Numero Speciale, cultura, censura e libertà di espressione; dopo Vittoria Markova il parere di altri studiosi

Redazione

di Enzo BORSELLINO
Storico dell’Arte

Caro Direttore

intanto ti ringrazio di tenermi sempre informato sulle primizie di Aboutartonline, anche qui da Parigi da dove ti sto scrivendo.

Ho letto con stupore all’inizio, e poi con estremo fastidio in seguito, quanto scritto dalla professoressa Vittoria Markova al punto di avere ieri sera redatto una nota di riflessione che, se possibile, possa aprire un dibattito sul tema non tanto delle mostre (tutte utili e indispensabili?) quanto su quello che trapela dietro le affermazioni di una studiosa di grande cultura che però sembra ristretta allo specifico storico artistico dell’arte italiana: una assenza totale di prospettiva storica contemporanea con un inspiegabile estraniamento dalla realtà odierna; considerare quasi un fastidio questa circostanza della guerra in Europa che le impedisce di organizzare le sue mostre, lo trovo assurdo e ingiustificabile. Cultura è anche politica, attenta visione della realtà che ci circonda, prendere posizione CHIARAMENTE su quanto sta accadendo in Russia e in Ucraina, perché il suo intervento può essere letto addirittura con una nota negativa in più: non solo astrazione dalla realtà ma anche condivisione di quanto il suo governo sta attuando in Ucraina e, di conseguenza, in tutta Europa.

Cordialmente

Enzo,  Parigi luglio 2022


Keith CHRISTIANSEN

Storico dell’Arte

Dear Pietro,

Thank you very much for alerting me to Viktoria Markova‘s eloquent “cri du coeur“.  One can only sympathize with the isolation she must feel as the consequence of an unprovoked war that has had little regard for the human lives as well as the art and culture of Ukraine.

Keith,  New York  luglio 2022

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Sybille EBERT-SCHIFFERER

Storica dell’Arte

Caro Pietro,

bell’articolo. Viktoria ha ragione, è assurdo cancellare Dostojewski o Tchaikowsky; infatti qui alla radio bavarese sento musica russa tutti i giorni, e perciò mi sto chiedendo dove una tale “cancellazione” succede. Un’altra cosa è alimentare la cultura attuale con dei prestiti preziosi per mostre come se niente fosse (e con l’incertezza se un regime incalcolabile e senza nessun rispetto di alcun diritto le restituisca). Non  mi sembra moralmente possibile né giuridicamente consigliabile.

Un caro saluto

Sybille, Monaco di Baviera  luglio 2022

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Ursula Verena FISCHER PACE
Storica dell’Arte

Caro Pietro,

l’articolo della Markova non avresti dovuto pubblicarlo, perché  non dice altro di quel che dice il filo-putiniano direttore dell’Ermitage, Petrovsky (vedi “il Giornale dell’Arte”).

Lei e lui non ci facciano una lezione sulla cultura russa, che noi tutti ammiriamo, ma non ci si dimentichi che per essa  il ruolo  determinante fu quello di Caterina la Grande, che russa non era, ma era una principessa tedesca, in contatto con Voltaire e Diderot, e prima di lei da Pietro. La collezione dell’Ermitage  si fonda sugli acquisti che Caterina fece, tra l’altro dal conte Brühl, tedesco anche lui.

La Markova parla di crisi, di prova, di isterica russofobia, ma di guerra non parla mai. Mi dici, dove vengono tolte le opere di artisti russi ? E perché non ha scritto lei in italiano, per non usare la parola guerra?

Come si fa di parlare in questa situazione di fare una mostra su Luca Giordano in Russia nel 2025, quando il capo di questo paese sta annientando il popolo ucraino con cinici attacchi sui civili e distruggendo ospedali, teatri etc. tantissimi civili, bambini, anziani, sopravvissuti dell’Olocausto! e la Markova parla di fare mostre. Mi dite voi, da che parte sta questa funzionaria?

Un nostro amico russo, professore universitario a Mosca, ha lasciato la Russia con la sua famiglia il 6 di marzo in disaccordo con tutto quello che succede nel suo paese, non sapendo quando e se sarà possibile di tornarci.

E poi, vorrei sapere dalla Markova perché non si possono vedere al Puschkin i quadri della collezione di Hermann Voss, quadri di una collezione privata sequestrati dai Russi, e perché non si possono vedere i disegni della collezione di Brema, altrettanto bottino di guerra di una collezione privata, che doveva tornare a Brema nel 2004 in occasione di una visita di Putin in Germania.

