da frequentarne la casa.

Fig. 1, Romano Dazzi, disegno di guerra, 1917, matita su carta.

Vero enfant prodige3 a tredici anni, nel 1918, (con sporadiche anticipazioni al ’17, come testimonia l’immagine della fig. 1, con la scritta Romano Dazzi 12 anni) il giovane, suggestionato dalla visione di film di guerra restituiva l’emozione che quelle scene provocavano in lui con disegni di una qualità e potenza fuori dal comune, per un ragazzino della sua età. Un talento così precoce e prorompente non poteva passare inosservato. Quel repertorio di soldati delineati a memoria nelle pose più disparate – in un corpo a corpo col nemico, all’assalto in trincea

Fig. 2, Romano Dazzi, Soldati all’assalto, 1918, matita grassa su carta, Firenze, collezione Lapicciarella.

(fig. 2), riversi bocconi colpiti a morte, distesi mentre sparano col fucile o lanciano una ‘signorina’ (così veniva definita la bomba) – resi con una sapienza da artista maturo, navigato e consapevole, ebbe subito grazie ad Ojetti una platea nella rivista L’illustrazione italiana4.

L’anno successivo, il 1919, nella galleria d’arte Bragaglia di Roma (catalogo pubblicato dalla rivista “Valori Plastici”), il critico curò una mostra dedicata al genio quattordicenne (fig. 3-4), che destò non poco scalpore negli ambienti artistici romani. A quindici anni Romano vantava già pubblicazioni prestigiose. Del 1920 il bel catalogo I disegni di Romano

Fig. 3 e 4, Copertine del catalogo della mostra del 1919, edita dalla rivista Valori Plastici.
Figg. 3 e 4, Copertine del catalogo della mostra del 1919, edita dalla rivista Valori Plastici.

Dazzi, della mostra alla Galleria Pesaro di Milano sempre a cura di Ojetti (editore Bestetti e Tumminelli5). Oltre ai disegni di guerra, i temi preferiti dal ragazzo erano gli animali (fig. 5), l’altra sua grande passione (passava infatti intere giornate a studiarli al giardino zoologico di Villa Borghese), le consuete e intime scene famigliari, gli amici, gli scalpellini di Carrara dove il padre lo portava tutte le estati.

Fig 5. Fig. 5, Romano Dazzi, Scimpanzè, carboncino su carta.

Nelle intenzioni dell’intellettuale, il tentativo di governare un talento dalle incontenibili pulsioni vitalisticheed espressionistiche, guidandolo verso una più meditata consapevolezza, secondo i dettami del cosiddetto Ritorno all’ordine, il recupero della tradizione pittorica italiana del Trecento e del Quattrocento.

Ma il giovane soffriva nella gabbia che il critico, pur mosso da un sentimento genuino, da padre putativo e precettore, voleva creargli attorno. Nel 1923 accettò l’incarico del governo italiano di documentare la campagna militare italiana in Libia.

Anche in questa serie si susseguono, in una carrellata appassionata e serratissima, disegni di soldati, ritratti di libici, ascari in corsa o danzanti, beduini nel deserto coi loro cammelli (fig. 6-7), con una intensità e partecipazione testimoni di una esperienza fondante, per il giovane. La qualità risulta sempre molto alta, ma non in linea con le aspettative di Ojetti. Con questi presupposti, il rapporto era destinato ad incrinarsi, lentamente ma in maniera inesorabile. E così avvenne.

Fig. 6, Romano Dazzi, Ascari che corrono, matita grassa su carta.
Fig 7 Romano Dazzi, Beduini, matita grassa su carta.

Per Romano le commissioni prestigiose non mancarono. Nel 1928, e fino al 1932, venne incaricato di decorare l’Aula Magna dell’Accademia di Educazione Fisica a Roma, e nel 1936 vinse il premio per la pittura alle Olimpiadi di Berlino.

