Parla Riccardo Lattuada: “Giacomo Farelli ? Una ‘damnatio memoriae’ inspiegabile: fu uno dei più grandi pittori del Seicento napoletano”

P d L

Abbiamo incontrato Riccardo Lattuada per discutere del suo recente libro, cofirmato con  Laura Raucci e dedicato alla figura e all’opera di un artista quasi negletto (eccetto a pochi addetti ai lavori, esperti di pittura napoletana secentesca) cioè Giacomo Farelli che, al contrario, risulterebbe, dopo quella sorta di damnatio memoriae cui è stato oggetto, degno di una vera e propria riabilitazione, al punto di doverlo ora considerare uno dei massimi esponenti della pittura partenopea negli anni in cui brillarono autori come Giordano, Solimena, De Matteis. Ma per il coautore del volume, notissimo docente universitario partenopeo, autore di pubblicazioni ed eventi culturali così numerosi che è impossibile darne conto in questa sede, la discussione su Farelli è anche l’occasione per un vero grido di dolore per lo stato complessivo dei nostri beni artistici e culturali rispetto a cui il volume su Farelli fotografa, come scrive, “questo spirito del tempo”.

-Iniziamo proprio da questa “inspiegabile” damnatio memoriae; possiamo cercare di capirne i motivi?

R: Intanto cominciamo col dire che nella biografia redatta da Bernardo De Dominici tra il 1742 e il 1744 Giacomo Farelli veniva inserito tra i primi quattro o cinque grandi maestri napoletani del tempo; dopo di che inizia un curioso processo di ridimensionamento; la sua figura affonda, diciamo così, in voci di dizionari e bibliografie compilative e si perde totalmente la nozione di quello che era stato il suo ruolo nell’arte di Napoli.

-Ecco, ma i motivi di questa perdita?

R: Secondo me Farelli è stato rapidamente dimenticato soprattutto per due motivi: in primo luogo perché molte delle sue opere fondamentali, veri e propri capolavori, sono andate perdute nel corso del tempo; ad esempio pensiamo agli affreschi nella chiesa napoletana di san Luigi di Palazzo, distrutti quando la chiesa venne demolita per edificare l’emiciclo neoclassico di san Francesco di Paola, e perciò dimenticati insieme alla forza creativa di chi li aveva realizzati; inoltre c’è il fatto che egli operò molto in Abruzzo, terra martoriata da sciagure e distruzioni dovute a terremoti e cataclismi vari verificatisi fino ai nostri giorni. Oltre alla distruzione di opere d’arte importantissime, questi eventi hanno causato anche la perdita della memoria degli autori; pensa al caso di Nicola da Guardiagrele, straordinario orafo vissuto nel Quattrocento, che nel Sei e Settecento era praticamente ignorato. Ma poi tanti artisti dell’età barocca sono stati negletti e solo in tempi recenti li si sta rivalutando. Un esempio importante è quello di Carl Borromäus Andreas Ruthart, nato a Danzica nel 1630 ma operante all’Aquila -dopo aver preso i voti della Congregazione dei Celestini- dove morì agli inizi del Settecento: fu conosciuto come eccezionale animalista, ma anche autore del ciclo di San Pietro da Morrona nella basilica aquilana di santa Maria di Collemaggio, e la mia impressione – che mi pare abbia trovato consensi in recenti interventi – è che le sue invenzioni di eccellente animalista per così’ dire ‘mistico’ abbiano influenzato profondamente opere come Oltre il diluvio oggi a Capodimonte, straordinario tour de force dell’Abruzzese Filippo Palizzi eseguito nel 1860. Farelli, insomma, ha anch’egli subito questa sorte, con l’aggravante che il suo recupero non è stato agevolato dalla ben maggior fortuna goduta, a partire dall’ultimo dopoguerra, da artisti certamente insigni come Luca Giordano, Francesco Solimena, Paolo de Matteis (un po’ meno), e Giacomo del Po (ancor meno, forse). Ma va anche rilevato che in alcuni passaggi di contributi di grandi studiosi come Oreste Ferrari, e soprattutto in un nitido intervento di Evelina Borea sugli affreschi di Farelli nella Sala delle Baleari nel Palazzo dei Consoli del Mare a Pisa, ritroviamo aperture critiche di cui ci siamo giovati nella nostra ricerca.