Tutto fermato dall’altolà della allora zarina delle arti Irina Aleksandrovna Antonova!

Io sono stata varie volte in Russia, nel lontano 1976 nell’Unione sovietica, a Mosca e Leningrado con un gruppo di tedeschi, fra di loro il direttore del museo di Stoccarda, che voleva vedere a Leningrado le collezioni Morosov e Schutchkin, tenute in deposito al museo di Leningrado. Esisteva allora a Leningrado ancora un museo dell’Ateismo nella chiesa di Kazan, smantellato subito dopo il crollo dell’Unione sovietica, e adesso tutti vanno ad accendere ceri davanti ai vari santi, per primo Putin con l’amico Cirillo!

L’ultima volta sono stata a Mosca nel 2018,  a novembre, e ho visto il bellissimo museo di arte moderna „GARAGE“ edificio  di Herzog-de Meuron vicino al Gorki Park, e da allora ho ricevuto i newsletter, purtroppo  con la guerra anche loro non lavorano più.

Cordiali saluti,

Ursula,  Roma Luglio 2022


Riccardo LATTUADA
Storico dell’Arte. Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’

Gli ‘ingenui’ timori di Viktoria Markova.

Trovo davvero singolare, per il taglio e per le tesi espresse, l’articolo della collega Viktoria Markova apparso pochi giorni fa su ‘AboutArt’ sotto il titolo È il confronto, non l’isteria censoria che favorisce la comprensione. La cultura russa non può essere discriminata. Non so a quali persone o ambienti italiani, e direi in generale occidentali, si riferisca la Markova nel suo scritto. Per incoraggiarla a fugare quella che sembra un’ingenua – troppo ingenua! – paura vittimistica di censure nei confronti della cultura russa, e di volontà di oscuramento di spiriti creativi universali come Dostoevskij, Tolstoj, Čechov o Čajkovskij, basterebbe soltanto ricordare alla collega Markova il discorso di un signore che risponde al nome di Sergio Mattarella. Il 2 maggio scorso, durante la cerimonia di presentazione dei candidati al premio cinematografico ‘David di Donatello’ e nel pieno dell’orrore per l’invasione russa dell’Ucraina, il Presidente della Repubblica italiana si esprimeva così:

“La guerra scatenata nel cuore d’Europa da un’aggressione inaccettabile scuote le nostre coscienze. Il cinema italiano oggi è protagonista nella solidarietà con artisti ucraini, da noi ospitati. La cultura non si ferma. Neppure di fronte alla guerra. La cultura unisce. Supera i confini – limiti che essa non contempla – ed è fondamentale per ricreare condizioni di pace”.

Una guerra insensata non può mettere in discussione i legami spirituali e culturali che, nei secoli, si sono fortemente intrecciati nel mondo della cultura d’Europa. La scelta sciagurata della Federazione Russa di fare ricorso alla brutalità della violenza e della guerra non può e non deve lacerare quei legami preziosi tra i popoli europei che la cultura ha contribuito a costruire e a consolidare.

La doverosa indignazione e la condanna non possono certo riguardare la cultura, grandi spiriti del passato e le loro opere, che tanto hanno dato alla civiltà del mondo intero. Sarebbe grave e controproducente per la nostra Italia e la nostra Europa. Lacerare la cultura europea, significherebbe assecondare quella logica di aggressione”.

Il mondo in cui viviamo, tutti e ovunque, non è certo il migliore che abbiamo sognato. Integralismi, intolleranza, violenza, guerre, fame, carestie, crisi climatica, dittature, pongono ogni giorno milioni di persone di fronte a sofferenze fisiche, materiali e morali insostenibili, e a dilemmi etici laceranti. Certo, da questo lato del mondo non censuriamo e non riusciremo a redimere gli ignoranti, gli idioti e i fanatici, ma possiamo rivendicare a buon diritto la nostra libertà di criticare i potenti nostri e degli altri, e anche la possibilità di criticare noi stessi, i nostri sistemi, i nostri modelli di vita senza finire per forza uccisi o rinchiusi nei campi di concentramento. Come italiano, poi, non credo di essere solo affermando che la venerazione per la cultura russa e il tentativo di frequentarla – con tutti i limiti che ognuno di noi sente, anche solo per il problema di comprendere una lingua straniera – sono stati e sono un pilastro di ciò che io sono oggi, e anche di ciò del poco che penso di sapere. Volendo essere ancor più chiaro, personalmente ho tratto insegnamento, commozione, crescita esistenziale, piacere nella lettura e di fronte all’arte non soltanto dagli scrittori e artisti citati dalla Markova, ma anche dai molti che la collega non cita: Bulgakov (ucraino di Kiev e autore di struggenti opere letterarie scritte in russo), Nabokov, Solženicyn, Tarkovskij; musicisti e interpreti come Stravinskij, Šostakovič, Rachmaninov, Rostropovich, e titani dell’arte figurativa come Kandinskij, Chagall e tanti altri. Artisti profondamente russi ma non amati dai poteri del loro paese, anzi! Uomini che hanno pagato a vari gradi il prezzo dell’esilio, del carcere, della censura, dello sradicamento dalla loro patria per ciò che hanno fatto e pensato; uomini le cui opere frequentiamo qui con rispetto e ammirazione.

