di Rita RANDOLFI
La notizia della scomparsa di papa Francesco ha lasciato il mondo attonito.
L’uomo della Speranza e della Pace se n’è andato proprio nel giorno dell’angelo, e l’angelo non è che un messaggero dell’amore di Dio, come Lui ha cercato di essere durante il corso della sua vita.
Alcuni giornalisti hanno già scritto del rapporto di Francesco con l’arte. In molti pensavano che il Papa dei poveri, degli ultimi, degli emarginati considerasse l’arte come qualcosa di inutile e superfluo, ma non era affatto così.
Mi è capitato domenica 30 settembre 2024, mentre stavo illustrando ad un gruppo le bellezze della basilica di S. Maria Maggiore, di veder arrivare il Papa. Era giunto su un utilitaria di colore scuro e, sorridente, spinto sulla sua carrozzina, si è fatto condurre nella cappella Paolina dove si conserva la Madonna Salus Populi Romani, e dopo aver deposto un mazzolino di rose bianche, si è messo a pregare, a ringraziare la Vergine per il viaggio appena concluso in Belgio e Lussemburgo. Faceva così all’inizio e alla fine di ogni viaggio.

Ecco quell’immagine semplice, dipinta secondo la tradizione da san Luca evangelista, che ritrae una Madonna dall’incarnato e dai tratti orientali che stringe il suo bambino benedicente, mentre lei con la mano allude alla Trinità, quella tavola così importante per la devozione dei romani è stata adottata dal Papa “venuto dalla fine del mondo”, diventando la sua Icona. Ed è proprio la basilica liberiana, la prima dedicata dedicata a Maria, madre della Chiesa, ad essere stata scelta da Francesco come luogo della sua sepoltura. Come se il Papa volesse tornare nel grembo della sua amata Madre, dalla quale si è sempre sentito protetto e sostenuto.
Il Papa, che non a caso ha scelto il nome del poverello di Assisi, santo stimato anche dagli atei e dai rappresentanti di altre religioni, ha voluto pregare, nel periodo difficilissimo del covid, di fronte ad un’altra icona importante per la devozione popolare: il Crocifisso di San Marcello al Corso. Anche questa un’opera semplice, ma impregnata delle preghiere dei fedeli, che da quel lontano maggio del 1519 le hanno riconosciuto la capacità di compiere miracoli, soprattutto in epoche di epidemie.
Nella memoria di tutti è rimasto quel 27 marzo 2020, quando il Papa, da solo sotto una pioggia battente, sul sagrato incredibilmente deserto della basilica di San Pietro, pregava, baciando quel Crocifisso. Lui, come Gesù, solo, sotto un tempo impietoso, si è caricato il dolore del mondo e lo ha offerto al Signore. La fotografia di quel momento è divenuta un’immagine potente, che ha fatto il giro del mondo.
E ancora il Papa, in occasione del Giubileo, ha concordato l’esposizione, dietro la supervisone di don Alessio Geretti, anche qui non a caso, nella stessa chiesa di San Marcello al Corso, del bellissimo Crocifisso di Dalì accanto a quel minuscolo disegno di mano di San Giovanni della Croce che lo aveva ispirato. Quelle opere in cui Gesù si sporge quasi staccandosi dalla Croce per guardare l’umanità, accompagnato dallo sguardo d’amore del Padre che si china su Lui e sul mondo hanno rappresentato la traduzione del desiderio di Francesco: annunciare la speranza, ma non una virtù astratta dovuta agli sforzi o alle inclinazioni umane, ma la Speranza autentica, che si incarna nella persona di Gesù. Anche in questi giorni la stessa chiesa sta ospitando la mostra Il cammino della Speranza con la Cena in Emmaus di Rembrandt e I discepoli Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro di Cristo il mattino della Resurrezione di Eugène Burnand (1898) ancora una volta un modo per aiutare i fedeli nella riflessione e nell’incontro con Dio. Il contrasto tra la luce e l’ombra in Rembrandt e quel brivido di freddo e di timore che percorre i volti dei due apostoli di Burnand parlano di umanità fragile, ma redenta.
In fondo Francesco era un gesuita e sant’ Ignazio raccomandava durante la meditazione delle Sacre Scritture la ricomposizione del luogo, ossia il tentativo di immaginare la scena descritta sin nei minimi dettagli e per provare a calarsi nei panni di Gesù e dei presenti, allo scopo di rivivere e assaporare quelle situazioni, trasportandole poi nella vita quotidiana.
Sempre grazie al Papa e, ovviamente, alla direzione dei Musei Vaticani, sono state allestite mostre emblematiche, come quella su Canova o sull’ Anima beata e l’Anima dannata di Bernini. Emblematiche perché questi eventi si sono arricchiti di significati importanti, specie quello sul Bernini, dove le due anime sono state interpretate alla luce della storia attuale, la guerra e il giubileo della speranza.
E ancora non si può non citare il discorso del papa, (già malato e per questo letto dal cardinale José Tolentino de Mendonça ) per il giubileo degli artisti.