Tu scrivi nel volume a due mani con Laura Raucci che, cito, “Nella storia di Farelli sembra di poter intravedere un’appartenenza ad ambienti sociali diversi da quelli del tipico artista meridionale …” e poco più oltre “sul piano sociale Farelli non mostra niente di simile ai caratteri tipici degli artisti meridionali …”; ti chiedo: potrebbe essere anche questa diversità, per non dire alterità, una delle cause del suo progressivo entrare nell’ombra?

R: Sicuramente negli interventi novecenteschi su Farelli non si è valutata adeguatamente la valenza sociale, di lignaggio, insita nella sua carriera. Di certo, la sua posizione sociale non proprio marginale è uno dei motivi che ne hanno facilitato la carriera in Abruzzo, dove era considerato un signore tanto come persona che come artista. In questa veste, che certo lo avrà aiutato, le commissioni le ha però conseguite da vero professionista e non come semplice amatore della pittura; anche perché non era certo un’epoca in cui i pittori amatoriali o i dilettanti potessero aspirare a committenze importanti.

Ecco, a proposito dell’epoca, una osservazione che mi viene di fare riguardo al contenuto del volume è che forse un approfondimento sul contesto andava fatto, è una parte del volume che mi sembra meno curata.

R: Forse è vero, ma avevamo a disposizione molte meno notizie sotto questo aspetto; ad esempio il fatto che Farelli fosse stato Governatore dell’Aquila lo si desume da documenti quasi muti, ma non ci sono notizie – almeno finora – su cosa e come abbia lavorato in quel contesto. E tuttavia, al di là di ciò, va notato che diventare governatore di una città come l’Aquila, non certo la meno importante del Viceregno, non accade senza avere stima e considerazione, nonché ovviamente appoggi ad alti livelli, tant’è che io ho ipotizzato che a spingerlo a quella carica fossero i duchi d’Atri, piuttosto che i d’Avalos o altri dello stesso lignaggio. Abbiamo cercato a lungo negli archivi qualche nota che chiarisse almeno in parte la valenza politica della sua azione, ma non è emerso nulla; diciamo che noi abbiamo messo per la prima volta in evidenza questi problemi, poi chissà, magari qualcun altro sarà più fortunato e capiremo di più.

-Anche sulla nascita di Farelli non si è fatta definitiva chiarezza; tu ad esempio pensi che sia nato a Roma …

R: In effetti secondo diverse fonti sarebbe nato a Roma da genitori di Trapani e Sorrento, ed anche questa circostanza non trova al momento una spiegazione, e tuttavia è palese che la famiglia dev’essere vissuta per lo più a Napoli; oltre tutto è evidente che lì Farelli si è formato artisticamente.

-Si, ne parlate ampiamente nel libro.

R: Esatto, la fase formativa in pratica è documentata; va considerato che fino al 1752, anno della fondazione dell’Accademia del Disegno da parte di Carlo di Borbone, non esistevano istituzioni pubbliche destinate alla formazione degli artisti, e i pittori gestivano accademie private, come ad esempio è il caso di Francesco Solimena. Farelli si formò, pagato dai genitori, presso Andrea Vaccaro.

-Tu insisti sul fatto che senza Farelli le vicende dell’arte a Napoli non sarebbero state le stesse, come dire che senza di lui …

R: Si esattamente, lo confermo e per due motivi: il primo è che quello che ancora sopravvive di Farelli nei templi napoletani testimonia una qualità di committenze e di realizzazioni di primo livello; basti pensare al suo intervento nella sagrestia della cappella del Tesoro di San Gennaro, uno dei luoghi canonici dell’arte partenopea,

Giacomo Farelli, La cacciata di Sant’Anna e San Gioacchino dal Tempio, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Sacrestia, lunetta
Giacomo Farelli, L’annuncio dell’Angelo a Sant’Anna della nascita di Maria, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Sacrestia, lunetta
Giacomo Farelli, L’incontro di San Gioacchino e Sant’Anna alla Porta Aurea, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Sacrestia, lunetta
Giacomo Farelli, La nascita di Maria, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Sacrestia, lunetta

per non dire del ciclo di tele di storie della Vergine ora nella chiesa di san Ferdinando, che sono quanto rimane del ciclo di san Luigi di Palazzo:

 

Giacomo Farelli, La visitazione di Maria a Santa Elisabetta, Napoli, Chiesa di San Ferdinando

mi pare di poter dire che si tratta di momenti tra i più alti dell’arte pittorica del Viceregno e non solo; in secondo luogo, pensa che la concorrenza era costituita da artisti del calibro di Paolo de Matteis, o Solimena, per non dire dello stesso Giordano – tutti più giovani di Farelli – grandi artisti con cui era in contatto e in competizione e con cui certamente si è confrontato, mantenendo però sempre una identità assolutamente distinta, inconfondibile. Solo un altro esempio: in quel gioiello dell’architettura napoletana che è la chiesa di Santa Maria Egiziaca all’Olmo, oggi quasi invisibile nella trama degli edifici ottocenteschi del Corso Umberto I, trovi all’altare una potente pala dell’ultimo periodo di Andrea Vaccaro, sui lati della tribuna due capolavori del triennio finale di Luca Giordano al ritorno dalla Spagna, e nelle cappelle due magnifiche pale d’altare di Francesco Solimena e un fortissimo San Nicola che salva il fanciullo del coppiere di Farelli.

