di Giuseppe RESCA
Si è svolta lo scorso Lunedì 26 Maggio nella Casa dei Cavalieri di Rodi, sede storica del Sovrano Militare Ordine di Malta, la conferenza “Arte mi sia Gentil esca”, nel corso della quale il Dott. Giuseppe Resca, psichiatra e psicoterapeuta, conosciuto come attento collezionista e conoscitore d’arte, nonchè quale autore di vari volumi sulla genesi e gli sviluppi dell’estro creativo di Caravaggio, ha presentato un dettagliato studio sull’efferato fatto di cronaca forse più famoso del tempo, ossia lo stupro di Artemisia Gentileschi, ad opera di Agostino Tassi, riletto in chiave psicanalitica, dentro una logica che mette a fuoco le responsabilità di Orazio e che ribalta ogni altra ipotesi fin qui formulata sul ruolo dei tre protagonisti: Orazio e Artemisia Gentileschi, Agostino Tassi.
Pubblichiamo il testo dell’intervento per gentile concessione del dott. Resca.
La vicenda di cui si parla, l’efferato stupro di Artemisia Gentileschi ad opera del pittore Agostino Tassi, salito alle cronache come il più famoso caso giudiziario dell’epoca, si svolse su due piani di realtà, diversi e complementari: la realtà oggettuale, ossia i fatti nudi e crudi documentati al processo, di cui abbiamo testimonianza storica sufficientemente acclarata, e la realtà psicologica, ossia le ragioni intime e profonde di quei fatti, pertinenti alle menti dei tre protagonisti della vicenda (Orazio e Artemisia Gentileschi, Agostino Tassi), e tuttora indeterminate, per quanto esplorate dalle più brillanti menti del nostro tempo in ogni campo di indagine.
Cui, però, mancava la prova decisiva, la chiave che riteniamo oggi di possedere: la pistola fumante (come si dice in gergo), capace di ribaltare qualunque altra ipotesi prima formulata e di proporne una nuova, che illustreremo in questa sede a spiegazione dei fatti, processuali e no.
Per non tergiversare, facciamo riferimento a un quadro, di soggetto Giove e Semele, che qui esponiamo, inedito, e attendibilmente riferibile alla mano autografa di Artemisia Gentileschi.

Perché è così fondamentale questo quadro come prova centrale della nostra indagine?

Dal punto di vista estetico, nonostante la sua peculiare qualità, il suo stile non diverge dai consimili dell’epoca: si confonderebbe tra i tanti. Ma se lo diamo in pasto a uno psicologo, o a un profiler di comportamenti criminali, la sorpresa è dietro l’angolo, perché rivela la mente di Artemisia, quello che appare alla sua mente, in conseguenza dei fatti che ormai tutti conosciamo perché illustrati nel famoso processo.
Se tutto è controvertibile nella lettura di un quadro, e del mito che lo sottende, la presenza dei due, ritratti nei personaggi dell’opera, non lascia margine a dubbi. Al pari di due foto segnaletiche, essi appaiono veri, come in carne e ossa. Lui, il bruto, è il ritratto, inequivocabile, di Orazio Gentileschi, padre della vittima. Lei, la condannata, è la stessa Artemisia, Gentilesca, che si autoritrae nelle forme di Semele.
Due pittori, padre e figlia, che un tempo si specchiavano uno nell’altra (Arte mi sia Gentil Esca), e ora, nel quadro, sono personaggi di un dramma che ha le forme di uno stupro, di un incesto (padre e figlia), di un supplizio, di una condanna a morte (il fulmine di Giove che incenerisce).



Siamo tutti d’accordo che un quadro è opera d’arte (e questo quadro lo è senz’altro), e non di cronaca; ma anche Guernica di Picasso è tale, eppure riflette un avvenimento reale (il bombardamento della cittadina da parte degli Stukas tedeschi).

