di Claudia RENZI
La monumentale pala d’altare raffigurante la Morte della Vergine (Fig. 1) fu commissionata a Caravaggio nel 1601 dall’avvocato curiale Laerzio Cherubini da Norcia per la propria cappella gentilizia in Santa Maria della Scala a Trastevere, retta dai Carmelitani Scalzi.

Caravaggio sottoscrisse il contratto, alla presenza di Vincenzo Giustiniani quale stimatore, il 14 giugno 1601 [1]; in esso si stabilivano soggetto e misure del dipinto – che doveva essere consegnato entro un anno –, un anticipo per il pittore di 50 scudi e, com’era uso stanti l’Editto per gli altari et pitture del cardinale Girolamo Rusticucci (1593) e i dettami del cardinale Gabriele Paleotti nel Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) [2], l’obbligo da parte del maestro di presentare lo “sbozzo” (cioè il progetto nella sua totalità) che avrebbe dovuto essere accettato dal committente e, soprattutto, dai rettori della chiesa: “esibire il cartone, o sbozzo in disegno dell’historia”[3].
L’accordo prevedeva che il pittore dovesse rappresentare
«cum omni diligentia et cura» il «misterium» della «mors sive transitus Beatae Mariae Verginis» (ovvero “con ogni diligenza e cura il mistero della morte o transito della Beata Vergine Maria”)
e, al momento della consegna, avrebbe ricevuto il saldo del lavoro.
Non è noto il momento esatto in cui l’imponente opera (369×245 [4]) fu terminata e consegnata, tuttavia Caravaggio dovette lavorarci nel 1602 [5], sforando forse la scadenza del contratto di qualche settimana poiché, come argomentava Maurizio Marini, nella cappella erano in corso dei lavori, dunque essa non era pronta per accogliere la pala d’altare già commissionata; lo stesso sudioso sottolineava come “nondimeno il pittore deve avere iniziato la stesura della pala in concomitanza con la Deposizione”[6]; d’altro canto dal testamento di Laerzio, datato 14 agosto 1602, sembra che giusto la sepoltura fosse pronta mentre il resto, ad opera di Girolamo Rainaldi, era ancora in corso d’opera; infine, la concessione papale per l’“altare privilegiato” venne accordata da Paolo V soltanto il 22 maggio 1606 – appena sei giorni prima dell’uccisione, da parte di Caravaggio, di Ranuccio Tomassoni.

Dunque l’eventuale ritardo della consegna non è imputabile a un’inadempienza del maestro, ma conseguenza della impraticabilità della cappella: Caravaggio – che negli stessi mesi era occupato con altre commesse quali la Deposizione per Santa Maria in Vallicella (Fig. 2) in cui infatti, come vedremo, compaiono alcuni stessi modelli presenti nella Morte della Vergine – deve perciò aver terminato la pala nel 1602, al max 1603; da quel momento può averla conservata nel proprio studio oppure, più probabilmente date le dimensioni, averla consegnata al committente che l’avrà tenuta in deposito presso di sé fino a dopo il maggio 1606 quando, pronta la cappella, era possibile collocare la pala e renderla pubblica.
Tuttavia, com’è noto, una volta esposta, l’opera fu rimossa dall’altare nel giro di pochi giorni.
Sul motivo di questa rimozione – cui Caravaggio non poté opporre nulla, essendo nel frattempo già fuggiasco per il delitto Tomassoni – sono fiorite le più disparate leggende: la pala sarebbe stata rifiutata perché non rispettava, o travisava, il tema della Dormitio virginis, la posa della Vergine era indecorosa, come modella fu usata una meretrice affogata, ecc.
In realtà, nulla di tutto ciò è esatto.
Si può iniziare dal concetto di “rifiuto”: ai tempi in cui Caravaggio licenziò la Morte della Vergine i pittori che ambivano a “pubblicare” ovvero esporre in luoghi di culto opere a tema sacro dovevano seguire regole intransigenti, la prima delle quali era la presentazione obbligatoria del suddetto “sbozzo”, ovvero del progetto che si intendeva tradurre in pittura. Dunque un disegno completo e dettagliato della scena che, previa approvazione dei committenti e dei rettori della chiesa di turno, poteva diventare un dipinto. Stando ai rigidi paletti imposti dal cardinale Carlo Borromeo anche i rettori delle chiese, infatti, dovevano stare particolarmente attenti a cosa sarebbe stato dipinto e collocato nei templi in loro custodia:
“È inoltre prevista una sanzione per i rettori ecclesiastici qualora permettano che nella loro chiesa sia raffigurata o collocata un’immagine insolita o contraria alle disposizioni tridentine”[7].
Nel caso della Morte della Vergine pare sia stato Laerte Cherubini stesso a progettare l’historia e a dare indicazioni per il disegno a Caravaggio[8]: ad ogni modo lo sbozzo presentato ai religiosi di Santa Maria della Scala fu evidentemente approvato e il pittore poté mettersi a lavoro; chi avrebbe d’altronde sprecato tempo e denaro a dipingere una tela di quelle dimensioni inserendoci stramberie col rischio di vedersela rifiutare? La pratica della presentazione dello sbozzo serviva anche a evitare simili inconvenienti.
In altre parole, se la Morte della Vergine è stata dipinta e collocata, significa che aveva passato l’esame dello sbozzo preliminare, dunque i Carmelitani sapevano bene cosa Caravaggio avrebbe dipinto: non è stata dunque “rifiutata”, ma rimossa per un sopraggiunto motivo che esula, evidentemente, dalla questione teologica.
Nell’iconografia ci sono due momenti, strettamente connessi, circa il transito di Maria da questo mondo all’altro: la Dormizione, che vede Maria giacente circondata dagli apostoli con Cristo che tiene in braccio la sua anima come fosse una bambina o una miniatura (cfr. Pietro Cavallini, Dormitio virginis, 1290 ca., Roma, Santa Maria in Trastevere) – dunque morta – e l’Assunzione, che vede invece Maria trasportata – viva, resuscitata – in trionfo in Cielo (cfr. Tiziano, Assunzione della Vergine, 1518-9, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari) mentre sotto di lei spesso si trovano gli apostoli che increduli guardano il suo sepolcro ora vuoto (cfr. Tiziano, Assunzione della Vergine, 1535, Verona, Duomo; Tintoretto, Assunzione della Vergine, 1555, Venezia, Santa Maria Assunta detta I Gesuiti; ecc.), elemento che conferma come la morte di Maria fosse un dato pacifico.
I Vangeli canonici tuttavia non fanno cenno alla morte della Vergine; ne parlano invece diverse fonti apocrife alle quali si rifarà anche Jacopo da Varazze nella Legenda aurea, repertorio di ispirazione per moltissimi pittori, compreso Caravaggio:
“Così fu che l’anima di Maria uscì dal corpo e volò tra le braccia del Figlio, tanto lontana dal dolore della carne, quanto lo era stata dalla corruzione” [9].
Il primo scritto noto che parla della morte e dell’assunzione di Maria in Cielo è il Transito di Maria (II sec.) che ambienta l’avvenimento sul Monte Sion; seguito dal cosiddetto Pseudo Protovangelo di Giacomo e altri [10].
In questi testi si narra che la Vergine, dopo la Crocifissione di Gesù, andò a vivere presso l’apostolo Giovanni [11] spostandosi tra Efeso e Gerusalemme e sarebbe morta in quest’ultima anni dopo la morte del Figlio, come le era stato preannunciato da un “angelo” in incognito – che si rivelerà, al momento del transito, essere Gesù stesso, che Maria non aveva ancora rivisto dacché è risorto – il quale le era apparso per annunciarle che di lì a tre giorni avrebbe lasciato la vita terrena. La Vergine chiamerà allora perciò presso di sé gli apostoli, che saranno quindi con lei al momento del transito – da tutte le fonti apocrife descritto come morte –; a loro vengono aggiunti Paolo e le figure femminili di due o tre vergini. Altri tre giorni dopo Maria sarà assunta gloriosamente in Cielo anima e corpo:
“Ponete lì il corpo della Vergine Madre nella Valle di Giosafat, e ponetelo lì in un sepolcro nuovo che troverete e aspettatemi ancora per tre giorni, finché non tornerò” [12].
Tutte le fonti apocrife concordano sul fatto che Maria, essendo umana, ha dovuto passare per la morte, e ai tempi di Caravaggio dormitio aveva il significato di trapasso, morte. I defunti sono infatti “addormentati” nella speranza e attesa della Resurrezione; Maria, essendo stata preservata dal peccato originale in quanto Immacolata Concezione (cioè le sono stati applicati in anticipo i frutti della redenzione), ed essendo la prima redenta dal Figlio, segue il Figlio anche nella morte ma, come per Lui, il suo corpo è preservato dalla corruzione [13]. Maria è l’unico essere umano assunto in Cielo anche fisicamente prima del Giorno del Giudizio, dopo essere morta e resuscitata:
“«Alzati, mia compagna, mia colomba, tabernacolo di gloria, vaso della vita, tempio del cielo: come non hai subito la macchia del peccato con la congiunzione carnale, così nel sepolcro non soffrirai della dissoluzione del corpo». E subito l’anima entrò nel piccolo corpo di Maria, che uscì glorioso dal sepolcro, e fu assunto al talamo del cielo accompagnato da una moltitudine di angeli” [14].
Dunque Caravaggio rappresenta il transito della Vergine, la sua morte, e lo fa allestendo una scena semplice nella quale lo spettatore si ritrova nella stanza disadorna dove una donna ha appena concluso la sua vita terrena attorniata da amici affranti.
Soltanto lo scenografico drappo rosso, monumentale sipario [15] pendente dalle travi a vista del soffitto conferisce un’impressione di solennità perché quella donna, dopo tutto, non è una donna qualsiasi, è una donna speciale, la più speciale di tutte, la prediletta: è Maria, la madre di Gesù Cristo.
Maria è distesa su un letto improvvisato, in una posa ancora scomposta: i capelli spettinati, il corpetto slacciato, le braccia abbandonate – la mano sinistra verso lo spettatore; la destra sul ventre che sembra gonfio, sul quale è ripiegato a casaccio un manto appena scuro – le caviglie esposte, i piedi nudi forse in direzione della porta della stanza in un angolo della quale lo spettatore, sgomento, indugia prendendo anche lui parte all’evento.
Sappiamo che si tratta di Maria perché c’è il filo d’oro dell’aureola attorno al suo capo e dal colore del suo vestito, quel rosso che allude alla sua condizione umana (mentre l’altro suo colore canonico, l’azzurro, rimanda al cielo e alla natura divina successivamente assunta come Regina Cœli) e che qui richiama la magnifica tenda. I dolenti attorno – undici uomini male in arnese e una ragazza che piange su una sedia rimediata da un’altra stanza – sono dunque apostoli e discepoli di Gesù.
Caravaggio non ha optato per la più comoda versione della dormitio nella quale, spesso, si vede la Madonna adagiata sul letto mentre la sua anima è accolta tra le braccia del Figlio Gesù; ha scelto piuttosto la versione letterale dell’espressione: per l’esattezza il momento fissato dall’artista è quello immediatamente successivo al transito di Maria; il suo corpo non è ancora stato composto, l’incredulità del dolore è appena all’inizio, l’accento è dunque tutto sul lutto, in un teatro di gesti ed espressioni, di mani e volti che esprimono smarrimento e sconforto: una morte umana, dato che Maria è un essere umano.