-A Napoli nel secondo Seicento ha giocato un ruolo fondamentale anche Mattia Preti …

R: Si, certo; pensiamo al suo chiaroscuro molto risentito in varie prove, tra cui il maestoso ciclo di dieci tele nei soffitti di san Pietro a Maiella (1657-59).

-E allora si ripropone la domanda: poi che accade? Perché solo Farelli finisce così in sordina?

R: Accade ciò che viene chiamata normalmente fortuna critica o, nel nostro caso, sfortuna; la realtà è che Farelli è stato schiacciato dalle personalità che citavo prima, da Luca Giordano, certamente il più importante pittore napoletano del suo tempo, presente in Spagna, a Venezia, a Roma, a Firenze; da De Matteis, che fu perfino Peintre du Roi in Francia, per non dire poi di Solimena. Inoltre ebbe un enorme successo lo stesso Giacomo del Po dal 1683 a Napoli al seguito del Marchese del Carpio. Ma l’oblio di Farelli è stato principalmente causato dai ritardi della storiografia meridionale, che da non molto tempo ha iniziato a produrre monografie di taglio aggiornato su artisti più o meno importanti.

Giacomo del Po, che però, a detta del De Dominici, per ottenere committenze importanti si doveva considerare “pittore romano” …

R: E’ vero: questa narrazione apre tutto un discorso su come l’influenza del barocco romano si fece strada a Napoli; in effetti una parte cospicua del nostro libro è dedicata alla esplorazione delle fonti figurative di cui Farelli poteva disporre, e ne viene fuori che aveva una conoscenza completa dei fatti romani e che usava in modo intensivo le stampe, cosa che mi è apparsa di grande importanza. È il momento, infatti, in cui il ruolo delle stampe si codifica anche prima del 1686, anno in cui Baldinucci pubblica il primo trattato in Italia sulle incisioni. È da questa fase che le stampe non sono più solo considerate immagini di desunzione da un dipinto, ma divengono strumenti di lavoro per imparare a comporre, e non solo. Io penso che Farelli ne avesse una collezione davvero ragguardevole, ed infatti sono numerosissimi i confronti tra suoi lavori e quelli di altri artisti.

-Ad esempio?

Ad esempio ci sono queste due Stragi degli innocenti, una nella Cattedrale di Siviglia l’altra a Pisa, in Prefettura, dove la figura del boia è un’esatta derivazione da un modello di Pietro Testa,

Giacomo Farelli, La strage degli Innocenti, Siviglia, Cattedrale di Santa Maria
Pietro Testa, La strage degli Innocenti, Roma, Galleria Spada

per non dire della figura della Maddalena presa da un quadro di Ribera.

Giacomo Farelli, Sant’Antonio da Padova intercede presso la Santissima Trinità …” Napoli, Chiesa della Trinità dei Pellegrini
Jusepe de Ribera, Pietà, 1637, olio su tela
264×170 cm, Napoli, Certosa di San Martino, Cappella del Tesoro

Ma si possono fare molti altri esempi: Farelli cita anche da Marco Pino da Siena, per dirne una. Insomma per Farelli è come se tutto fosse già stato inventato e dunque tutto fosse disponibile: si può definire un artista della maniera moderna, che – se posso dire così – legge tutto in chiave barocca con una ricchezza di riferimenti che secondo me finora non era stata ben valutata.

-E in ogni caso resta sempre ben riconoscibile, a tuo parere.

R: Esattamente; la sua è una riconoscibilità certa, lo si individua subito – ovviamente se lo hai studiato – e posso dirti che dopo l’uscita del libro è già stata riconosciuta almeno una mezza dozzina di suoi dipinti ascritti ad altri artisti o considerati anonimi.

-A questo punto della nostra conversazione non posso però non rilevare che la rivalutazione così importante dell’artista che tu e la Raucci proponete stride assai con i giudizi piuttosto critici e limitativi di altri studiosi napoletani; ad esempio Stefano Causa parla di Farelli definendolo non più che un ‘comprimario’.