Col tempo l’asprezza degli esordi, funzionale peraltro al tema trattato, si stemperò in una eleganza e sinuosità della linea che manifestano la capacità innata dell’artista di innervare il segno, di infondergli il demone del movimento. Dazzi continuò negli anni a portare avanti la sua personalissima ricerca, ma quelle scelte risultavano fuori dal suo tempo, le linee guida vincenti erano quelle indicate da Ojetti. Questo il motivo dell’oblio nel quale il nome di questo grande e originalissimo artista cadde per decenni, fino ai meritevoli tentativi degli ultimi tempi6, che hanno riacceso l’interesse sulla sua figura e parabola umana, terminata nel 1976. Resta, a parlare di lui, una rassegna sorprendente di soldati, ascari in corsa, pugili, lottatori, tuffatori, butteri a cavallo, nudi maschili e femminili, autoritratti. Una commedia umana degna dell’altra tradizione italiana, quella antistatica, che da Vitale da Bologna, passando a Filippino Lippi, giunge attraverso Pontormo, Cecco Bravo e Simone Cantarini, sino a Felice Giani e Giovanni Boldini.

Intensissime, curiosamente sintoniche con la sua opera ed estremamente compiaciute della loro efficacia, le parole che Romano metteva in campo, al tempo degli affreschi dell’Accademia di Educazione Fisica, per raccontare il suo lavoro alla moglie:

Il muro BEVE, BEVE! È un grido che mi rompe dentro, le pennellate infittiscono, il pennello quasi sfrigola, il colore s’impasta con la malta, e allora bisogna vedere, vedere presto e tutto insieme, cercare con il cuore il punto dove va lo scuro, dove va la luce…”.

La prima aggiunta della quale si vuole in questa sede fare cenno non è propriamente un inedito. Si tratta di un disegno di collezione privata riminese, a matita grassa, firmato e recante la data 1918, passato nel totale silenzio e disinteresse in un‘asta Il Ponte di Milano7, con un’attribuzione dubitativa a Dazzi padre (reca infatti, sul vetro che lo incornicia, un’etichetta incollata con la scritta Arturo Dazzi in basso a sinistra), ed esposto alla Biennale del Disegno di Rimini8 nell’edizione del 2016 (fig. 8).

Fig. 8, Romano Dazzi, Soldato ferito curato da un medico militare, 1918, matita grassa su carta. Rimini, collezione privata (foto Gilberto Urbinati).

È a tutta evidenza una prova di Romano tredicenne, che già a quell’età possedeva un alfabeto ed una sintassi personalissimi, del tutto diversi rispetto al padre.

Fig. 10, Romano Dazzi, Soldati al fronte, 1918, matita grassa su carta.
Fig. 9, Romano Dazzi, Soldati al fronte, 1918, matita grassa su carta.

Un soldato ferito gravemente e a torso nudo riceve, sul lettino di in una infermeria militare, le cure di un medico in camice. Tutta la scena è resa con una intensità e sapienza, Ojetti parla di commozione, che stupisce in un adolescente. L’interesse si concentra esclusivamente sulla figura umana, caratteristica che Dazzi manterrà per tutta la sua lunga carriera, in un connubio riuscitissimo tra linea espressiva e chiaroscuro potente. Utile anche il confronto con altri disegni dello stesso periodo (fig. 9-10), pervasi dal medesimo senso del tragico e ottenuti con lo stesso segno di matrice dinamica ed espressionista.

Fig. 12, Romano Dazzi, Pugilatore (particolare),
Fig. 11, Romano Dazzi, Pugilatore, 1938, ceramica policroma, Rimini, collezione privata (foto Gilberto Urbinati).

La seconda aggiunta, anch’essa di collezione privata riminese e inedita, è una rara prova del Dazzi plasticatore e ceramista. Allo stato delle conoscenze un unicum, credo. (fig. 11-12)

Una terracotta policroma raffigurante un pugile di colore, in piedi e con le gambe leggermente divaricate.