Maria è posta al centro della scena, leggermente di traverso rispetto agli statuari apostoli stanti intorno a lei quasi a delineare, trasversalmente, una croce[16] e il suo viso (Fig. 3) è, nonostante la morte, pieno di luce: è giovane e serena, bella, come tutte le madri, anche nella morte. A parte l’età – secondo alcuni apocrifi al momento della morte Maria aveva circa 70 anni – sembra non ci sia nulla di anomalo in questo straordinario dipinto.
Perché allora fu nel giro di pochi giorni rimosso dopo l’esposizione pubblica?
In una lettera al fratello Deifebo datata 14 ottobre 1606 Giulio Mancini scrisse che la
“tavola d’altare dov’è la morte della Madonna attorno con gli apostoli, quale andava nella Madonna della Scala di Trastevere, per essere stata spropositata di lascivia e di decoro, il Frate Scalzo l’ha fatta levare” [17].
Lo stesso Mancini lamentò come
“Alcuni [pittori] moderni per descrivere una Vergine o Nostra Donna vanno retraendo qualche meretrice sozza degli Ortacci
[area nei pressi dell’allora Palazzo Dezza poi Borghese in cui le meretrici di Roma erano confinate, almeno fino a quando qualcuna non diveniva “cortigiana” e quindi poteva migliorare le proprie condizioni di vita e alloggio]
come Michelangelo de Caravaggio che fece nel Transito della Scala, che per tal rispetto quei buoni padri non la volsero” [18].
Va subito sottolineato che la frase non è riferita alla Vergine di Caravaggio – infatti non è nella biografia del maestro – ma ad altri non meglio nominati “pittori moderni”, eppure la si trova troppo spesso associata piè pari alla Morte della Vergine come se fosse stata una critica particolare a questo dipinto: Caravaggio non ha usato “qualche meretrice sozza degli Ortacci” per la sua Madonna perché lo stesso Mancini, non a caso nella biografia dedicata a Merisi, chiarì piuttosto che la pala fu
“fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratta una cortigiana”.
Giovanni Baglione addusse come motivo di rimozione lo scarso decoro della posa della Madonna, senza addentrarsi in ipotesi circa l’identità della modella che aveva posato per la sua figura:
“Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di N. Donna, ma perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu levata via, e la comperò il Duca di Mantova, e la mise in Mantova nella sua nobilissima Galleria” [19].
Giovanni Pietro Bellori, che non poté vedere dal vivo il dipinto essendo ai suoi tempi ormai lontano, scremò le parole di Baglione annotando appena:
“Il Transito della Madonna nella Chiesa della Scala, rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia” [20].
Nessuna delle tre fonti secentesche mette in discussione la correttezza teologica del dipinto; dunque non è nel fatto che la Madonna sia morta che va ricercato il problema, anche perché non va dimenticato che, avendo presentato lo sbozzo, i Carmelitani conoscevano già la composizione del dipinto e come il maestro avrebbe reso la figura della protagonista: di fatto nessuno dei commentatori secenteschi parla di “rifiuto”, ma di rimozione.
Tuttavia, proprio a partire dalle fonti secentesche, sono sorte improbabili leggende che nel corso del tempo, come una valanga, si sono ingrossate al punto da divenire incontrollabili.
La figura della Vergine è setacciata alla ricerca di stravaganze: i suoi piedi nudi potrebbero risultare, sulle prime, spiazzanti. Maria è adagiata su una tavola che non basta a contenerne la persona e i piedi sporgono da essa; non sono proprio in faccia allo spettatore, come nel celebre Cristo di Mantegna (1475 ca., Milano, Pinacoteca di Brera), ma sono certo in piena evidenza: Caravaggio ha dipinto la Madonna a piedi scalzi perché irriverente, irrispettoso o altro? E gli apostoli? Pure loro sono tutti scalzi…
No, Maria e gli apostoli sono scalzi (Fig. 4) perché si tratta di una sottile – ma di certo chiara per i contemporanei del maestro – allusione all’ordine che reggeva la chiesa dove la pala sarebbe dovuta restare esposta, i Carmelitani scalzi…[21] dunque non può essere nemmeno questo il motivo della rimozione dell’opera.

