di Massimo PULINI
Nella prima vita di Annibale Carracci Una metamorfosi, tra amici, contadini e satiri.

“Voi romani ci avete rovinato Annibale Carracci”.
Sono parole di Francesco Arcangeli, ma il tono era scherzoso ed erano rivolte all’amico Maurizio Calvesi entro una discussione che verteva sulla malìa e sul potere metamorfico che Roma esercitava, tra Cinque e Seicento, verso qualsiasi artista vi fosse giunto[i].
Anche le personalità più grandi, perfino i geni assoluti, appena mettevano piede a piazza del Popolo, una volta annusata l’aria dei giardini e delle antiche rovine, degli sfarzosi palazzi principeschi e cardinalizi, oppure, valicato l’altro versante del giorno, dopo aver passato qualche notte nelle bettole e in mezzo alle confraternite alcoliche dei pittori fiamminghi, tutti finivano per trovarsi diversi, per non essere più gli stessi. Cambiavano sguardo e iniziavano a parlare una lingua pittorica prima sconosciuta.
Non era nemmeno necessario accedere alla corte papale per entrare nella spirale del sistema artistico di Santa Romana Chiesa, in un contesto che allora doveva costituire uno strano ibrido tra libertà sfrenate e doveri d’etichetta sottoposti a inquisizione; tra mode che non venivano fatte durare più di un lustro e le pressioni competitive coi colleghi, divisi tra amici (dei quali diffidare) e nemici da insultare in pubblico.
Il tono che tenevano il bolognese Arcangeli e il romano Calvesi era canzonatorio in quella lontana chiacchierata degli anni Sessanta, riferitami circa tre decenni dopo da Maurizio come per proprietà transitiva d’amicizia. Ma nella biografia di Annibale Carracci (Bologna 1560 – Roma 1609), quella trasformazione echeggiò nel timbro grave del dramma. La parabola del suo stile registrò infatti un cambio di rotta vertiginoso, che da una parte lo aiutò a compiere la colossale impresa di Palazzo Farnese (vedi Foto 1), ma lo indusse anche alla depressione e a una repentina morte che rimase avvolta da un sospetto suicidio.
Il cantiere di Palazzo Farnese, che lo assorbì per dieci anni tra il 1597 e il 1607, rivelò le immense qualità narrative e il talentuoso mestiere dell’artista bolognese al punto che quella volta e quelle pareti affrescate si impongono come una vera cosmografia dell’arte, oggi diremmo un ipertesto, architettato nella perfetta fusione tra classicità e rivoluzione, tra citazione e veggenza. Dopo quella scalata pressoché solitaria le sue forze fisiche, e purtroppo anche quelle mentali, risultarono esaurite.
Possiamo allora farci un’idea di quale fosse l’Annibale che Arcangeli rimpiangeva cercandolo nei muri e negli altari di Bologna, nelle botteghe di macelleria ritratte sotto i portici e nei ‘mestieri per via’, vale a dire: nei ricordi di quella Accademia degli Incamminati che, assieme al fratello Agostino e al cugino Ludovico, aveva fondato immaginando un destino universitario anche alla formazione dei giovani artisti.