Fig. 13, Romano Dazzi per la manifattura Cantagalli, Firenze, Museo del Bargello.

Piantato saldamente a terra, l’asciugamano a cingergli il collo, a riposo ma con una tensione percepibile, per la capacità dell’autore di far intuire con la creta la muscolatura pronta a scattare e il sangue che pulsa. Una scritta, non autografa, posta sotto il piedistallo (F.RE DAZZI 1938) sembra appoggiarsi ad una fonte documentaria, al momento non rintracciabile.  Rimane l’evidenza stilistica, pur nell’uso di due medium differenti.

È nota la collaborazione di Romano con la manifattura Cantagalli di Firenze9, alla quale fornì disegni di vasi decorazioni a rilievo, tradotti in ceramica da artigiani della manifattura stessa, (fig. 13).

Fig. 15, Romano Dazzi, Pugilatori, sanguigna su carta, presentato dalla Galleria Carlo Virgilio al Salon du dessin di Parigi nel 2015
Fig. 14, Romano Dazzi, Pugilatori, sanguigna su carta, presentato dalla Galleria Carlo Virgilio al Salon du dessin di Parigi nel 2015

Questa figura, alta cinquanta centimetri, ha un registro diverso rispetto a quella produzione seriale. Dimostra una sapienza ed una capacità del tutto simili al Dazzi disegnatore, come se plasticare avesse per lui il valore di un disegno materializzato in tridimensione, ed è a mio parere autografa. Confortanti a tale riguardo risultano i confronti con alcuni disegni di pugilatori (fig. 14-15) nei quali anche il corredo di vestiario tecnico richiama in maniera puntuale quello del nostro atleta, e con due autoritratti (fig. 16-17), dove le membra hanno una tornitura e fluidità sovrapponibili alla ceramica.

Fig. 17, Romano Dazzi, Autoritratti, matita su carta, Gallerie Carlo Virgilio e Fondaco Roma.
Fig. 16, Romano Dazzi, Autoritratti, matita su carta, Gallerie Carlo Virgilio e Fondaco Roma.

Il mito dell’artista prodigio, baciato fin dall’infanzia da un talento destinale, non ha sempre incontrato i favori degli estimatori d’arte. Le oscillazioni del gusto hanno imposto, in certi momenti storici, la mortificazione delle doti naturali a favore di un approccio più castigato e meditato.

Forse, da Cèzanne e Van Gogh (due antivirtuosi) in poi, e dopo il recupero novecentesco dell’arte cosiddetta primitiva, o quella degli outsiders e dei bambini, le dispute virtuosistiche narrate da Plinio nella sua Storia Naturale10, hanno perso per molti decenni il loro senso.

La nostra epoca, caratterizzata da una pluralità di linguaggi, dove il discrimine non è ideologico ma di intensità di sguardo, aveva il dovere, non disatteso, di risarcire un artista come Romano Dazzi, e di restituirgli il ruolo che gli compete nel panorama storico artistico italiano. Che non è da comprimario.