Si nota comunque che Caravaggio rappresenta sempre a piedi nudi, laddove la figura è intera, Gesù (sia Bambino che adulto), la Vergine, gli angeli, san Giuseppe, san Giovanni Battista, san Francesco, apostoli (es. Pietro nella Chiamata di Matteo), martiri[22] e “graziati” a vario titolo.
Neanche la modestia dell’ambientazione pare aver costituito un problema, essendo in linea con la spiritualità pauperista che animava gli Oratoriani cui Caravaggio e molti dei suoi principali mecenati, come ben argomentato da Maurizio Calvesi, erano molto vicini[23] anzi, nonostante ciò, ha comunque qualcosa di innegabilmente solenne senza restare estranea a quella che doveva essere la reale condizione di modestia nella quale la Vergine deve aver passato gli ultimi anni della sua vita terrena, tenendo presente che i dettami della Controriforma raccomandavano di ricreare una scena sacra nel modo più possibile vicino a come si doveva essere verificata, senza esulare o inventare di sana pianta, per non indurre in confusione gli spettatori più “semplici”.
Nella Legenda Aurea Giovanni raccomanda agli altri apostoli
“Fratelli, badate a non piangere quando [Maria] morirà, perché altrimenti la gente potrebbe esserne turbata e dire: «Ecco, guarda come questi temono la morte, e intanto predicano agli altri la resurrezione»”[24]
consapevole che il pianto era una reazione spontanea e inevitabile: dunque, qualunque popolano avesse visto la Morte della Vergine sarebbe stato commosso oltremodo nel riconoscersi in quella scena, così profondamente quotidiana e comune a tutti.
Del tutto umano è dunque lo smarrimento che turba gli apostoli: i due vegliardi a sx (braccia conserte) e al centro (braccia alzate) sono interpretabili come i santi Pietro e Paolo: Paolo, com’è noto, non era uno dei dodici, ma secondo le fonti apocrife era anche lui presente al transito di Maria; mentre il giovane stante al capezzale della Vergine, dal tipico manto verde, può essere identificato in Giovanni, cui Gesù affidò la madre sulla Croce.
Si nota che i modelli hanno posato più volte: lo stesso uomo ha posato per Pietro, Paolo e l’anziano al centro della pala che si porta le mani a pugno per celare le lacrime (Fig. 5 – per il ruolo di Pietro è stata sufficiente una spolverata di bianco sui capelli scorciati ad hoc);

il ragazzo che posa come Giovanni sembra il medesimo che posa inginocchiato davanti al letto col viso celato dalla mano dx e, probabilmente, ha posato anche per una terza figura, dato che la nuca che si intravede dietro Giovanni stante, sulla dx, sembra proprio la sua. Presentando ad ogni modo, anche qui, i tipici riccioli ebraici detti cernecchi (o peót) è possibile identificare in lui il giovane che aveva già posato poco prima, ancora nel ruolo di Giovanni, nella Deposizione vaticana (Fig. 6).

Anche l’unica altra figura femminile, sulla dx della pala, piangente, accartocciata nel proprio dolore[25], è interpretabile come Maria di Magdala (Fig. 7), ha probabilmente posato qui due volte, come si vedrà sotto.

Nelle fonti apocrife non si menziona Maddalena al capezzale della Vergine, ma soltanto alcune non meglio specificate vergini che avevano il compito, presumibilmente, di lavare il corpo che, nella cultura ebraica, era prerogativa esclusivamente femminile, come ricordano anche i Vangeli: in Giovanni (19, 39) Nicodemo fornì alle donne «una mistura di mirra e di alóe» per ungere il corpo di Gesù (cfr. anche Lc 23, 53-56); la mirra (uno dei tre doni offerti al piccolo Gesù dai Magi già interpretato dai Padri della Chiesa come prefigurazione della Passione) era una gomma resinosa che, polverizzata, aveva vari usi tra cui – in virtù dell’odore pungente – quello di contrastare la decomposizione.
Secondo Marco (14, 3-9), durante un pranzo nella casa di Simone il lebbroso a Betania
“una donna recante un vaso di alabastro, colmo di profumo di puro nardo di grande valore, lo ruppe e versò il profumo sul capo di Gesù»;
in un’altra occasione, durante un pranzo nella casa di un fariseo, anch’egli di nome Simone, una donna stavolta indicata come “peccatrice” riserverà un analogo gesto a Gesù, il quale dirà:
“Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura” (Lc 7, 36-50; Mt 26, 12).
Giovanni identificherà la donna con il vaso di alabastro in Maria di Betania, sorella di Marta e Lazzaro, per l’evangelista è lei la donna che ha versato “una libbra d’olio profumato, di nardo puro, di gran valore per ungere i piedi di Gesù” (Gv 12, 1-8): dato che ai tempi di Caravaggio la figura di Maria di Magdala (discepola di Gesù che Lui aveva liberato dai demoni) era fusa e confusa con Maria di Betania (sorella, come si è detto, di Marta e Lazzarro) e con l’anonima peccatrice dei Vangeli, è lecito interpretare la figura femminile piangente nella Morte della Vergine come Maria di Magdala, la quale era pertanto associata direttamente a unguenti per la sepoltura
– “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salomè comprarono oli aromatici per andare a ungerlo” (Mc 16, 1-2; Lc 24, 1-23 non fa invece i nomi delle donne) –
tanto che il vasetto d’unguento diventerà il suo canonico attributo iconografico.
Il catino di rame in primo piano ai suoi piedi è un elemento niente affatto casuale, alludente al lavaggio del corpo (unctura) che, nella cultura ebraica, soltanto le donne potevano praticare; la sepoltura doveva essere eseguita nello stesso giorno della morte e il funerale avveniva senza un ministro di culto ma alla sola presenza di parenti e amici che tessevano le lodi del defunto, prefiche e flautisti (ricordati anche in Mt 11, 16-19 e in Mc 5, 38-40): Caravaggio ha omesso flautisti e quant’altro di superfluo per concentrarsi sul dolore umano per una morte umana, pur riuscendo ad alludere alle tradizioni dell’epoca di Maria inserendo una figura femminile piangente facente funzione anche di prefica con, accanto, il catino e la pezza che pende di traverso. È probabile che il pittore avesse a disposizione, come già nel caso del ciclo Contarelli, dotti consulenti che potessero, alla bisogna, fornirgli chiarimenti o delucidazioni.
Dunque, per gli apostoli e “Maddalena”, tutto nella norma. È necessario allora tornare a Maria, protagonista del dipinto (Fig. 8).