Se davvero la Markova è così preoccupata per possibili censure sulla cultura russa le sarà sufficiente visitare una qualunque delle librerie in Europa e in Usa, e vedrà che nessuno ha ritirato dagli scaffali opere dei grandi esponenti dell’ingegno russo; nessuno sta togliendo dalle pareti dei musei le opere dei grandi artisti russi, etc. Anche da questo lato del mondo assistiamo a censure, interdetti ed espressioni di intolleranza, ma in tutt’altri campi del vivere civile e della cultura, e solo per non divagare non ne parlerò qui.

L’articolo della Markova tratta come realistica, “quando è scoppiata la crisi” (la cosiddetta “Operazione militare speciale” in Ucraina), la falsa notizia di presunti sequestri di opere d’arte di proprietà dei musei russi in mostra in Occidente, in particolare in Italia. In seguito, secondo Markova, “fortunatamente il buon senso ha prevalso e tutte le opere prestate dall’Ermitage e dal Museo di arti figurative di Mosca sono state restituite in tutta sicurezza”. Il buon senso non ha mai dovuto prevalere su tentativi di sequestro mai ipotizzati, mai considerati, mai avviati, e paventati solo da parte russa. A questo ridicolo tentativo di provocazione e disinformazione ha risposto il Ministro Franceschini con una nota secca e chiarissima, ma è francamente offensivo che una direttrice di museo con decenni di esperienza possa propalare come reale una notizia falsissima sugli istituti museali del nostro Paese.

Infine Markova parla della attuale difficoltà di allestire mostre, sciorinando i suoi numerosi e ambiziosissimi progetti per il futuro nel contesto di quelle che sembrano difficoltà provenienti dalla Luna o da una forza aliena e oscura che si frapporrebbe – ma da Occidente – tra le mostre che ella sta pianificando e la loro realizzazione. In questo disagio risiede una fondamentale differenza di punti di vista; c’è chi vede l’invasione di uno Stato sovrano come una “operazione militare speciale” condotta verso una provincia ribelle, e chi crede che sia stata scatenata una guerra in cui è ben chiaro chi sia l’aggressore e chi l’aggredito. E quando una guerra è in corso, Viktoria dovrebbe saperlo bene, è difficile organizzare mostre d’arte tra paesi antagonisti. Passerà anche questa – speriamo – e forse torneremo a vivere una normalità che oggi ci appare tanto più desiderabile quanto più è oggi lontana. Ma ora più che mai è necessario un bagno di onestà intellettuale, da parte di tutti e di ciascuno.

A presto, tuo

Riccardo,  Roma luglio 2022


Stefania MACIOCE

Storica dell’Arte. La Sapienza Università di Roma

Russofobia: una inaspettata lettura di Vittoria Markova

Nelle difficili relazioni tra la Russia e l’Occidente dovute alla guerra dichiarata da Mosca all’Ucraina, si innesta una polemica, solo in parte condivisibile, mossa dalla prof. Vittoria Markova, del Dipartimento di Storia e Teoria dell’Arte della Facoltà di Storia dell’Università Statale di Mosca. E con una critica ingiusta che coinvolge anche l’Italia. La prof. Markova ha infatti al suo attivo numerose iniziative culturali di notevole prestigio per lo sviluppo delle relazioni bilaterali tra Russia e Italia in campo culturale. In particolare, ha contribuito alla realizzazione di mostre organizzate dall’Ambasciata italiana. Si tratta di eventi di successo che hanno visto esposti in Russia i capolavori dei grandi maestri della pittura italiana, tra i quali Tiziano, Raffaello e Tiepolo. Tanto da meritarle un riconoscimento ufficiale dal Quirinale: commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia.