Gli affreschi di Palazzo Fava e Palazzo Magnani sono manifesto programmatico di un commovente cenacolo condiviso, così come le pale del Battesimo di Cristo, delle Assunzioni o delle Pietà, sono un esempio mirabile di composizioni eseguite da Annibale nelle prime uscite da solista, appena fuori dal coro familiare.
Ma scommetto che Momi (così veniva confidenzialmente chiamato Francesco Arcangeli) pensasse ad altro ancora, magari rivolgeva i suoi pensieri alle teste dei ciechi, alla mole di disegni che ritraggono contadini e garzoni; di certo avrà chiamato in causa i ritratti dei congiunti o delle vedove, senza dimenticare i primi voli di immaginazione sulle terre del mito. Negli acquitrini emiliani i fauni non erano palestrati come quelli di Michelangelo e le Veneri non apparivano ancora nelle forme raffaellesche, ma vestivano corpi di persone comuni, senza la retorica eclettica delle grandi Maniere alle quali fare riverenza.
Forse il tormento colse Annibale quando, uscito dal decennio di Palazzo Farnese, si accorse che la sua impresa veniva salutata né più né meno di una nuova pala d’altare dell’ultimo pittore di turno, tra quelli da poco giunti a Roma. Forse si pentì di aver investito così tanto tempo della propria preziosa maturità in un’unica opera che nemmeno gli venne pagata la metà di quanto gli era stato promesso. Lui stesso sarà probabilmente andato, col carro dei ricordi, verso quella stagione di intenso dialogo artistico, quel fertile scambio di idee intrattenuto coi giovani allievi o coll’arguto Ludovico, il vero maestro della sua prima vita.
Se ogni nuovo ritrovamento per Annibale costituisce un vantaggio degli studi, diviene un’intima gioia la scoperta di opere giovanili, che restituiscono sempre quella dinamica personalità, sinceramente aperta alle più sensibili manifestazioni dell’esistenza. Quanto detto equivale a una premessa intesa ad accompagnare un singolare frangente artistico carraccesco, per meglio comprendere anche alcuni percorsi concettuali, certi assestamenti formali della fase creativa preromana.
Il tema degli studi preparatori dell’artista è forse la materia più viva e al contempo la più insidiosa, tra le tante diramazioni di ricerca in ambito carraccesco. Le cosiddette Teste di carattere, nelle mani dei Carracci divennero un genere, coniato come pratica di repertorio espressivo e doveva equivalere a una vorace raccolta di volti, un casting, che nel suo insieme conteneva un ampio ventaglio delle manifestazioni umane, sensoriali e sentimentali. Ma essendo strumenti di un metodo volutamente empirico, appunti accennati e impressioni fissate in corso d’opera, non risulta semplice la loro individuazione e nel mondo della ricerca storica si sono moltiplicate le proposte nelle direzioni più varie[ii].
Quelle irrefrenabili urgenze che portavano Annibale a tradurre un volto in immagine, non di rado si ritrovano eseguite sui materiali più poveri. La carta preparata alla pittura, talvolta anche quella già occupata da scritte ad inchiostro, divenne il supporto ideale e più accessibile per tali pratiche corsive, tanto spesso stese in forma incompiuta.