Maria è innegabilmente più giovane rispetto, come si è detto, alle fonti apocrife. Anche nella Pietà di Michelangelo (1498-9, San Pietro, Città del Vaticano) la Vergine appare giovanissima. La fonte di questo particolare è probabilmente da individuare non soltanto nel fatto che Michelangelo, quando perse la madre Francesca, aveva 6 anni – e dunque può aver voluto in qualche modo idealizzare sua madre nella figura della Madonna – quanto in Dante, quando scrive: “Vergine e Madre, figlia del tuo Figlio”[26].
Caravaggio aveva già “citato” il suo illustre omonimo Buonarroti nella Deposizione, nella figura di Nicodemo, e dunque è ragionevole ipotizzare che nel rendere così giovane Maria nella Morte della Vergine possa aver tenuto presente la Pietà e, indirettamente, Dante. Né Caravaggio è l’unico pittore che ha ritratto la Madonna giovane: in decine di Dormitio o Assunzioni è difficile trovare Maria con qualche ruga. Dunque, si può escludere anche il dato anagrafico non coerente con le fonti ma tacitamente accettato dall’iconografia: quando Maria fu rediviva, gli angeli dissero agli apostoli:
“Eccola, è lei, la bella fra le figlie di Gerusalemme, come l’avete vista piena di amore e carità”[27];
Maria, insomma, è ringiovanita, trasfigurata nella Resurrezione.
Cos’altro può esserci, allora, nell’aspetto della Madonna che non è andato bene?
Dalla parola “gonfia” che Baglione e Bellori scrissero alludendo alla sagoma di Maria si sono scatenate le più disparate illazioni: a essere gonfio sarebbe il solo ventre; la modella sarebbe stata gonfia perché affogata; l’affogata era incinta e via gonfiando – è il caso di dirlo! – il dato di partenza.
Nella frase di Bellori “per avervi troppo imitato una donna morta gonfia” persino il verbo è del tutto ignorato in virtù della degenerazione: “imitato” – quello che ogni pittore fa, facendo posare i modelli a imitazione della natura, come una recita a teatro – diventa asserzione della visione, se non dell’impiego, da parte del pittore di un autentico cadavere.
La panzana che Caravaggio impiegasse cadaveri per i suoi dipinti risale a Francesco Susinno, che nella biografia dedicata al maestro scrisse
“per condurre la principal figura di Lazzaro, e di gusto naturalesco, fe’ disseppellire un cadavere già puzzolente di alcuni giorni e poselo in braccio ai facchini che non potendo resistere al fetore volevano abbandonare quell’atto”[28],
condendo ulteriormente la balla con il gesto di frustrazione di Caravaggio il quale, con un pugnale, avrebbe squarciato la tela [29], sulla falsariga di Michelangelo che avrebbe sfondato con una martellata un ginocchio di Mosè (1513, Roma, San Pietro in Vincoli): in entrambi i casi, episodi mai accaduti, ma visto il precedente è possibile che, col tempo, si sia fatta strada e radicata l’ulteriore leggenda circa l’impiego di un altro cadavere da parte del maestro, per ritrarre addirittura la Vergine in questo caso.
La suggestione della meretrice affogata per la Morte della Vergine ha infatti radici lontane: già in Hinks si poteva leggere che la modella era una
“prostituta degli Ortacci; caduta nel Tevere, era stata ripescata già gonfia prima che Caravaggio iniziasse a dipingerla. Quelli che conoscono Trastevere possono sentire il vero accento in cui noiantri [così nel testo, anziché noantri, ndA] raccontarono gli uni agli altri con gusto questi scabrosi dettagli…”[30].
In seguito, dato che Laerzio Cherubini sarebbe stato in relazione con l’Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orazione e Morte (che si occupava della sepoltura dei morti non reclamati affogati nel Tevere), Askew ritenne che Caravaggio avrebbe potuto trovarsi sotto gli occhi corpi femminili ripescati dai confratelli e averli ritratti dal vero a suo comodo [31]; insomma Caravaggio, sulla falsariga di Leonardo e Michelangelo che eseguivano autopsie in quel di Firenze (previo speciale permesso), avrebbe bazzicato obitori – con l’autorizzazione di chi? – alla ricerca di altrettanto realismo per i propri dipinti: nonostante ripescaggi nel Tevere fossero certo frequenti ai suoi tempi si tratta evidentemente di pura fantasia, eppure oggi la maggior parte dei simpatizzanti di Caravaggio crede a questa fola dell’affogata nel Tevere quale modella per la Madonna nella Morte della Vergine.
Ma c’è di più.
Robb, riprendendo la parola “gonfia” di Baglione e Bellori e la frase di Mancini sull’impiego (anche) di cortigiane per il ruolo della Madonna da parte di vari pittori dell’epoca, aveva nel frattempo aggiunto il tocco romantico: la sventurata non sarebbe stata soltanto, in questo caso, annegata nel Tevere, e dunque gonfia perché ripescata qualche ora dopo, ma addirittura “incinta”. Secondo Robb, questa sarebbe la “reale implicazione” dell’espressione “gonfia” usata da Baglione [32].
Ricapitolando, partendo da “cortigiana” (Mancini), aggiungendovi il “gonfia” (Baglione e Bellori), si è tirato fuori dal cilindro “prostituta degli Ortacci” (Hinks), “annegata” (Hinks, Askew) “nel Tevere” (siamo a Roma…), “incinta” (Robb, Langdon, ecc.).
Secondo Calvesi il ventre gonfio, invece, sottintenderebbe
“a Maria «piena di Grazia» sempre gravida della divina Grazia ovvero del corpo di Cristo”;
una spiegazione finalmente razionale e ineccepibile: il ventre gonfio altro non è che un richiamo alla Madre Chiesa [33] presente, tra l’altro, anche nella già menzionata Pietà michelangiolesca, dove il corpo di Maria è monumentale, più grande di quello dello stesso Figlio che tiene sulle ginocchia, allusione anche questa alla Madre Chiesa.
E, infatti, non è nemmeno per questo particolare che il dipinto fu rimosso.
Dunque esclusi eterodossia, modella morta affogata, piedi nudi, contesto umile… qual è il vero probabile motivo, allora, della rimozione della pala?
Cosa può avere davvero causato la rimozione di un dipinto teologicamente corretto, conforme evidentemente allo sbozzo (obbligatorio) preliminare che i rettori di Santa Maria della Scala avevano approvato, e quindi visionato, prima di dare l’ok al maestro per mettersi a dipingere la pala vera e propria, tra l’altro la più grande – e quindi importante e impegnativa – che avrebbe realizzato fino a quel momento?
La Morte della Vergine è l’unico dipinto di Caravaggio rimosso dai committenti pochi giorni dopo la collocazione – la cosiddetta prima versione del San Matteo e l’angelo (1599-1600, già Berlino) non è mai stata rifiutata o rimossa, perché mai veramente destinata all’altare Contarelli, e la Madonna del serpe (1605, Roma, Galleria Borghese) non è stata rifiutata ma “opzionata” da Scipione Borghese, nella collezione del quale, di fatto, ancora si trova –: perché?
L’unico particolare che pare essere oggettivo è che, come scrisse Mancini (Codice Marciano, in parentesi quadre le variazioni del Codice Palatino), Caravaggio ha usato per la figura di Maria una cortigiana.
Nello specifico, una “cortigiana da lui amata”:
“E doppo il Christo Deposto nella Chiesa Nova, li quadri di San Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l’ha adesso [34] il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana [da lui amata, così scrupolosa e senza devozione et in particolare appresso que’ buoni buoni padri]” [35].
I dettami della Controriforma vietavano il ritrarre nei panni di santi, in dipinti destinati a luoghi di culto, persone “particolari” ovvero riconoscibili dal popolo che avrebbe visto quei dipinti nelle tali chiese; il divieto nasceva dal proposito di voler evitare equivoci e reazioni scomposte:
“In nessun modo mai siano ritratti [i santi, ndA] con faccie de particolari e di persone mondane e dagli altri conosciute; perché, oltre l’essere cosa vana et indignissima, verrebbe a rassomigliare un re posto nel trono della sua maestà con la maschera al viso d’un cerettano o d’altra persona ignobile e conosciuta dal volgo per pravatissima, tal che chi la riguardasse, sùbito si movesse a riso oltre molt’altre inconvenienze”[36], con l’unica eccezione che “non dovriano porsi in ritratto se non le persone le quali o con bontà morale o con santità cristiana potessero essere incitamento alle virtù” [37].
Che putiferio si sarebbe scatenato se un pittore avesse dipinto nei panni della Madonna una nota e riconoscibile cortigiana ? È facile immaginarlo.
Si può ritenere che la ricostruzione più probabilmente vicina al vero per la rimozione della pala sia la seguente: qualche giorno, se non ora, dopo l’esposizione del dipinto qualcun altro, oltre a Mancini, ha riconosciuto la “cortigiana da lui amata” che aveva impersonato Maria [38] e ha segnalato la cosa ai Carmelitani che, caduti dal pero (poiché probabilmente – si spera! – non frequentatori di cortigiane), hanno lesti rimosso la pala.
Caravaggio non poté obiettare nulla né rifare eventualmente il dipinto usando un’altra anonima modella perché ormai già contumace per la morte di Ranuccio Tomassoni, quindi impossibilitato a una qualsivoglia replica.
In altre parole la Morte della Vergine è stato rimosso per l’identità della modella.
Ma chi può essere questa cortigiana da Caravaggio amata, ritratta nei panni della Vergine tra 1602 e 1603 per la pala Cherubini, della quale Mancini tace il nome?
Non Anna Bianchini, prostituta amica della più famosa Fillide Melandroni, che pare aver posato per almeno tre dipinti giovanili di Caravaggio: dato che Anna aveva i capelli fulvi, si è proposto di identificarla nella Maddalena penitente (1595, Roma, Galleria Doria Pamphili)), nel Riposo durante la fuga in Egitto (1597, Roma, Galleria Doria Pamphili) e in Marta e Maddalena (1597, Detroit, Detroit Institute of Arts, nei panni di Marta, assieme a Fillide che posa per Maddalena) perché in questi dipinti la modella in questione ha i capelli tendenti al fulvo, ma non sono emersi finora riscontri documentali inoppugnabili. Nella Morte della Vergine, comunque, Maria non ha i capelli rossi; questo dovrebbe essere sufficiente a smontare questa ipotesi, alla quale va aggiunto il dato di fatto che Anna, dopo i suddetti dipinti giovanili, non posa più per Caravaggio e sembra essere oltretutto morta nel 1604, quando cioè il pittore aveva probabilmente già terminato il dipinto da tempo.
Dunque Anna Bianchini non può essere la Vergine della pala Cherubini, anche perché, a differenza dell’amica Fillide, non risulta abbia fatto fortuna come “cortigiana”, non ha avuto cioè clienti facoltosi e noti che potessero migliorare la sua condizione – e quindi non corrisponde alla specifica usata da Mancini – tanto che pare essere rimasta, per i circa venticinque anni della sua vita, una meretrice di basso livello [39].
Non la giovane mora che poserà in seguito per la Madonna di Loreto o dei Pellegrini (1605, Roma, Sant’Agostino) e per la Madonna del serpe (1605-6, Roma, Galleria Borghese), creduta da alcuni la nota cortigiana Lena Antognetti [40].
I lineamenti di questa – che compare perciò soltanto dopo il 1605 nei dipinti del maestro – paragonati a quelli della modella della Madonna della Vergine risultano evidentemente diversi e, inoltre, se davvero Lena Antognetti ha posato per la Madonna di Loreto è da capire come mai, essendo una cortigiana tanto celebre, nessuno l’abbia riconosciuta e il dipinto sia rimasto indisturbato al suo posto sull’altare in Sant’Agostino.
Quindi, chi poteva essere tra 1602-1603 la cortigiana amata da Caravaggio che poteva posare per lui ed essere tanto nota da venire riconosciuta da un delatore al momento dell’esposizione pubblica della pala Cherubini anni dopo?
L’unica che corrisponde all’identikit è Fillide Melandroni (Fig. 9), la modella più ricorrente nei dipinti del maestro [41], la quale sebbene nel 1606 – al momento dell’esposizione della Morte della Vergine – aveva già abbandonato la carriera, era certamente ancora famosa e presente nella memoria del volgo e dei suoi altolocati clienti.