R: Credo che il giudizio di Stefano sia frutto di posizioni sedimentatesi nel Novecento sulla base di categorie che però andrebbero confrontate con la visione del tempo in cui visse Farelli. In quel tempo egli era considerato un protagonista, non un comprimario, e con Laura Raucci abbiamo cercato di spiegarci il perché di tale reputazione. Stefano Causa, che è uno studioso brillantissimo oltre che un amico, si è occupato di Giacomo Farelli solo per quanto concerne il suo intervento nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, che di sicuro è un momento importantissimo ma limitato: un frammento, si può dire, entro una carriera durata decenni; Causa ha criticato l’arcaismo ‘prebarocco’  della volta a unghie, vele e costoloni, ma questo impianto non dipende da Farelli bensì dall’architetto teatino Francesco Grimaldi, che lo aveva progettato agli inizi del Seicento. Poi ci fu l’intervento di Giovan Battista d’Adamo (1664 circa), con stucchi che a me sembrano stupendi.

Giacomo Farelli (affreschi), Giovan battista d’Adamo (stucchi) L’Immacolata Concezione e i suoi simboli, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, Sacrestia, Volta

Stefano ha ragione nel vedere un certo arcaismo in questo episodio, ma a mio avviso ciò avviene perché è arcaico il ‘set’ – che non consente sfondamenti illusivi della volta – non la pittura di Farelli, che è di grande scioltezza ed è certamente molto influenzata dalle opere del primo periodo di Giordano, come nota lo stesso Stefano.

-Se me lo consenti vorrei ritornare ora sul discorso relativo al contesto in cui Farelli e gli altri autori di quell’epoca operarono, perché mi pare di grande rilievo; dopo la rivolta di Masaniello, cui si unirono com’è noto tentativi di ingerenza francese nel Viceregno, e dopo la micidiale peste del 1656, anche a livello internazionale la situazione è molto complicata: basti pensare che Filippo IV si trova di fronte alla rivolta della Catalogna e del Portogallo, e nel 1659 la Pace dei Pirenei sancisce la supremazia della Francia in Europa; ecco, io non credo che un artista non potesse, o perfino non dovesse tenerne conto.

R: Hai ragione, gli artisti non stanno su una torre d’avorio, al contrario: ci sono in effetti due piani da considerare, quello locale e quello internazionale; localmente più che Masaniello è stata la peste a essere determinante, considerando che ha sterminato forse due terzi della popolazione di Napoli.

-Effettivamente dati sicurissimi non ci sono, ma l’ipotesi più credibile è che siano morti circa 200 mila abitanti su una popolazione di 400 mila, quindi più o meno la metà. Napoli era allora la città più popolosa d’Europa dopo Parigi e Londra.

R: Infatti, e questo – se mi consenti la digressione – mi dà l’agio per denunciare qui sulla tua rivista una delle purtroppo molte vergogne di Napoli, vale a dire il totale degrado in cui versa il luogo in cui sono seppelliti i morti della peste, cioè il cimitero di santa Maria dell’Aiuto, nella cui chiesa erano esposte opere strepitose di Luca Giordano dedicate proprio al tragico evento, con grandi dipinti di Andrea Vaccaro e di Francesco de Maria. Nessuno sa più come sia combinata quella chiesa, fatto sta che quei quadri sono stati spostati dalla loro sede naturale dopo l’ultimo terremoto e non ci sono più tornati, ennesimo caso – non raro a Napoli – di una emergenza che diventa cronica. Ma per tornare alla tua domanda, rispondo che quello che dici è vero: si può dire che la città entra in una nuova dimensione già con Matti Preti, che propone lavori importanti dal 1653 al ’61, e poi non a caso dopo quegli eventi – cui aggiungerei il terremoto del 1688 – si afferma uno stile architettonico completamente diverso negli interni religiosi, e c’è una osmosi pressoché quotidiana con Roma, tanto che il viaggio di studio nell’Urbe diviene scontato per un artista napoletano.