«La prof. Markova negli anni ha continuato a fornire un contributo straordinario al rafforzamento dei rapporti culturali italo-russi, rendendosi così meritevole di una nuova Onorificenza della Repubblica Italiana»,

ha infatti sottolineato l’ambasciatore Pasquale Terracciano, rappresentante diplomatico italiano in Russia, nel conferirle il riconoscimento.

La recente riflessione della Markova pubblicata su «About Art on line», verte sulle conseguenze culturali del conflitto russo-ucraino che, a suo avviso, determinano un atteggiamento censorio nei confronti della cultura russa. Pur condividendone l’assunto di base, in quanto è assolutamente privo di senso condannare un patrimonio culturale per di più imponente come quello russo, sarebbe però certamente utile venire a conoscenza di fatti specifici, che la studiosa non menziona. Alcuni aspetti del suo intervento meritano dunque qualche osservazione supplementare.

Ogni guerra determina una crisi sul piano politico ed economico che in questo caso, ponendo a diretto confronto la Russia con l’intero mondo occidentale, ha ripercussioni di notevole portata. La Markova afferma che, rispetto al passato,

«la differenza principale consiste nel forte coinvolgimento del mondo della cultura, che è addirittura diventato un campo di feroce confronto. È la prima volta che ci troviamo in questa situazione. La cultura russa è divenuta oggetto di scontro, con voci che chiedono la messa al bando di Dostoevskij, Tolstoj, Čechov e altri scrittori, nonché di compositori, tra cui Čajkovskij, […]  Questo atteggiamento ha toccato anche la sfera delle arti figurative. Le opere degli artisti russi vengono tolte dai musei e dalle vendite all’asta, vengono chiuse le mostre, e – cosa ancora più assurda – ne vengono cambiate le denominazioni affinché scompaia la parola “russo” […] Proprio dall’Italia si levano voci dissonanti rispetto all’isterica russofobia che ha preso il mondo».

La gravità dell’accusa lanciata dalla studiosa avrebbe richiesto che essa fosse appoggiata su fatti specifici, di cui nel suo articolo non vediamo traccia. In realtà non è affatto la prima volta che un conflitto di vasta portata determina un coinvolgimento del mondo della cultura. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale si possono annoverare situazioni di tensione analoghe, concernenti il patrimonio artistico e culturale dei singoli Paesi coinvolti nel confitto.

La studiosa russa analizza le ricadute negative di questo fenomeno nel mondo dell’arte: molto, infatti, è repentinamente cambiato nei rapporti tra i Paesi occidentali e la Russia circa l’organizzazione delle mostre e dei sistemi museali. Tutto ciò è ovviamente conseguenza della guerra che, per noi occidentali, si traduce in un atto violento, in un sopruso inaccettabile per ogni democrazia, in una sopraffazione che avviene al centro dell’Europa. La guerra non può essere considerata un fattore marginale nei rapporti tra i popoli. Nel testo della professoressa non troviamo la parola ‘guerra’, totalmente ignorata, e questo lascia il lettore occidentale alquanto perplesso e forse anche offeso nella sua sensibilità.

Una guerra viene vissuta nel mondo democratico come una calamità di devastante portata e purtroppo coinvolge l’identità stessa dei popoli coinvolti. Ciò è una conseguenza quasi naturale di ogni conflitto: è accaduto più volte in passato. Tale reazione è l’esito diretto di un grave e inaccettabile atto militare e, dunque, politico. Nel suo testo la Markova mette in luce il suo disagio di studiosa, di persona colta rispetto all’‘isterica’ russofobia che, ripeto, non mi sembra si sia manifestata almeno nel nostro Paese, se non nel caso di un corso universitario prima annullato e subito dopo ripristinato. Non sembra opportuno parlare di “isterica russofobia” almeno per il nostro Paese dove, francamente, non si registra alcuna censura nei confronti della cultura di qualsiasi nazione. Di certo, però, la tensione politica determinata dalla guerra ha congelato, per il momento, scambi e iniziative culturali.