Come già qui argomentato, la bella senese aveva due peculiarità fisiche molto particolari che la rendevano unica e perciò inconfondibile: la rima ciliare sx leggermente più bassa rispetto alla dx e una deformità digitale all’anulare sx (mordo di Duyputren) visibile chiaramente sia nella Santa Caterina d’Alessandria (1597, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza) che in SS. Marta e Maddalena (1597, Detroit, Institute of Arts).
Nella Morte della Vergine, avendo la modella gli occhi chiusi, la rima ciliare inferiore sx non si può apprezzare, ma la mano sx sì. Ingrandendo molto il particolare pare proprio che la mano sx di Maria (Fig. 10) abbia lo stesso difetto della mano sx di Fillide Melandroni, per quanto mimetizzato il più possibile: pur cercando di non renderla riconoscibile, il maestro sembra aver comunque registrato, probabilmente in modo inconscio, questo dato naturale (Fig. 11).


Va da sé che Fillide ha soltanto posato nei panni di Maria, non era cioè intenzione di Caravaggio farle qui un vero e proprio ritratto (sebbene una certa qual somiglianza comunque ci sia – Fig. 12), ma soltanto adattarla al personaggio che doveva interpretare stavolta. Tuttavia a un certo punto qualcuno, evidentemente molto fisionomista, si è reso conto che si trattava di lei dando così il via al processo che avrebbe condotto alla rimozione del dipinto.
In conclusione, la “cortigiana da lui amata” che ha posato per la Morte della Vergine nei panni di Maria è quasi certamente Fillide Melandroni.
Indizi piuttosto precisi, gravi e concordanti fanno di questa una concreta possibilità, aggiungendo un tassello in più alla conoscenza (in mancanza di documenti, probabilmente inesistenti, che attestino nero su bianco l’identità dei modelli) del modo di lavorare di Caravaggio e del gestire quella che sempre più pare essere stata una “compagnia” di figuranti che passavano spesso da un quadro all’altro cambiando appena costume e, altrettanto spesso, interpretando a volte più personaggi nella stessa tela.
Anche nella Morte della Vergine, si è visto, alcuni apostoli sono interpretati dallo stesso modello, ma anche le due figure femminili di questa pala, Maria e Maddalena, sono impersonate dalla stessa modella, ovvero anche qui, come nella Deposizione, Fillide posa due volte: lì come Maria di Cleofa e Maddalena, qui come Maria e Maddalena (ruolo, quello di Maddalena, che tra l’altro la cortigiana aveva già interpretato nel Marta e Maddalena nel 1597).
All’elenco dei dipinti in cui Fillide Melandroni ha posato per Caravaggio in doppio ruolo si può aggiungere dunque, dopo il Martirio di Matteo (radiografie) [42] e Deposizione, anche questo. Infine la modella che nella Morte della Vergine posa per Maddalena ha quasi gli stessi acconciatura e abito visibili nella Deposizione: altro fattore che fa propendere per una datazione precoce della Morte della Vergine, appunto tra 1602 massimo 1603 [43].
Anche nella perduta Natività coi SS. Lorenzo e Francesco (1609, già Palermo – Fig. 13) si rileva una – vaga – somiglianza tra Fillide Melandroni e la modella che posa, di nuovo, nei panni della Madonna: la giovane ha gli occhi bassi, dunque non si può verificare il particolare della rima ciliare, ma la mano sx si nota bene e non pare essere interessata da alcuna difformità.