Perciò useremo questa prova, il quadro, non al fine di contestare i fatti storici e processuali, così come furono documentati, ma al fine di rileggere gli stessi eventi come ricostruzione mentale che Artemisia ne fa, a distanza di tempo, per spiegare a sé stessa come siano state possibili certe cose che la mente umana rigetta. Esattamente come facciamo tutti davanti a Guernica, summa di ogni orrore inesplicabile al cuore.
Il quadro fotografa esattamente ciò che si è rivelato alla mente di Artemisia in un momento imprecisato, a distanza dai fatti. E avendo come interpreti due protagonisti della vicenda processuale, lei come vittima, lui come insospettabile attore, possiede un portato di verità che vale a certificarne l’autografia gentileschiana.

Come in ogni quadro, opera d’arte, contiene una rivelazione che deriva da un sogno, peraltro non identico al sogno di un paziente, che in seduta analitica lo racconta senza comprenderne a fondo il significato.
Qui la rivelazione è categorica (lo stupro), e vale a chiarificare i dubbi di un precedente dipinto, anch’esso di mano di Artemisia, firmato per esteso e datato 1610; una Susanna e i vecchioni diventata famosa, ma assai problematica nei suoi significati.
Se posti in giusta sequenza cronologica (prima Susanna, poi Semele), i due dipinti rivelano uno sviluppo psicologico della mente dell’autrice, laddove appaiono gli stessi personaggi: lei, Artemisia, ritratta ora nei panni di Susanna, lui, Orazio, a interpretare qui la parte di uno dei due guardoni.



E il secondo? Irriconoscibile, perché inquadrato in un cono d’ombra, che la testa di Orazio nasconde. Ma soprattutto un giovinastro, non certo un vecchione: e non sarebbe questo un errore imperdonabile per un pittore dell’epoca?
Per la prima volta, nemmeno diciassettenne (siamo nel 1610, la data fa testo), Artemisia adombra un sospetto sul padre: che lui le rivolga attenzioni un po’ strane. Si dirà: quale figlia non fantastica avventure sessuali nel contesto familiare? Ma alla luce dei fatti successivi (lo stupro subito ad opera di Agostino, il maestro che il padre le ha imposto come insegnante), anche questo quadro assume rilievo di documento: se quelle di ragazza possono essere ritenute semplici fantasie, la concupiscenza fu di sicuro reale. E tirò in gioco gli adulti, non la fanciulla.
È evidente che lei percepisca qualcosa di losco nei rapporti che il padre intrattiene con lei, perché losco non è tanto il soggetto del quadro, quanto il preciso riferimento a persone reali: padre, figlia, e uno sconosciuto. Riferimenti che non cessano affatto, ma perdurano poi nel secondo dipinto, il Giove e Semele, che possiamo considerare a ragione come il secondo atto del dramma che agita la mente di Artemisia.
La cattura che i due quadri descrivono, fantasmatica o reale che sia, è di natura sessuale. Ma da qui a ipotizzare che le fantasie si traducessero in comportamenti abnormi tra padre e figlia è difficile credere, perché tutto quello che conosciamo di Orazio non rivela manie di quest’ordine. Sarà pure un violento, un iracondo, ma non ha il crisma di sciupafemmine. Almeno per quanto sappiamo, anche se, come sempre, non possiamo giurare.
Inoltre, a escludere qualsiasi sospetto del genere è la testimonianza stessa di Artemisia al processo, che denuncia il solo Agostino quale suo stupratore; mai Orazio figura come artefice di un complotto a tal fine. Complotto che investe esplicitamente tantissimi altri comprimari, dall’inserviente di lei agli amici fidati di lui (Agostino). E dunque, possiamo assolverlo, Orazio? Probabilmente sì, come autore materiale o anche solo come ideatore del misfatto. Eppure, una cattura ha da esserci, a meno che Artemisia non vaneggi. A quale altro registro riferirla, se quello sessuale va escluso?
Si tratta di una cattura, immaginaria finché si vuole, del padre sulla figlia. Un dominio dispotico e assoluto, atto ad asservirla ai suoi scopi reconditi. Ma nemmeno tanto, se prestiamo attenzione al nome stesso che ha dichiarato alla nascita: Artemisia. Nome che, associato al cognome, Gentileschi, introduce un calembour per nulla ermetico, ma specificamente evocativo: Arte mi sia Gentil esca.
Ed eccolo appunto esplicitato, quasi letteralmente, il registro preposto: non il sesso, ma l’Arte. Intesa come infinitamente più erotica del sesso stesso, a emblema di potenza genitoriale. Nell’immaginario di Orazio solo l’Arte ha valore, essa sola dichiara il rango dell’uomo, il suo status di privilegio.
La rivoluzione culturale che Caravaggio ha portato è ormai un fatto compiuto all’epoca degli eventi. I quadri non sono rappresentazioni di storie lontane, metafisiche. Sono personificazioni, nell’attualità, delle storie stesse. Non racconti, ma cronache. E i personaggi, di conseguenza, sono persone a noi contemporanee, che vestono i costumi del nostro tempo, mangiano i nostri cibi, fiutano le nostre sensazioni. I quadri, insomma, non sono cose, oggetti da vedere o studiare, ma persone viventi, tra spettatori viventi. E l’autore, l’artista, vive tra loro, è uno di loro, e si ritrae, quando lo ritiene opportuno, in mezzo alla mischia.
Orazio, dei caravaggeschi è il primus inter pares. Ha da poco ricevuto (1611), in concorso con Agostino Tassi, la commissione del Cardinal Borghese: dipingere gli affreschi della loggetta del suo Casino a Montecavallo, denominato poi, in virtù del loro lavoro, il Casino delle Muse, la più importante commissione dell’epoca. E sulle spettacolari e acrobatiche prospettive inscenate da Agostino Tassi, collega e discepolo di Orazio e virtuoso del trompe-l’oeil, troneggia la figura di Artemisia, dipinta dal padre come Musa della Musica, altera e sprezzante come una Dea.