Esiste la “russofobia” di cui la Markova accusa l’Occidente? Il fenomeno è stato spesso indagato. Il giornalista svizzero Guy Mettan, ad esempio, ha individuato le origini di questo atteggiamento in un tempo remoto.[1] Partendo da Carlo Magno, egli ricostruisce le linee di forza religiose, geopolitiche e ideologiche all’origine della russofobia europea prima e statunitense poi. Egli mette in luce l’inclinazione del giudizio occidentale a temere la vocazione imperialistica russa. Nell’ introduzione al volume, Franco Cardini, autorevole medievista di fama internazionale e storico delle relazioni tra mondo musulmano, ebraico e cristiano, occupatosi di rapporti tra Oriente e Occidente, accenna a quella sorta di equazione creatasi in passato per cui russi uguale barbari. Essa nascerebbe, secondo lo storico, con l’identificazione dei russi con i popoli sarmati, antica popolazione nord iranica imparentata con gli Sciiti e le genti del Caucaso. Tale identificazione avrebbe determinato un giudizio etnico-etico negativo. Cardini ricorda che la letteratura antirussa, e con essa la fama dei russi come barbari e come “altro dagli europei”, viene a coincidere con l’affermarsi stesso del gran principato di Moscovia nei secoli XVI e XVII. Lo storico sottolinea come storicamente l’Europa abbia sempre alternato la paura dei Turchi a quella dei Russi e qualche momento di russofilia occidentale ha coinciso proprio con l’ammirazione per le arti, la letteratura e la musica. L’Impero zarista, d’altronde, era considerato in passato come potenza asiatica e dispotica, caratterizzata da libido dominandi, con l’ambizione intrinseca di “espandersi verso Occidente con la violenza e con l’inganno”.

Nel XIX secolo la russofobia è dunque stata un’arma di combattimento nello scontro tra gli imperi in espansione, come soprattutto quello britannico e quello zarista. Una logica di annientamento di un unter meschen slavo ha certamente corroborato le spietate azioni della Wermacht tedesca in tutta l’Europa orientale durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche per Marx l’autocrazia russa risultava una metamorfosi della Moscovia, formatasi «alla scuola terribile e abbietta della schiavitù mongolica» e la sua espansione era sorretta da una volontà di potenza illimitata, sino alla conquista del mondo.[2] La modernizzazione dispotica realizzata da Pietro il Grande non ne aveva cambiato la natura. Anzi, era servita a fornirle la forza materiale per svolgere il suo ruolo di guardiana della reazione. Evidenti in questo pensiero erano le mire di dominio di tale impero sull’Europa unite alla pretesa antistorica. Quando poi la Russia divenne Unione Sovietica, nelle borghesie occidentali si scatenò la “Grande Paura”. E dalla russofobia derivò, secondo Mettan, l’antisovietismo.

Il sentimento russofobo preesistente, dopo la Rivoluzione d’Ottobre nel 1917, venne dunque coniugato in Occidente e nell’Europa dell’Est sia con la paura dei comunisti che con l’antiebraismo storico (molti dirigenti bolscevichi erano infatti ebrei). Il nazismo in Germania ha costruito su questa idea una guerra totale, concepita nell’Europa dell’Est appunto, come annientamento di sotto-popoli slavi per di più «dominati da comunisti e da ebrei». L’altissimo numero di vittime civili nell’URSS e nell’Est e l’ordinamento delle vittime dei campi di concentramento nazisti sembrano confermare questa visione.

L’alleanza tra le potenze occidentali, USA e Gran Bretagna con l’URSS in funzione antinazista, terminerà poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La russofobia-antisovietica era stata infatti messa congiunturalmente da parte, ma solo per riemergere con forza alla prima occasione. Russofobia e anticomunismo nella Guerra Fredda furono argomento per un totale scontro ideologico, politico e militare, definito appunto come «Guerra Fredda». Tutto questo lugubre passato sembrava oramai del tutto superato e in anni recenti abbiamo assistito a rapporti distesi e a scambi costanti tra i Paesi occidentali e la Russia, che aveva espresso persino il desiderio di entrare nella NATO.

Nel clima di tensione internazionale venutosi a creare con l’improvviso conflitto iniziato il 24 febbraio 2022, l’opinione pubblica occidentale non si è dimostrata per nulla disposta ad accogliere gli impulsi aggressivi della politica russa.[3] Antiche paure sono dunque riemerse e la speranza, debole a dire il vero, è che questo sia un fenomeno estemporaneo, frutto di una contingenza storica e politica. Ogni impianto ideologico teso a giustificare una eventuale irrazionale ‘russofobia’ [4] risulta al momento una supposizione poiché, secondo chi scrive, le urgenze sul piano militare ed economico sono sovrastanti. Semmai sembra emergere un orientamento inverso di occidentefobia da parte dell’attuale Governo russo.

Queste rapide osservazioni permettono di comprendere come l’intento egemonico e predatorio delle forze russe sia all’origine dell’attuale timore dei popoli occidentali, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la grandiosa cultura russa.