Già in tempi ormai lontani si ipotizzò che la Natività potesse essere l’ignoto dipinto eseguito da Caravaggio a Roma nel 1600 per il senese Fabio de Nutis di cui risultano documentati il pagamento (anticipo e saldo nell’aprile e novembre 1600) e misure, palmi 12×7 (o 8), ovvero circa 268×156 cm, ma del quale si ignorano soggetto “cum figuris”[44] e destino[45]; riemersa in tempi recenti[46], la teoria rimane tuttavia senza nessun riscontro documentale oggettivo o risolutivo: a conti fatti, la “pala de Nutis” resta non pervenuta. Non è infatti possibile ritenere che sia la Natività non soltanto per le misure leggermente divergenti[47] (la Natività misura 268×197, ovvero essendo il palmo romano corrispondente a 22,34 cm, è seppur di poco più grande della pala de Nutis), quanto per la presenza – questa sì oggettiva e incontestabile – nel dipinto trafugato nel 1969 di un modello già visto appena un anno prima, nel 1608, nella maltese Decollazione di Giovanni Battista (1608, La Valletta, Oratorio di San Giovanni dei Cavalieri): basta dare un’occhiata al carceriere che perentorio indica al boia di spiccare definitivamente la testa a Giovanni per rendersi conto che il modello è lo stesso che nella Natività siciliana appare sulla dx come pastore incappellato e che apparirà, poco dopo, come dolente che si terge le lacrime con un fazzoletto nel Seppellimento di santa Lucia (1608, Siracusa, Santuario di Santa Lucia al Sepolcro).
Se la fisiognomica non è un’opinione si deve convenire che il soggetto è il medesimo: identiche le pinnule prominenti, le rughe sotto agli occhi e sulla fronte, la stempiatura dei capelli, nonché l’impressione generale (Fig. 14). Si tratta senza dubbio dello stesso uomo in tre dipinti del 1608; dunque la Natività non è la pala de Nutis dipinta a Roma nell’anno 1600, a meno che non si voglia supporre Caravaggio persino veggente, capace di ritrarre nel 1600 a Roma un soggetto che avrebbe incontrato otto anni dopo a Malta.

Com’è allora che questo soggetto lo si trova in tre dipinti eseguiti il primo a Malta e i restanti due in Sicilia mesi nei mesi successivi? Più che romanzare improbabili viaggi del modello al seguito del pittore va trovata la spiegazione nella semplice, ovvia pratica che tutti i pittori figurativi – Caravaggio compreso – esercitano: il disegno. Trovando (a Malta si presume) interessante il volto del modello che ha posato come carceriere nella Decollazione è probabile (e anche logico, per la forma mentis di un pittore) che il maestro abbia tratto più disegni, da diverse angolazioni, del medesimo; disegni che poi, evidentemente, gli sono tornati utili poco dopo in Sicilia.
Va ricordato che in Sicilia Caravaggio ha vissuto e lavorato diversi mesi dopo la fuga da Malta, non era insomma esattamente “sconosciuto”[48] o in incognito, visto che ovunque si è presentato col proprio nome e spendendo il titolo di Cavaliere, ma può aver eseguito in tempi comunque stretti il Seppellimento di Lucia e poi la Natività (1609) usando sia modelli fisici in carne e ossa trovati sul posto e fatti posare, com’è noto, uno per uno, sia disegni di repertorio che certamente, come tutti i pittori, si portava dietro: un mix tra Natura & Invenzione, come già testimoniato anche dal marchese Giustiniani. Da smontare subito l’ipotesi che il maestro dipingesse ritratti “a memoria”: si può ritrarre a memoria una persona soltanto se la si conosce estremamente bene, se la sua immagine è impressa profondamente nella mente, ed è comunque disagevole; un modello occasionale che ha colpito l’immaginazione, per quanto singolare, necessita di essere appuntato graficamente (cfr. Leonardo, ecc.) per essere tirato fuori “dal cassetto” alla bisogna, come pare appunto aver fatto Caravaggio nei tre suddetti dipinti.
Tornando alla Natività, la presunta somiglianza della ragazza che impersona Maria puerpera con Fillide Melandroni si può spiegare ancora in questo modo: negli anni in cui Fillide è stata la principale, più ricorrente modella di Caravaggio, è senz’altro possibile che il maestro l’abbia fissata in disegno in più pose, da più angolazioni, tenendo quei disegni con sé fino a quando gli sarebbero potuti ritornare utili; ecco spiegata l’eventuale “presenza” di Fillide nella Natività del 1609, sempre ipotizzando che si tratti di lei, con anche la spiegazione del perché qui ella non presenta sulla mano sx la caratteristica peculiarità di cui sopra.
Tuttavia la somiglianza con Fillide è soltanto un’impressione, un riverbero: la modella che impersona Maria nella perduta Natività sembra piuttosto essere stata una modella siciliana, del luogo (che non ha nessuna peculiarità alla mano sx) e che pare essere la ragazza che aveva posato come Lucia nel Seppellimento di santa Lucia (1608); poi nel doppio ruolo di Marta e Maddalena nella Resurrezione di Lazzaro (1608-9, Messina, Museo Regionale); ancora come Maria nell’Adorazione dei Pastori (1609, Messina, Museo Regionale): infine come Orsola nel Martirio di sant’Orsola (1610, Napoli, Palazzo Piacentini – Fig. 15): a parte il maggior apprezzamento della mascella pronunciata nella Resurrezione di Lazzaro e nel Martirio di sant’Orsola, la somiglianza appare comunque significativa.

Tuttavia anche in questo caso Caravaggio, avendo replicato i lineamenti della giovane in dipinti licenziati in città e momenti diversi, è probabilmente ricorso al disegno, traendo un repertorio in occasione del primo incontro, sempre a meno che non si voglia pensare che si sia portato dietro pure questa modella per mezza isola.
I disegni, cartoni, ecc., che un pittore porta con sé nei vari spostamenti spiegano anche perché nella Natività già Palermo la sagoma dell’aitante giovane in primo piano in basso a sx – supposto san Giuseppe, per quanto anomalo, che ritengo infatti essere piuttosto uno dei pastori – sia replica puntuale della figura dipinta da Giuseppe Cesari entro il 1593 in analoga posizione nel San Matteo resuscita la figlia del d’Etiopia affrescato sulla volta della cappella Contarelli (Fig. 16):

l’allora giovanissimo Caravaggio, una volta entrato nella bottega di Cesari, deve aver visto e evidentemente gradito quella figura, l’ha copiata come qualunque pittore fa per poi riusarla quando gli è servita tramite il disegno/cartone… dunque nemmeno la vicinanza di queste due sagome può essere prova che la Natività già Palermo sia stata dipinta a Roma nell’anno 1600; senza contare che se la Natività fosse stata dipinta a Roma vi dovrebbero comparire alcuni dei modelli che comparivano puntualmente in quegli anni nei dipinti del maestro, e invece qui sono tutti diversi, tutti new entry.
Stesso discorso e spiegazione per l’angelo recante il cartiglio nella Natività che è la sagoma, ribaltata, dell’angelo del San Matteo e l’angelo dipinto per l’altare della cappella Contarelli dal maestro nel 1602 (Roma, San Luigi dei Francesi – Fig. 17): un disegno riportato (con qualche variante) a distanza di anni, nient’altro.

Né Caravaggio è nuovo al ripetere, anche a distanza di anni, le sagome: es. nella summenzionata Resurrezione di Lazzaro, la figura di Gesù è speculare – quindi tratta da un cartone ribaltato – a quella di Gesù nella Chiamata di Matteo dipinta a Roma otto anni prima (Fig. 18); insomma Caravaggio usava e riusava cartoni come qualunque pittore figurativo di ieri e di oggi[49].