Orazio vede in essa la sua Domina: Arte mi sia Gentil esca. E lui dell’Arte si sente schiavo, come genuflesso, mentre la Donna lo osserva dall’alto in basso. Lei non è più una rappresentazione, un affresco, un’immagine che appare alla percezione dei sensi, ma una imago di come l’uomo concepisce la donna. O meglio: di come l’artista concepisce le sue creature. Perciò l’artista, in quanto creatore, riprende il possesso delle sue creature, per quanto meravigliose esse siano.
E non solo: nella Loggetta, Orazio celebra il potere dell’artista su tutti i potenti, come fosse il sovrano di tutto ciò che appare nel creato, in quanto egli crea, non possiede. In lei, ivi dipinta, il padre celebra il proprio trionfo di artista, non scevro dal vizio esibizionistico e dimentico dei doveri di padre.

Così, sciaguratamente, accompagna la celebrazione di sé, pittore, alla celebrità di lei, ancora fanciulla, offrendola alla bramosia dei colleghi che frequentano a frotte la sua dimora. Ove, al terzo piano, lei abita, e ove, artatamente, si intrufola poi Agostino per violentarla. In un’ardita sinergia tra fantasia e realtà, ci pare vederlo su quelle rampe Agostino, che si inerpica in una impavida scalata alla vetta, quasi ascendesse al paradiso del Casino delle Muse. E non è detto che non ci abbia fantasticato davvero a lungo, prima di provarci.
Orazio sa tutto, ma fa finta di nulla: passa un anno intero, dacché gli è stato rivelato l’accaduto, senza fiatare. Poi, a seguito del furto di un quadro sottratto alla figlia da Agostino, si sente parte in causa, ma solo perché vede che il furfante si è approfittato di entrambi loro. Non può tollerare la vergogna per la propria dabbenaggine: aver aperto le porte di casa a un ladro di quadri, le cose cui tiene di più, credendolo fidato. E così lo denuncia, col pretesto dello stupro. Ma appena restituito il mal tolto i due sodali torneranno amiconi, come se niente fosse accaduto alla figlia: processo, tortura per lei e pubblico ludibrio, matrimonio riparatore. Fino a esiliarla a Firenze. E questi sono i fatti.
L’universo mentale di Orazio è modellato sull’Arte come sistema simbolico universale, tanto che solo il furto di un quadro lo smuove. La figlia Artemisia conta nel suo ordine mentale finché egli se la figura come Imago dell’Arte, la propria; la ripudia quando la vede Persona, per di più di discutibile onorabilità.