Il sentito j’accuse contro la ‘isterica russofobia’ (il timore di una guerra non è né isterico né culturalmente russofobico) dichiarato da Vittoria Markova in difesa della cultura russa è solo in parte comprensibile, perché omette di prendere in considerazione il fattore guerra che è l’elemento determinante nella tensione dei rapporti tra i Paesi più o meno coinvolti nella drammatica situazione attuale, e sposta l’attenzione su una problematica che non sembra avere riscontro nei fatti.

Chi, del resto, tra la popolazione civile occidentale, la società che potremmo definire normale, potrebbe mai condannare Bach, Beethoven, Brahms, filosofi come Kant e letterati come Goethe quali rappresentanti della cultura nazista?

Analogamente risulta altrettanto arduo pensare che una persona, anche di media levatura culturale, condanni ora Tolstoj perché russo. Tolstoj che in «Guerra e Pace» e nei «Racconti di Sebastopoli» fino alla maturità, denuncia in crescendo la contrarietà di tutte le guerre ad ogni legge e principio di ordine etico e mette a fuoco come la responsabilità sia dei governi che di volta in volta le dichiarano.[5]

Chi potrà mai dimenticare la dichiarazione di Pierre Bezuchov a Natasha Rostova sullo sfondo minaccioso e drammatico delle guerre napoleoniche?  La tragicità della guerra è il contorno terribile che mette in luce la forza morale dei personaggi di «Guerra e Pace». E a tal proposito segnalo il recentissimo libro «Foglie sparse», di Alessandra Jatta, uno splendido romanzo in linea con la grande tradizione russa, che raccoglie le memorie di un’antenata riuscita a fuggire dal dramma della rivoluzione e della conseguente guerra civile.

Nell’«Histoire du soldat» (1918) il genio di Stravinskj descrive un soldato disertore che rifiuta la guerra. Le narrazioni potrebbero essere tante. Quale grande artista, letterato, compositore ha poi sposato la causa della tirannia? Davvero pochi. L’arte e la cultura in genere sono il campo di espressione del libero pensiero, patrimonio dell’umanità

Prof. Markova spero lei non pensi che solo Federico Zeri amasse Čajkovskij, la cui musica è regolarmente eseguita nella sale da concerto italiane. La letteratura russa, da Dostoevskij, a Čechov, per citare solo alcuni tra i tanti nomi celebri, così come il teatro, il balletto e la musica russi, da Rachmaninov, a Stravinskij, da Prokof’ev a Šostakóvič, sono e resteranno patrimonio dell’umanità. E noi italiani ne siamo perfettamente consapevoli perché la cultura russa è parte della nostra cultura che è impossibile rinnegare, ma la guerra con questo non nulla a che vedere!

Stefania, Roma luglio 2022

NOTE

[1]Guy Mettan, «Russofobia. Mille anni di diffidenza», introduzione di Franco Cardini, Sandro Teti editore 2016
[2] P.P. Poggio, Marx sulla Russia, in “Altronovecento, n.34, 2017 http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=34&tipo_articolo=d_saggi&id=359
[3] https://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni/riviste/annali-di-ca-foscari-serie-occidentale/2015/1/russofobia-e-nichilismo-nazionale-nel-dibattito-in/
[4] Gli intellettuali e la guerra, Rivista semestrale di Filosofia N. 18/19 – Anno 2015
https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2020/01/B@belonline-vol.-18-19-Gli-intellettuali-e-la-guerra.pdf
[5] G.Guizzi, Esiste forse una guerra giusta? Riflessioni su guerra e diritto in Lev Tolstoj*,11 giugno 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2358-esiste-forse-una-guerra-giusta-riflessioni-su-guerra-e-diritto-in-lev-tolstoj?hitcount=0

Francesca SARACENO

Blogger. About Art online

NON SIAMO ISOLE.

Caro Direttore

L’articolo della professoressa Vittoria Markova, pubblicato qui su AboutArt la scorsa settimana, nel quale si denunciava l’ingiustificabile discriminazione dell’arte e della cultura russe, a seguito degli eventi bellici tra Russia e Ucraina, mi ha indotto una riflessione profonda sull’estremo impoverimento etico e morale che sta segnando tragicamente la società civile.