-A questo proposito ci sono due cose da sottolineare; in primo luogo quello che lo storico Giuseppe Galasso, il grande studioso di storia di Napoli, affermava: che “il Viceregno era di fatto costellato di un numero enorme di vescovadi su cui Roma esigeva contribuzioni più forti che altrove” e di conseguenza che “una gran parte della ricchezza del napoletano prendeva la via della Chiesa”; dall’altro lato c’è la presenza a Napoli di Luigi Garzi sul finire del secolo a partire proprio dal 1696, l’anno dei lavori alla chiesa di santa Caterina a Formiello; ecco allora che mi viene da chiederti se non sia stato proprio a causa di questo combinato disposto che la politica culturale della curia romana, sotto l’impronta di Carlo Maratta, riuscì a riempire il vuoto lasciato da Mattia Preti e poi da Luca Giordano che va in Spagna. E se, in tutto questo, non avrebbe potuto riempire questo vuoto proprio Giacomo Farelli, se è vero, come dici, che era allora tra gli artisti più considerati del tempo?

R: È certamente vero che a Napoli è sempre presente l’ombra dell’ingombrante vicino romano, tuttavia il controllo spagnolo nel Viceregno è stretto, e ancor più lo diviene dopo la rivolta del 1647. In questo senso non si può dire che si determini un’egemonia di Roma, e neppure che dal punto di vista artistico Napoli si rispecchi completamente nella capitale papalina. Mi chiedi poi perché Farelli non ne approfittò. Ma siamo proprio sicuri che sia andata in questi termini? Mettiamola così: in questi anni Farelli è in Abruzzo e poi nel 1693 a Pisa per la importante committenza granducale alla Sala delle Baleari. E a pensarci bene, il fatto curioso – le cui dinamiche possiamo al momento solo immaginare, in assenza di basi documentarie – è: perché, e come, i Medici giunsero a ingaggiare proprio lui?

-C’è da credere per la sua fama …

R: Infatti: è davvero impensabile che una importante committenza granducale gli arrivasse per caso.

-E tuttavia poi venne esautorato a favore di Dandini; si sa perché?

R: No, neppure qui si può risalire ai motivi; posso però suppore che di fronte a questa importante committenza toscana egli avesse voluto apparire ancor più michelangiolesco, intensificando una certa tendenza all’accademizzazione del suo linguaggio, come per una sorta di captatio benevolentiae nei riguardi di chi verso quel tipo di cultura era portato, ma la mia resta un’ipotesi. Il giudizio piuttosto tranchant su uno dei due affreschi pisani di Oreste Ferrari (un maestro cui devo molto), ossia che è un “centone” giordanesco, credo fosse piuttosto limitativo; vero è che l’idea di rappresentare Pisa come grande madre ha un forte riscontro iconografico con il quadro di Giordano cui lo studioso faceva riferimento, ma a guardar bene in questo caso accade il contrario, ossia che il riferimento viene da Farelli, non viceversa.

Giacomo Farelli, La strage degli Innocenti, Pisa, Uffici della Prefettura

-Tu fai spesso riferimento nel tuo saggio precisamente a questo aspetto degli scambi reciproci, al fatto cioè che gli artisti si guardano tutti.

R: Certamente è così. Infatti la ricostruzione di questa filogenesi ci fa capire come gli uni prendano dagli altri, in una logica di lavoro che però da un punto di vista metodologico è diventata accademica. Il promotore di questo processo è Carlo Maratti, non c’è dubbio; dopo di che nel libro io chiudo il mio saggio con un magnifico San Giovanni Battista di Solimena nella Pinacoteca di Ascoli Piceno che deriva da una stampa di Annibale Carracci; insomma, siamo di fronte a una ben nota storia di emulazione dei modelli.

Francesco Solimena, San Giovanni Battista nel deserto, Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica
Pietro del Po, da Annibale Carracci, San Giovanni Battista, incisione

-Allora, per tornare alla questione della damnatio memoriae, si potrebbe pensare che in quel contesto di artisti di gran fama, di forte personalità, magari il Farelli si sia speso male, diciamo così, forse per un carattere meno esuberante, per una personalità dimessa che in quei frangenti sarebbe finita inevitabilmente in ombra?

R: No, non mi pare proprio possibile, al contrario: De Dominici lo descrive come persona dal carattere molto aperto e socievole, di grande bonomia, un uomo dal tratto elegante che anche nell’aspetto fisico gli ricordava il Cavalier Mattia Preti; un uomo che nell’ultimo tratto della sua vita amava organizzare “rinfreschi”, cioè convivi amicali, nei quali avrebbe speso i suoi guadagni. E De Dominici, che com’è noto era figlio di un allievo di Mattia Preti, personaggi come Farelli li conosceva bene, anche solo per sentito dire.