Ad ogni modo, la Morte della Vergine, rivelatasi incompatibile alla devozione in una pubblica chiesa per l’ormai evidentemente nota identità della modella impiegata per Maria, fu messa sul mercato: sfuggita a Giulio Mancini – che, nonostante l’avesse lamentata come si è visto “spropositata di lascivia e decoro” era disposto ad accaparrarsela per una somma considerevole – fu infine acquistata, dietro suggerimento di Pieter Paul Rubens, da Vincenzo I Gonzaga Duca di Mantova.
Prima di lasciare Roma, la pala fu esposta per qualche giorno tra il 14 e il 21 aprile 1607 nel palazzo di Giovanni Magni, ambasciatore ducale in Roma, affinché gli altri pittori potessero ammirarla. In seguito il dipinto fu alienato a Carlo I d’Inghilterra e, dopo la tragica morte di quest’ultimo nel 1649, fu acquistato dal banchiere parigino Everhard Jabach per essere poi da questi ceduto a Luigi XIV per raggiungere infine la sua sede attuale[50].
Dopo la rimozione della pala caravaggesca i Carmelitani Scalzi si rivolsero a Carlo Saraceni per un dipinto sostitutivo di analogo tema. Saraceni optò per una Dormitio decisamente meno drammatica rispetto a quella di Caravaggio in cui Maria appare, ancora viva, nel suo letto in attesa del transito. Questa prima versione (1610, 305×231) è oggi al Metropolitan Museum of Art di New York perché, come riportò Fioravante Martinelli nel suo Roma ornata dall’Architettura, Pittura e Scoltura i padri ci ripensarono e, anziché uno sfondo architettonico, chiesero allo stesso pittore di redigere una seconda versione (459×273 cm) con una schiera d’angeli, in effetti ancora in loco[51]: ancora vivo Cherubini († 1626 ca.) sono i Carmelitani Scalzi, stavolta, a chiedere altri due dipinti a un altro pittore; nemmeno in questo caso, comunque, la prima versione fu “rifiutata” ma soltanto sostituita.
Nonostante tutto, la Morte della Vergine resta uno dei dipinti più commoventi di Caravaggio, terreno e sublime insieme, proprio come la sua pittura.
©Claudia RENZI Roma, 25 Maggio 2025
NOTE
[1] Il contratto in Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Notai dell’Auditor Cameræ, not. Mercurius Accursi, vol. 9, c. 293rv, è pubblicato in Stefania Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, Roma, 2010, p. 133, Doc. 526; Antonella Cesarini, I documenti, in: Michele Di Sivo, Orietta Verdi (a cura di), Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, Roma, 2011, pp. 232-272, p. 250; Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, 2005, pp. 493-94 (Scheda).
[2] Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre et profane diviso in cinque Libri. Dove si scuoprono varij abusi loro, et si dichiara il vero modo che christianamente si doveria osservare nel porle nelle chiese, nelle case, & in ogni altro luogo. Raccolto & posto insieme ad utile delle anime per commissione di Monsignore Illustriss. & Reverendiss. Card. Paleotti Vescovo di Bologna. Al popolo della Città & Diocese sua, Bologna, 1582.
[3] Girolamo Rusticucci, Editto per gli altari e le pitture.
[4] M. Marini, op. cit., p. 494, ipotizza, considerando anche il fatto che il Transito della Vergine di Carlo Saraceni (1610-2) attualmente in Santa Maria della Scala a sostituzione del dipinto di Caravaggio è molto più grande, un decurtamento per adattare il dipinto da pala d’altare a opera da collezione.
[5] Propendono per una datazione precoce della Morte della Vergine oscillante tra 1601 e 1603 Matteo Marangoni, Il Caravaggio, Firenze, 1922; Hermann Voss, Caravaggio Frühzeit. Beiträge zur Kritik seiner werke und seiner Entwicklung, in: «Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen», n. 44, 1923, pp. 73-98; Ermanno Arslan, Appunto su Caravaggio, in: «Aut Aut», n. 5, 1951, pp. 444-451; Ebherard König, Michelangelo Merisi da Caravaggio 1571-1610, Colonia, 1997, pp. 108-13, nn. 97-98; Catherine Puglisi, Caravaggio, Londra, 1998, pp. 186-88, 400; Timothy Wilson Smith, Caravaggio, Londra, 1998, p. 76, n. 23.
[6] M. Marini, op. cit., pp. 493; 494.
[7] Carlo Borromeo, in: Stefano Della Torre, Massimo Marinelli (a cura di), Carlo Borromeo. Instructionum Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae Libri II. Caroli S.R.E. Cardinalis tituli s. Praxedis, Arichiepiscopi iussu, ex provinciali Decreto editi ad provinciae Mediolanensis usum, Milano, 1577, Città del Vaticano, 2000, p. 71 (Cap. XVII, Le sacre immagini o le pitture).
[8] A. Cesarini, op. cit., p. 250.
[9] Jacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, 1995, p. 634 (L’Assunzione della Beata Vergine Maria, pp. 632-657).
[10] Per gli apocrifi si veda Mario Erbetta (a cura di), Apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, 1983 [1981], 3 voll.; Luigi Moraldi, Tutti gli Apocrifi del Nuovo Testamento, Milano, 1994, 2 voll.
[11] Il Transito di Maria identifica chiaramente “l’apostolo da Lui amato” ai piedi della Croce con Giovanni, da qui probabilmente nasce la convenzione artistica.
[12] J. da Varazze, op. cit., p. 635.
[13] Il dogma dell’Immacolata Concezione, sebbene materia di dibattito da secoli, fu proclamato soltanto nel 1854; quello dell’Assunzione nel 1950.
[14] J. da Varazze, op. cit., p. 637.
[15] Espediente “teatrale” già visto in Caravaggio, es. nel Giuditta e Oloferne (1599, Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica Palazzo Barberini).
[16] Una croce era già comparsa nei dipinti in San Luigi dei Francesi, Chiamata di Matteo (1599-1600) e nel dirimpettaio coevo Martirio di Matteo: evocata nel primo dalle assi della finestra, nel secondo dalle braccia spalancate dell’apostolo.
[17] Per Giulio Mancini si veda Adriana Marucchi, Luigi Salerno (a cura di), Giulio Mancini. Considerazioni sulla Pittura, 1617-21, Roma, 1956-57, 2 voll.; per le lettere al fratello a Siena si veda anche Michele Maccherini, Caravaggio nel carteggio familiare di Giulio Mancini, in: «Prospettiva», LXXXVI, 1997, pp. 71-92.
[18] A. Marucchi, L. Salerno, op. cit., I, p. 224, n. 26.
[19] Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti. Dal pontificato di Gregorio XIII del 1572. In fino a’ tempi di papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1642, p. 138.
[20] Giovanni Pietro Bellori, Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, scritte da Gio: Pietro Bellori, Roma, 1672, p. 231.
[21] Come già notato da C. Puglisi, op. cit.
[22] Con l’unica eccezione della Natività (1609, già Palermo) nella quale san Lorenzo, vestito con abiti diaconali, ha calzature. Nello stesso dipinto, il presunto san Giuseppe – il nerboruto giovane in basso a dx – ha scarpe, molto probabilmente perché non è san Giuseppe, ma semplicemente uno dei pastori.
[23] Maurizio Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, 1990, pp. 147-52.
[24] J. da Varazze, op. cit., p. 634.