Franco POZZI  Rimini  dicembre 2018

1) ‘Nessun giorno senza disegnare’. Plinio il vecchio (23-79 d.C.) nella sua Naturalis Historia (libro XXXV), attribuisce questo motto ad Apelle, il pittore di origine greca più famoso dell’antichità.
2) Nato a Roma il 10 febbraio 1905, figlio dello scultore Arturo. Il padre, carrarese, nato nel 1881, inizia a scolpire il marmo nella bottega dello zio come scalpellino sbozzatore. Dopo essersi iscritto all’Accademia di Belle Arti di Carrara, nel 1901 si trasferisce a Roma, ricevendo subito attenzioni e riconoscimenti. Tra il 1918 e il 1926 vince diversi concorsi e lavora spesso con l’architetto Piacentini. Nel 1914 e nel 1928 partecipa alla Biennale di Venezia. Scolpisce in molte città d’Italia monumenti ai caduti, come quello di Genova inaugurato nel 1931. Del 1931-32 il cosiddetto Bigio, colosso di Piazza della Vittoria a Brescia (il cui vero titolo è Era Fascista) e nel 1937 riceve l’incarico di realizzare l’obelisco Marconi, nella omonima piazza romana, decorato da 92 pannelli in marmo, opera dal destino travagliato che verrà inaugurata solo ai giochi Olimpici del 1959. Nel 1935 partecipa alla Quadriennale di Roma. Dopo la guerra torna nella sua villa di Forte dei Marmi, acquistata nel 1925. Dal 1948 al 1950 insegna scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Nel 1952 partecipa nuovamente alla Biennale di Venezia col ritratto ligneo di Curzio Malaparte, suo amico. Muore a Pisa nel 1966.
I suoi insegnamenti gemmarono tra gli altri, in Aldo Buttini, suo allievo diretto, che ebbe l’incarico di realizzare dieci delle sessantaquattro statue di atleti dello Stadio dei Marmi di Roma.
3) Romano viene preso ad esempio del genio bambino nella pubblicazione di Walter Beck Self-development in drawing as interpreted by the genius of Romano Dazzi and the other children, del 1928.
4) Nel n.16 del 21 aprile 1918 (152° settimana di guerra).
5 Emilio Bestetti e Calogero Tumminelli furono gli editori che nel 1920 fondarono la rivista di critica d’arte Dedalo, alla direzione della quale misero proprio Ojetti, e che terminò le pubblicazioni nel 1933 (gli ultimi due anni vennero pubblicati dalla Treves- Treccani- Tumminelli).
6) Nel 1987 il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi ha acquisito un cospicuo nucleo di disegni di Romano. Sono seguite nel 1988 le mostre alla Galleria Carlo Virgilio di Roma, e nel 2009 alla Galleria Francesca Antonacci/ Damiano Lapicciarella (Roma/ Firenze).
7) Asta del 23 marzo 2015, di oggetti appartenuti al compositore Renzo Bossi.
8) Nella mostra Profili del Mondo, a cura di Alessandra Bigi Iotti, Marinella Paderni, Massimo Pulini, Giulio Zavatta.
9) Romano aveva sposato la figlia di Flavia Cantagalli, proprietaria della omonima manifattura fiorentina. Testimonianze di questa assidua attività, complementare ma con caratteri di monumentalità e solidità diversi rispetto alla sua produzione pittorica e disegnativa, rimangono al museo del Bargello di Firenze.
10) Mi riferisco alla sfida tra Apelle e Protogene, narrata da Plinio sempre nella Naturalis Historia. Trovandosi Apelle a passare per Rodi, volle provare a conoscere il grande pittore Protogene, del quale aveva sentito molto parlare. Arrivato nell’isola trovò solo la serva che custodiva la casa, la quale gli chiese chi fosse e cosa volesse. Egli non rispose, l’unica cosa che fece fu disegnare sopra una tavola, posta su un cavalletto e pronta per essere dipinta, una linea sottilissima. ‘Mostra solo questo, al tuo padrone’. Tornato a casa, Protogene vide la linea tracciata sulla tavola e ne riconobbe subito la maestria e l’autore, poteva essere solo Apelle, e a sua volta ne tracciò sopra una più sottile, in modo da dare alla prima un effetto di tridimensionalità stupefacente. Apelle, curioso di vedere la contromossa dell’avversario, tornò nella casa di Protogene, e traccio tra le due righe una ulteriore sottilissima riga, chiudendo definitivamente la partita a suo favore. Protogene, rincasando, vide e si rese conto di essere stato battuto. Corse allora al porto, dove Apelle stava ripartendo, lo abbracciò, ne riconobbe lealmente l’abilità e l’ingegno e gli consegnò la sua eredità. La tavola rimase per anni in esposizione, a memoria di questa singolare disputa.