-Quindi siamo ancora distanti dal capire…

R: Ma guarda, per l’idea che mi sono fatto io si tratta di riflettere su come spesso i giudizi sui valori culturali si alternino e si contraddicano nel corso del tempo, ora per moda ora per i caratteri di un’epoca; pensiamo al fatto che ancora sul finire degli anni Trenta dello scorso secolo Antonio Vivaldi era un perfetto sconosciuto. Prima dei fondamentali lavori di Ferrari e Scavizzi (1966 e 1992!) lo stesso Luca Giordano, oggi all’apice dei valori dell’estetica barocca, era stato studiato solo in una minuscola, pionieristica monografia di Enzo Petraccone (1919), un giovane allievo di Croce scomparso prematuramente, e passava per un artista scarso, un facitore di quadri e per questo sottostimato, “Luca fa presto”, appunto, fraintendendo anche il significato di questo soprannome. Lo stesso Andrea Falcone, nipote di Aniello, è riemerso nel 1985; per non dire poi di Caravaggio che per anni, anzi per secoli, è passato per una specie di criminale, un imbrattatele violento e perverso; insomma ci sono stati e certo ancora ci sono stuoli di protagonisti finiti nell’ombra, e dunque io non mi meraviglio che la stessa sorte sia toccata e ancora tocchi – mi auguro però ancora per poco – al nostro Giacomo Farelli.

-Al quale, si deve aggiungere, non ha giovato affatto la scarsezza di notizie biografiche; è così?

R: Ma certamente! Ti dico solo che Laura Raucci, la mia ex allieva che ha firmato con me questa monografia, nel corso del suo dottorato, e anche nel tempo trascorso alla Fondazione Longhi ha passato mesi interi negli Abruzzi per far luce su cosa avesse fatto; senza contare che le opere che conosciamo del periodo abruzzese – perlopiù affreschi e pale d’altare in cattivo stato – non possono essere esposte e quindi restano sconosciute ai più. È questo il caso degli affreschi nel Santuario di Roio Poggio,

Giacomo Farelli, Il ritrovamento in Puglia della statua bizantina della Madonna. L’Aquila, frazione di Roio Poggio, Santuario di Santa Maria della Croce
Giacomo Farelli, Il trasporto della statua della Madonna, L’Aquila, frazione di Roio Poggio, Santuario di Santa Maria della Croce

di quelli nella ex chiesa di san Filippo Neri, oggi divenuta teatro se non erro ancora chiuso al pubblico.

Giacomo Farelli, Il Battesimo di Gesù, L’Aquila, ex Chiesa di San Filippo Neri (ora adibita a teatro)
Giacomo Farelli, La fuga in Egitto, L’Aquila, ex Chiesa di San Filippo Neri (ora adibita a teatro)

E poi c’è una pala gigantesca a Giulianova, che credo non si sia mai mossa di lì.

E comunque è difficile pensare che un pittore cui vennero commissionati numerosi cicli di affreschi fosse poi un mediocre facitore.

Giacomo Farelli, L’Annunciazione, Giulianova (Teramo), Santuario dello Splendore

-Ecco dunque lo scopo di questo libro, cioè far riemergere questa figura immeritatamente scomparsa.

R: Certo, è vero, questa pubblicazione nasce in un buona parte per riconsiderare nella giusta misura i meriti di Farelli, che fu un pittore di primo piano della pittura napoletana. Il libro però fa anche parte di un progetto di più lunga durata in cui il secondo Seicento diventi parte più chiara ed integrata della storia dell’arte di Napoli: penso alla monografia su Paolo de Matteis, che da anni ci ripromettiamo di ultimare con Giuseppe Napoletano.

Effettivamente è un periodo in cui si misurano ed emergono a Napoli varie personalità nell’ambito della pittura, della scultura, dell’architettura che tu conosci da vero esperto per i numerosi studi che hai effettuato dal dopo peste agli anni Novanta del Seicento; ecco, riguardo a Farelli quali lavori di questo periodo possiamo considerare capolavori da citare?

Giacomo Farelli, Il riscatto degli schiavi, Chiesa di Santa Maria della Mercede e Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (già Chiesa della Redenzione dei Captivi)

R: Ce ne sarebbero diversi, ma il primo che mi viene in mente è senza dubbio il grande quadrone della Redenzione dei Captivi, elogiato coram populo dai contemporanei di Farelli.

-A questo punto della nostra conversazione mi viene in mente che Farelli possa aver vissuto una sorta di doppia esistenza, da un lato come artista in grado di arrivare, come sostieni tu, all’apice della considerazione e di conseguenza della committenza del tempo, dall’altro come politico, attività di cui si conosce poco o niente ma che potrebbe alla fine aver oscurato l’aspetto artistico della sua esistenza; lo trovi possibile?