Il conflitto c’è ed è ineludibile, nella sua drammatica quotidianità fatta di morte e distruzione: sta devastando un territorio, sta sopprimendo migliaia di vite. Incide pesantemente sugli assetti geopolitici mondiali e impatta in maniera devastante sulle vite di tutti noi. Ma la guerra è una questione di interessi (politici ed economici) che nulla hanno a che fare con la cultura. Essa è da sempre considerata “bene immateriale” assoluto dell’umanità; non dei singoli popoli. È, forse – a ben vedere – l’unico valore universalmente riconosciuto e condiviso a livello globale. Non è un caso. Perché la cultura prescinde qualunque interesse di parte; la cultura non ha “parte”, la cultura É “la parte”. L’unica; che ci contiene tutti.

La cultura come espressione identitaria e rappresentativa dei popoli, è salvaguardata e regolamentata da innumerevoli convenzioni internazionali, fin dalla costituzione dell’UNESCO nel 1945, e poi con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, passando per la Convenzione dell’Aja per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato del 1954, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 27), e fino ai giorni nostri. Ma è proprio l’articolo 1 dello statuto dell’UNESCO a chiarire il valore fondamentale e universale della cultura. In esso si legge:

Art. I Scopi e funzioni

  1. L’Organizzazione si propone di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza rafforzando, con l’educazione, le scienze e la cultura, la collaborazione tra le nazioni, allo scopo di garantire il rispetto universale della giustizia, della legge, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a profitto di tutti, senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione, e che la Carta delle Nazioni Unite riconosce a tutti i popoli.

Basterebbe questo a giustificare il grido di allarme della professoressa Markova, per l’inaccettabile – e direi sistematica – interdizione di tutto ciò che è “russo”, oggi. Compresa l’arte, ma più in generale – per l’appunto – la cultura russa. E che a commettere questo “peccato” di intolleranza e superbia, siano gli stessi Paesi che a vario titolo e con varie iniziative, si sono fino ad oggi prodigati per la salvaguardia e la promozione della cultura nel mondo, è un paradosso decisamente assurdo.

Trovo impensabile – e finanche semplicistico, oltre che inefficace – “punire” la Russia come “nazione”, come comunità sociale e culturale. Trovo inammissibile discriminare gli artisti russi, gli scrittori russi, gli intellettuali russi, gli atleti russi, solo perché… “sono russi”. È qualcosa che trascende ogni giustificabile risentimento o timore.

La professoressa Markova, nel suo articolo, denuncia che in molti paesi

Le opere degli artisti russi vengono tolte dai musei e dalle vendite all’asta, vengono chiuse le mostre, e – cosa ancora più assurda – ne vengono cambiate le denominazioni affinché scompaia la parola “russo”.

Credo sia quanto meno anacronistico e assolutamente ingiustificabile pensare di escludere la bellezza dell’arte, la profondità del pensiero, la competenza scientifica, le capacità atletiche di un popolo, dal patrimonio comune mondiale, in risposta a una seppur sconsiderata e quanto mai deprecabile azione bellica che, va rimarcato, ha carattere esclusivamente politico ed economico. Mortificare il talento e impedirne l’espressione, demonizzandone la provenienza territoriale, non giova certo al raggiungimento di una soluzione rapida, definitiva e duratura del conflitto in corso, ma punisce ingiustamente impegno, creatività e competenze che dovrebbero essere posti al servizio di tutte le nazioni; e questo a prescindere dalle ideologie o dalle eventuali opinioni personali degli uomini e delle donne che quei talenti incarnano.

Davvero possiamo pensare un mondo senza Čajkovskij sui palcoscenici dei teatri, Tolstoj sugli scaffali delle librerie, gli atleti russi nelle competizioni internazionali, gli artisti russi nelle sale dei musei europei o artisti di altri Paesi nelle sale dei musei russi? Davvero possiamo accettare come “misura sanzionatoria” il boicottaggio di ogni espressione della cultura di un popolo? O privare quello stesso popolo della possibilità di fruire delle espressioni culturali di altri Paesi, accrescendo il proprio bagaglio di conoscenze, dando il proprio contributo allo sviluppo di quelle conoscenze? Come se questa forma di “indignazione di massa” avesse il potere di fermare o cambiare, in qualche modo, le sorti di questa assurda guerra tra Russia e Ucraina.

Una bieca utopia creata – è il caso di dirlo – “ad arte”.

Il progressivo accrescimento dei nazionalismi, ad ogni livello, è qualcosa che va oltre l’orgoglio identitario di un popolo (che – per inciso – proprio sulla cultura si fonda, ma che ha senso solo se riconosciuto e condiviso con gli altri popoli) e degenera fino alla chiusura totale verso ogni forma di pensiero alternativo, verso ogni forma di “diversità”.