Si tratta di Identità, quelle creature della psiche deputate, nella mente umana, alla realizzazione dei bisogni, veri o falsi che siano, che la vita prospetta ai soggetti. Per Orazio esistono solo Identità Ideali, forme dell’Ideale dell’Io strutturato sul sistema simbolico Arte.
Questa sorta di monocrazia mentale, per cui egli fagocita l’Arte impadronendosene in tutte le sue forme (dalle creative alle commerciali), si esplica nel rapporto con la figlia nella cattura, immaginaria e reale, di lei come Musa.
È la Cattura stessa la protagonista della nostra storia: Arte mi sia Gentil esca.
Perché la cattura produce nella psiche di lei, come corrispettivo, la stessa Identità di Musa, destinata all’Arte, che sarà mestiere, professione, ma anche condanna, dal momento che in lei non sarà semplicemente identità ideale, ma col tempo sempre più persecutoria. Ecco spiegata la Susanna del primo quadro, e la Semele del secondo, entrambe vittime dello stesso persecutore, il padre.
Per molti anni una vendetta immaginaria animerà Artemisia, e diverrà la cifra stilistica della sua pittura, stimolando la genesi di un profluvio ininterrotto di Giuditte e Salomé mortifere, di Maddalene autoflagellanti e di Lucrezie suicide. Quadri naturalmente, ma vissuti con foga e disperazione, come si confà a un’artista sublime personificante vendetta.
E l’amore? Quello, sempre agognato, non le darà pace nel corso di tutta la vita, come testimoniano molte sue lettere, fatte di lontananze e dolori. E ancora una volta sarà un dipinto a confermarcelo, un Amore e Psiche (qui ribattezzato) di spettacolare fattura, in cui Cupido volge al basso le faci d’amore, in segno di condanna alla donna da lui ripudiata.

Infine, per non romanzare all’eccesso la figura di una donna vera, nella professione come nella vita di madre, citeremo un dipinto (Allegoria della pace e delle arti) a due mani, Orazio e Artemisia, immane nelle sue proporzioni e immenso nella simbologia, che i due autori dipinsero per il Re d’Inghilterra Carlo I, nel 1639, vigilia della morte di Orazio.

Esso costituisce una sorta di vittoria estrema della figlia sul padre, che aveva a lungo inseguito, in segno, crediamo, di religioso perdono. I caratteri stilistici paiono avere attinenza più con i modi di lui che di lei; ma la simbologia, le Muse, questa volta è sua, di Artemisia, che si reimpossessa di quell’identità ideale che l’aveva schiacciata, e che ora le appartiene a tutto tondo. Vogliamo credere che la rappacificazione che questo dipinto imporrà al suo animo, si tradurrà nelle pitture del suo periodo estremo in una sorta di quietismo religioso, lontano dai furori di un tempo.
La Musa a poco a poco si spegne in un progressivo silenzio di madre.
Ma risorgerà nei secoli nostri, quando la donna prenderà il posto che le spetta nel mondo. Non di chi nasce dalla costola del maschio, Adamo (come Eva), ma direttamente dalla mente del Dio, come Minerva. E contrapporrà al potere della forza di Marte, la potenza della saggezza della Dea.
A differenza di Semele, incenerita dal Dio, Artemisia, novella Minerva, è di tutte l’antesignana.
Giuseppe RESCA Roma 1 Giugno 2025