R: Difficile da dire, proprio perché di cosa abbia fatto nella veste di politico negli Abruzzi non sappiamo praticamente ancora nulla. Diciamo che Farelli, come tanti altri artisti del tempo, deve aver passato buona parte della sua esistenza alla ricerca di committenze perché sono pochi coloro che avevano davanti alla loro bottega file di gente che ne chiedeva i lavori, tipo, che so? Rubens o lo stesso Giordano o Solimena, o Tiepolo, e così via. Non sappiamo se per Farelli tutto ciò sia avvenuto, e tuttavia si sa che negli Abruzzi fu autore di grandi imprese come gli affreschi nella Galleria del Palazzo dei duchi d’Atri che però è andata distrutta. Se le maggiori opere di un artista vanno perse è plausibile che si perda la memoria di esse e di chi le realizzò.

Tra l’altro trovo strano che pur avendo incrociato a Napoli e in Abruzzo numerosi ed importanti committenti di stirpe nobiliare, anche ricchi e prestigiosi, non esista tra le sue opere neppure un ritratto di costoro, e neppure di altri personaggi cui era legato.

R: È vero: Farelli si misurò con temi religiosi, storici ed anche mitologici, eppure non esistono ad oggi suoi ritratti accertati. Ma chissà, non escludo che possano venirne fuori; del resto il nostro libro è anche uno stimolo per ulteriori approfondimenti.

-Puoi chiarire ora com’è andata la storia del Cavalierato di Malta?

R: Questa interessante vicenda è stata resa nota da Keith Sciberras. Effettivamente Farelli diventa Cavaliere di Malta di primo grado, nomina dovuta ad interventi – oggi diremmo raccomandazioni – di personalità assai potenti: parliamo dei Rospigliosi, e di altri con cui era in un rapporto così stretto che arrivarono a chiedere per lui anche il Cavalierato più importante, cioè il grado di Cavaliere di Grazia, che però era appannaggio di chi avesse acquisito meriti speciali, partecipando alle cosiddette ‘carovane’, ossia le crociere contro i Turchi, oppure la caccia ai vascelli pirati; dato che è assai dubbio che Farelli sia mai salito su una galera ed è pressoché certo che non andò mai a Malta, il Gran Maestro Cotoner respinse sdegnosamente questa richiesta. E tuttavia questa vicenda fa riflettere su quali tipi di rapporti poteva vantare Farelli, tanto è vero che poi accadde che proprio a lui venisse commissionato il più grande ciclo seicentesco di storie di Carlo V che si conosca; e qui ti devo raccontare un retroscena.

-Di che si tratta?

R: Trent’anni fa viene da me un antiquario di Roma che mi segnala una serie di dipinti a suo parere di Luca Giordano, mentre invece vi riconosco subito la mano di Farelli. Erano davvero di grande qualità; mi disse che ce ne erano anche altri che insistetti a voler visionare ed effettivamente, dopo che in un garage un tizio li aveva ripuliti davanti a me da polvere e ragnatele con una scopa, anch’essi apparivano di alto livello, e immaginai subito che potessero essere stati realizzati per il Palazzo d’Avalos del Vasto. Non si sa poi che giri abbiano fatto questi dipinti; probabilmente sono finiti in Spagna a seguito dei contrasti sorti a causa della Congiura di Macchia (1701) fra i due rami della famiglia che li aveva richiesti al Farelli: da un lato i filo-imperiali capitanati da Ferdinando Francesco d’Avalos, e dall’altro i filo-spagnoli con il Conte di Montesarchio, che a Napoli possedeva il Palazzo d’Avalos; dal momento che questi dipinti sono l’espressione visiva più evidente del lealismo verso il grande imperatore asburgico e verso Madrid, non sappiamo chi dei due li abbia richiesti all’artista, poiché entrambi erano interessati ad accreditarsi, gli uni verso la corona imperiale, gli altri verso la Spagna. E tuttavia anche questa circostanza non può non farci riflettere su quale livello si muovesse Farelli, che realizzò questo ciclo, affrescò il Palazzo dei duchi d’Atri e che in Abruzzo lavorò per la potente famiglia dei d’Avalos del Vasto, e potrei continuare; insomma, se non fosse stato un artista di primissimo piano certamente non avrebbe goduto di tanta considerazione. In seguito si sono perse le tracce di questi dipinti. Le nostre ricerche sono giunte anche a individuare gli attuali proprietari, ma alla nostra domanda di rifotografare le opere è stato contrapposto un diniego che definirei venato di minacce …

Per quali motivi Farelli non ebbe anche una risonanza, diciamo così, a livello internazionale, come invece fu il caso di Giordano, de Matteis, Preti e Solimena?