Ma se a un certo punto della storia umana, gli Stati hanno avvertito la necessità di costituire organizzazioni internazionali atte a promuovere e proteggere l’universalità della cultura nel mondo, non può essere accettato – oggi – che essa venga strumentalizzata dalle istituzioni e dalla politica dei governi (di TUTTI i governi) che quelle stesse organizzazioni rappresentano, al fine di nutrire questo sentimento accentratore e creare nella società civile un falso mito di potenza, un senso di orgoglio malato che crea distanza invece che avvicinare. Quella pericolosa e dannosissima contrapposizione bilaterale tra “buoni e cattivi”, tra “noi e loro”; l’insana idea di un “nemico” in cui accorpare, colpevolmente, tutto ciò che a esso è riferibile. È un metodo becero e subdolo di “ammaestramento delle masse”, che si perpetua da anni, anche a livello mediatico, finalizzato a consolidare il consenso verso un certo modo di gestire le relazioni internazionali, nutrendo e fomentando le paure endemiche dei popoli: la restrizione delle libertà, lo spettro della povertà. Il tutto allo scopo di giustificare azioni politiche, individuali e collettive, spesso sconsiderate e il più delle volte inefficaci, quando non addirittura controproducenti.

La cultura è espressione della pluralità dei saperi, e il sapere non può essere circoscritto entro confini stabiliti dai governi. L’arte, le scienze, la letteratura, lo sport, rispondono a dinamiche globali e inclusive che prescindono dalle necessità individuali e dai possibili contrasti tra i popoli. Anzi, sono le sole cose li tengono insieme, che possono davvero ottenere risultati importanti dal dialogo costruttivo tra le nazioni, che possono contribuire efficacemente alla costruzione di una società pacifica e collaborativa, in cui la condivisione delle conoscenze – in un mondo ormai globalizzato – diventa il solo mezzo di reale crescita, a tutti i livelli. Non solo individualmente per ciascuna nazione ma per l’umanità intera. La cultura è il “collante dei popoli”, molto più di quanto non lo sia mai stata la politica; la quale, come sosteneva Simone Weil, è per sua stessa natura egocentrica e autoreferenziale, come – peraltro – hanno dimostrato, una volta di più, gli ultimi eventi politici nazionali e non solo.

La tragica esperienza della pandemia avrebbe dovuto insegnarci che nessuno, su questo pianeta, può pensare di “isolarsi”, di escludere l’altro da sé, ma evidentemente facciamo fatica a imparare che non c’è pace senza tolleranza, non c’è futuro senza condivisione. E la cultura è alla base di tutto questo.

Era il 10 giugno del 1963 quando, in piena “guerra fredda”, John Fitzgerald Kennedy così si esprimeva:

“[…] Nessun governo o sistema sociale è tanto malvagio che il suo popolo debba essere considerato come privo di virtù. Come americani, troviamo il comunismo profondamente ripugnante, in quanto negazione della libertà e della dignità personali, ciò nonostante stimiamo profondamente il popolo russo per i suoi numerosi successi, nella scienza e nello spazio, nella crescita economica e industriale, nella cultura e negli atti di coraggio. […] Se quindi da un lato non dobbiamo ignorare le differenze che esistono tra di noi, dall’altro dobbiamo anche concentrare l’attenzione sui nostri comuni interessi e sui mezzi che permettono di risolvere tali differenze. Se non possiamo porre fine subito alle differenze che ci dividono, almeno possiamo fare in modo che il mondo sia un luogo sicuro per la diversità. In ultima analisi, il legame di base che ci unisce è il fatto che in fondo tutti viviamo su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Tutti abbiamo a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali.”

Non siamo “isole”.
Francesca SARACENO  Catania luglio 2022


John T. SPIKE

Caro Pietro

I hope that American scholars will not cease to study

I am unaware that any American scholars have ceased to study Pushkin, Dostoevskij, Tolstoj, Čechov, Gogol, Pasternak or Solzhenitsyn.

Unfortunately, there are always some people who are motivated by current hostilities to attack the historical arts and letters of the past.  And no doubt there are still places in the world where books by Darwin, Joyce, Huxley,  Hemingway, Salinger, Moses, Matthew, Mark, Luke and John, are suppressed.  History has shown us that the voices of the great authors can never be silenced.  Let us champion them all!

John T. SPIKE,  Firenze luglio 2022

*L’immagine di copertina è presa da TiscaliCultura