[25] Sandro Benedetti, Classical and religious influences in Caravaggio’s painting, in: Franco Mormando (a cura di), Saints and sinners: Caravaggio and the Baroque Image, Boston, 1999, pp. 208-35, p. 211-2, ravvisò una vicinanza con la figura accovacciata di dolente sulla sx nel sarcofago raffigurante il Mito di Oreste ai tempi di Caravaggio proprietà di Vincenzo Giustiniani.
[26] Dante, Divina Commedia, XXXIII, Paradiso, 1-39.
[27] J. da Varazze, op. cit., p. 635.
[28] Francesco Susinno, Le vite de’ pittori messinesi e di altri che fiorirono in Messina, Messina, 1724, f. 120v (Vita di Michelangelo Morigi pittore da Caravaggio, pp. 115-124).
[29] F. Susinno, op. cit., f. 119v.
[30] Robert Hinks, Hinks Caravaggio’s “Death of the Virgin”, Oxford, 1953, p. 4.
[31] Pamela Askew, Caravaggio’s Death of the Virgin, Princeton, 1990, pp. 8-16.
[32] Peter Robb, M. L’enigma Caravaggio, Milano, 2001 [1988], p. 310.
[33] Maurizio Calvesi, Caravaggio, in: «Art Dossier», n. 1, 1986, p. 48; Calvesi, Caravaggio o la ricerca della salvazione, in «Storia dell’Arte», 9-10, 1971, pp. 93-142 [ripubb. in: M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino, 1990, pp. 279-310].
[34] Il manoscritto di Mancini è datato al 1620 circa.
[35] A. Marucchi, L. Salerno, op. cit., I, p. 224.
[36] G. Paleotti, op. cit., p. 157; 168, sulla scia dell’ancor più radicale Borromeo (Istruzioni): “Aver cura di non riprodurre a bella posta l’effigie di un altro uomo vivente o morto”.
[37] G. Paleotti, op.cit., p. 158.
[38] Anche Roberto Longhi si domandò se il motivo non fosse questo, pur non andando oltre in approfondimenti. Si veda Giovanni Previtali (a cura di), Roberto Longhi. Caravaggio, Roma, 2006 [1982], p. 62.
[39] Per una ricostruzione della figura di Anna Bianchini si veda Riccardo Bassani, Fiora Bellini, Caravaggio assassino. La carriera di un «valenthuomo» fazioso nella Roma della Controriforma, Roma, 1994.
[40] P. Robb, op. cit., p. 310; Stefano Zuffi, Caravaggio. Simboli e segreti, Milano, 2010, p. 182, si spinge oltre: per la figura di Maria nella Morte della Vergine, Caravaggio si sarebbe ispirato “alla macabra immagine del cadavere di Lena Antognetti”; tuttavia la cortigiana è morta ben dopo la realizzazione della pala.
[41] Rimando per questo al mio precedente contributo su queste pagine: Claudia Renzi, Caravaggio e il ritratto femminile: Fillide Melandroni. Una storia di modelle e di riconoscimenti, https://www.aboutartonline.com/caravaggio-e-il-ritratto-femminile-fillide-melandroni-una-storia-di-modelle-e-di-riconoscimenti/ su «About Art online» del 06.08.2023.
[42] Approfondisco la questione nel mio saggio di prossima pubblicazione sulla cappella Contarelli.
[43] In merito alla figura di Maddalena nella Morte della Vergine è da qualche anno emerso un dipinto che ritrae questa sola figura, detto Maddalena addolorata (coll. privata), presentato quale autografo di Caravaggio se non addirittura il primo “dry out” del maestro, o in alternativa “parte dello sbozzo” per la pala Cherubini; ribadendo che lo sbozzo aveva carattere generale – “esibire il cartone, o sbozzo in disegno dell’historia”, il quadro comunque va considerato posteriore alla Morte della Vergine. Per il dipinto si veda Fabio Scaletti, La ridda delle attribuzioni, in: Claudio Strinati (a cura di), Caravaggio Vero, Reggio Emilia, 2014, pp. 347-349, p. 362; 386 n. 93 con bibliografia precedente. E, su questa rivista, ancora a firma Scaletti ( https://www.aboutartonline.com/la-maddalena-addolorata-o-piangente-un-inedito-documento-ne-certifica-lattribuzione-a-caravaggio/ )
[44] Il contratto è in ASR, TNC, Ufficio 30, Curia del Cardinal Vicario, not. Franciscus de Romaulis, vol. 54, cc. 156rv, 169r; S. Macioce, op. cit., pp. 114-115, Doc. 490.
[45] L’ipotesi fu avanzata da Enrico Mauceri, Il Caravaggio in Sicilia e Alonso Rodriguez pittore messinese, in: «Bollettino d’Arte» XVIII, 1924-5, pp. 559-571.
[46] Michele Cuppone, Caravaggio. La Natività di Palermo: un quadro del 1600 o del 1609?, in: «News Art», 1, genn. 2016 [dicembre 2015]; M. Cuppone, La Natività di Palermo: prima pala d’altare per Caravaggio?, in: «Valori tattili», 2017, pp. 61-83.
[47] Aveva segnalato incompatibilità tra le misure indicate nel contratto de Nutis e quelle della perduta Natività (268×197), e manifestato conseguente scetticismo circa l’identificazione delle due opere, Luigi Spezzaferro, La cappella Cerasi e il Caravaggio, in: Caravaggio, Carracci, Maderno. La cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 9-34 [poi in: Paolo Coen (a cura di), Luigi Spezzaferro. Caravaggio, Milano, 2010, pp. 179-211, p. 207, n. 19].
[48] G. P. Bellori, op. cit., p. 217: “Iscavalcata di notte la prigione, fuggì sconosciuto in Sicilia”.
[49] Per altri esempi di sagome ribaltate in Caravaggio a distanza di anni, si pensi alla sagoma di Davide nel Davide con la testa di Golia (1606, Roma, Galleria Borghese) e a quella, speculare, del boia nella Salomè con la testa del Battista (Londra, National Gallery) che risale al 1607; cfr. per questo C. Renzi, Caravaggio: dalla corruzione delle fonti alla leggenda del pittore maledetto, https://www.aboutartonline.com/non-li-hobsti-laver-in-rissa-commesso-un-homicidio-caravaggio-dalla-corruzione-delle-fonti-alla-leggenda-del-pittore-maledetto/ su «About Art online» del 28.01.2024.
[50] Sulle vicende del dipinto si veda M. Marini, op. cit., pp. 494-5; Barbara Furlotti, Le collezioni Gonzaga. Lettere fra Roma e Mantova, Cinisello Balsamo, 2003, p. 488, Docc. 714 e ss.
[51] Cesare D’Onofrio, Roma nel seicento, Firenze, 1969, p. 134: “S. Maria della Scala. […] Nella seconda cappella a mano manca di Lærtio Cherubino compilatore del Bollario Romano, et celebre avvocato criminale haveva Carlo Venetiano fatto un bellissimo quadro col transito della Madonna con Apostoli, et altre figure, e di sopra con una prospettiva. Fu posto in opera per poco tempo e grandemente lodato, ma perché i Padri vi volevano la gloria con angeli in cambio di detta prospettiva, egli si ripigliò il quadro che fu mandato à Venetia, et in pochi giorni [in realtà diversi mesi, 1610-1612] fece quello che hora si vede”.
BIBLIOGRAFIA
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Adriana Marucchi, Luigi Salerno (a cura di), Giulio Mancini. Considerazioni sulla Pittura, 1617-21, Roma, 1956-57, 2 voll.
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Barbara Furlotti, Le collezioni Gonzaga. Lettere fra Roma e Mantova, Cinisello Balsamo, 2003
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Catherine Puglisi, Caravaggio, Londra, 1998
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Claudia Renzi, Egli non traccia un solo tratto senza aderire alla natura. Leonardo, Caravaggio e l’imprescindibile pratica del disegno, https://www.aboutartonline.com/egli-non-traccia-un-solo-tratto-senza-aderire-alla-natura-leonardo-caravaggio-e-la-imprescindibile-pratica-del-disegno/ su «About Art online» del 01.12.2024
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Claudio Strinati (a cura di), Caravaggio Vero, Reggio Emilia, 2014
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