R: Beh intanto Farelli venne chiamato a Pisa, che significa Granducato di Toscana. E poi occorre dire che non furono molti gli artisti napoletani che ottennero lavori importanti all’estero, se non, per l’appunto, Giordano, Solimena e de Matteis, che furono al servizio di sovrani europei; e poi Giacomo del Po e Nicola Maria Rossi, attivi per alcune tra le famiglie più eminenti della Corte asburgica a Vienna.

-Ci avviamo alla conclusione. Ti chiedo allora un giudizio sul perché tu e Laura Raucci avete onorato di una così rilevante pubblicazione proprio Giacomo Farelli.

R: Innanzitutto perché lo meritava: è un artista di primo livello ed è inconfondibile, come ho cercato di chiarire con questa conversazione e come spero abbiamo dimostrato con la nostra ricerca. A mio parere fare Storia dell’Arte significa capire i processi che si determinano nel corso del tempo in un dato contesto e quale sia stata la logica che li ha generati, nonché quale ne sia stata la ricaduta. Per quanto riguarda Farelli occorre considerarne la mole degli influssi figurativi, che egli percepisce alla stregua di una sorta di compulsazione sistematica di una immensa banca di immagini, e tuttavia il risultato finale è che lui, come sottolineo ancora, è inconfondibile. L’intensità nel suo accostarsi ad opere di altri importanti artisti è impressionante ma poi, una volta ‘smascherate’ le sue fonti figurative, cosa rimane? Che la sua mano è sempre riconoscibile, è unica, che le sue opere sono estremamente caratterizzate e per così dire ‘funzionano’. Ragion per cui, per concludere, non posso non auspicare che se finora Farelli è stato confinato in un ambito ‘minore’, adesso è arrivato il momento di liberarlo da questa taccia. Inoltre questo libro è di fatto un atto militante, una denuncia dello stato miserrimo in cui versa la maggior parte delle opere di Farelli. La sua sottovalutazione, i cataclismi meridionali e l’ignavia di tanti istituti di tutela hanno fatto sì che di gran parte delle sue opere non esistesse neppure una documentazione decente. Non esagero affermando che oltre tre quarti delle immagini nel nostro libro sono nuove esecuzioni, finanziate nel corso di due decenni con i fondi del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’. E queste immagini, perlopiù realizzate da professionisti del calibro di Luciano e Marco Pedicini, mostrano in quale stato versino le opere di Farelli in sedi pubbliche. Tele spesso vastissime, mai sottoposte a manutenzioni o a restauri conservativi; affreschi ormai quasi evanidi, di cui le nostre immagini saranno presto il solo ricordo, etc.

-Come sai è un discorso che si potrebbe generalizzare purtroppo per varie situazioni nel nostro paese.

R: E’ vero. E in tal senso parlare di Farelli significa infatti anche mostrare tutta la miseria in cui versa il patrimonio monumentale italiano: quello che resta fuori dal glamour del dibattito sui musei; fuori dall’insipiente chiacchiericcio sulla “comunicazione” dell’arte, fuori dalla retorica del nostro “petrolio” culturale; fuori dalla caravaggiomania che – con buona pace degli studiosi seri – non si sopporta più. E fuori dagli strali degli “indignati a tassametro”, sempre pronti a entrare nelle risse mediatiche che ‘tirano’, ma con le spalle saldamente voltate ai monumenti, in particolare quelli del Meridione. Dopo oltre quarant’anni di lavoro quel che più mi amareggia è che l’abbandono dei monumenti sui territori non ha mai raggiunto la soglia di crisi che osserviamo oggi. Non si cataloga più, non si tutela più, ma poi si sparla di valorizzazione dei territori, etc. Ore di trasmissioni televisive e sul web sulle mille varietà e meraviglie della cucina e dei vini italiani; non un approccio onesto alla miserrima dotazione di fondi per la catalogazione, il restauro, e soprattutto la manutenzione dei monumenti sui territori, sulle cosiddette ‘periferie’. Il caso di Farelli si situa in questo contesto, in questi anni, in queste problematiche. La Storia dell’Arte come disciplina appare sempre più debole, sempre meno in grado di orientare le politiche necessarie a salvare il salvabile. Paradossalmente, il libro su Farelli fotografa questo “spirito del tempo”, ma non consola molto sentirsi a posto con la propria coscienza…

P d L   Roma 13 giugno 2021