“Voi, artisti e persone di cultura, siete chiamati a essere testimoni della visione rivoluzionaria delle Beatitudini. La vostra missione è non solo di creare bellezza, ma di rivelare la verità, la bontà e la bellezza nascoste nelle pieghe della storia, di dare voce a chi non ha voce, di trasformare il dolore in speranza … Questa è la missione dell’artista: scoprire e rivelare quella grandezza nascosta, farla percepire ai nostri occhi e ai nostri cuori. … E gli uomini e le donne di cultura sono chiamati a valutare questi echi, a spiegarceli e a illuminare la strada su cui ci conducono: se sono canti di sirene che seducono oppure richiami della nostra umanità più vera. Vi è chiesta una sapienza per distinguere ciò che è come «pula che il vento disperde» da ciò che è solido «come albero piantato lungo corsi d’acqua» ed è capace di dare frutto (cfr Sal 1,3-4)”.
Parole forti che restituiscono un ruolo, meglio ancora, una missione all’arte e alla cultura, in grado di dare voce a chi non ce l’ha. A tal proposito non si può dimenticare l’inaugurazione in piazza San Pietro nel 2019 della scultura Angels Unaware, del canadese Timothy Schmalz, che raffigura una barca carica di 140 migranti di varie epoche e provenienze.
L’arte educa alla bellezza e alla speranza, e il Papa le ha riconosciuto il valore educativo, oltre che estetico, un valore che ha sempre avuto e sul quale la Chiesa ha sempre contato per istruire, ispirare, catechizzare il popolo dei cristiani.
Francesco aveva persino scritto un libro sull’argomento: La mia idea di arte edito da Mondadori. Qui aveva esposto anche il suo pensiero sui musei, concepiti come spazi aperti al dialogo, quel dialogo che il Papa ha sempre sostenuto, come antidoto alle guerre e strumento privilegiato di pace. Musei come luoghi di incontro, spazi aperti a tutti, e Francesco, che ha sempre tradotto in fatti le sue parole, aveva aperto la cappella Sistina ai poveri, permettendo loro di ammirarne la magnificenza, e la Biblioteca apostolica vaticana all’arte contemporanea, e si è presentato, a sorpresa, alla biennale di Venezia del 2024.
Il Papa è anche entrato nella questione della restituzione di opere ai legittimi proprietari, rispedendo in Grecia tre frammenti del Partenone.
Ma il concetto di arte di Francesco emerge ancora più nitido dall’amore che lui ha sempre dimostrato nei confronti di altre due immagini: la Madonna che scioglie i nodi, eseguita dallo sconosciuto Georg Melchior Schmidtner, che lo aveva stregato nel lontano 1986 durante un soggiorno ad Augusta, e la piccola statua di san Giuseppe dormiente che teneva nella sua Casa a Santa Marta. Sono opere insignificanti dal punto di vista prettamente estetico, ma alle quali il Papa riconosceva il potere evocativo, la capacità di accendere la fede e la speranza. Affidava alla Madonna i suoi nodi e usava mettere sotto la statua di san Giuseppe i biglietti con le intenzioni di preghiera sue e dei fedeli che a lui si rivolgevano.
Dunque per Francesco non servivano soltanto i grandi nomi ed i capolavori assoluti: le opere devono saper comunicare, colpire lo sguardo di chi le osserva, smuovere i sentimenti, in un dinamismo che lega il fruitore al manufatto, in un dialogo empatico, edificante, uno scambio di emozioni che elevano lo spirito e lo pongono in rapporto con l’infinito. Opere semplici che parlano un linguaggio semplice, per tutti. E l’arte è per tutti, nella visione di Francesco, come del resto le bellezze del creato. Anche in questo il Papa è stato un innovatore, sganciando le opere dalla logica del mercato, del consumismo, del collezionismo ostentato come simbolo di uno status sociale e ponendole al centro di un dialogo intimo tra chi le produce, chi le osserva, esaltando la genialità dell’artista, che rende tangibili i volti, i gesti, i misteri dell’Invisibile e la capacità del fruitore di leggere, introiettare, interpretare a suo modo quei messaggi.
Piace credere che forse anche il motto “Miserando atque eligendo“, ispirato dal vangelo in cui Matteo racconta la sua chiamata, lo sguardo di Cristo che sceglie proprio lui, il più peccatore di tutti, come il Papa ha sempre dichiarato di essere, abbia trovato ispirazione stavolta in un capolavoro assoluto, quello di Caravaggio per la cappella Contarelli.
Gli artisti descrivono le luci ma anche le ombre, gli abissi dell’animo umano, le fragilità in cui tutti possono riconoscersi, le ferite attraverso le quali si arriva a conoscere la misericordia di Dio.
GRAZIE FRANCESCO che ci hai voluto insegnare ad andare oltre, oltre le mode, oltre le diversità, oltre la miseria e la ricchezza, oltre il pregiudizio, per ritrovare l’essenziale, la fatica e la gioia di lottare, ogni giorno, per costruire una famiglia che abbia il sapore di autentico amore, quello che viene da Dio.
Rita RANDOLFI Roma, 23 aprile 2025