Segnalo qui, per la prima volta nella vasta storiografia dedicata ad Annibale Carracci, alcuni inediti che permettono di unire fasi diverse di quegli incunaboli, dando l’occasione di riconoscere individui precisi che fecero da modello all’artista, prestando i loro caratteri all’affascinante trasformazione di un volto verso le necessità del racconto. Nei Carracci questi sentieri di ricerca estetica sono sempre testimonianze di vita e, quasi come un incantamento, le novità proposte sembrano tracciare una metamorfosi ovidiana, dal ritratto di un amico al volto di un contadino, per approdare infine alla grottesca maschera di un fauno. Cercherò di ricostruire la traiettoria lungo la quale, sotto la direzione di un esperto regista, il soggetto si prestò a divenire un duttile attore; la sua faccia in posa venne progressivamente spinta a caricare certe espressioni, a voltare lateralmente gli occhi o ad accennare un sorriso sotto i baffi, col solo sollevarsi di un angolo della bocca.



Nelle collezioni di Brera è conservato un Ritratto virile (Foto 2 e 5), che guarda di tre quarti il pittore, mentre tiene la mano destra al petto, sotto il collo arricciato e i baveri appuntiti di una camicia bianca.


Purtroppo dispongo solo di una vecchia fotografia in bianco e nero, ma vi si scorge pronunciato il naso aquilino e un allungato taglio di palpebre; baffi marcatamente orizzontali e una ruga espressiva che segna una netta diagonale dalla narice all’angolo della bocca. In cima all’ampia fronte spunta un ciuffo centrale di capelli che rimane isolato tra la calvizie.
Classificato come opera di anonimo bolognese (inv. 677, olio su tela, cm. 49×36)[iii] è relegato nei depositi, ma qui si propone una diversa identità che trova stringenti confronti con un dipinto di collezione privata, recentemente sottopostomi al giudizio (Foto 3 e 6)[iv].
È legittimo ritenere che interpretino il volto della medesima persona e tutti gli elementi che ho descritto si ritrovano puntuali in entrambe le pitture, dal naso che piove sulla bocca, al rado cespuglio in cima al capo. Ma mentre il dipinto di Brera rientra nella ‘regola nobile’ del Ritratto, l’opera privata siamo tenuti a rubricarla nel genere delle Teste di Carattere per quell’accenno di sorriso ironico che restituisce una condizione momentanea, di effimera spontaneità, allusiva ad un racconto, molto più che a un’effige. Proprio durante la stagione dell’Accademia degli Incamminati le Teste di Carattere divenneno una pratica abituale, indirizzata a costruire repertori di espressioni, fisionomie e sentimenti, da usare nelle più varie necessità iconografiche.
Su visi così fortemente evocativi Annibale investiva pensieri e progetti, stabiliva destini pittorici e palcoscenici appropriati. Sono perfino tentato, in tal senso, di instaurare un parallelo con Federico Fellini, nella scelta di interpreti dai caratteri estremi che, nel regista riminese, viravano spesso in caricatura senza smarrire nulla dell’umanità individuale[v].
Nel Ritratto virile di Milano (Foto 2 e 5) l’autore scelse di trasmettere un’eleganza morale, discreta, fissando l’uomo in un sovrappensiero quasi distaccato, mentre nella carta di collezione privata (Foto 3 e 6) le medesime fisionomie esternano un sentimento sostanzialmente diverso, che sottolinea la natura dionisiaca di quei tratti. La stesura pittorica vi trova la massima esaltazione e si mostra vibrante, corsiva, diretta e senza esitazioni. Una materia capace di cogliere sfumature dialettiche negli intensi occhi bruni, così come emergono sottintesi d’ironia dalle labbra dischiuse sotto i ciuffi spioventi dei baffi. Ma, per quanto già avviata, la metamorfosi è solo all’inizio ed è stato possibile identificare altre due fasi fondamentali di quel percorso immaginifico. La terza tappa si trova in un piccolo disegno[vi] (Foto 4 e 7) e, inaspettatamente, la quarta la si incontra in uno dei dipinti più famosi del geniale artista bolognese (Foto 8 e 9).
Su di una carta grigio-verde, con pochi ed essenziali colpi di grafite, lo stesso individuo è descritto in un’indimenticabile istantanea (Foto 4), mentre con un cappellaccio sulla testa e in sincero buonumore guarda di lato, senza scostarsi dai trequarti della posa.

È l’esempio commovente di una cronaca carpita al volo che ci restituisce un clima amichevole, instaurato attorno ad un tavolo d’osteria più che accanto al cavalletto di lavoro. Ebbene quel minuscolo e superlativo disegno (Foto 4 e 7) sarà anello indispensabile di una catena cinetica che sta portando quel nobile e affilato viso verso un destino teatrale e mitologico. Servirà infatti a comporre la maschera grottesca di un essere dionisiaco, metà uomo e metà capro, che Annibale immagina entro un capolavoro della fine degli anni Ottanta del secolo decimo sesto (Foto 8 e 9).
È databile intorno al 1588-1589, dopo il documentato viaggio veneziano, la lasciva e maliziosa Offerta a Venere che il Carracci realizzò per un ancora incerto committente[vii]. Solo nel 1620 la tela raggiunse la collezione Medicea nella quale da allora si trova, per essere collocata poi nella principale tribuna degli Uffizi. Non serve qui entrare in una approfondita lettura dell’ossimorico dipinto fiorentino, diviso tra profferte e ritrosie, tra un piccolo Eros che è caricatura del desiderio, aggrappato come un cagnetto alla gamba della donna e l’altro Amorino che, trattenendo il satiro per le corna, porge alla giovane una corona floreale. Ineludibile in ogni caso è l’atmosfera che rimanda a Dioniso e alla piena sensualità dei corpi. Serve qui sottolineare la risata estrema ed eloquente di chi innalza l’offerta d’uva su quella coppa di metallo. L’innesto tra umano e animalesco è perfettamente riuscito e basta imbrunite le carni per lasciare intendere la vita agreste e boschiva del fauno. Che l’artista sia un truccatore della realtà è acquisito sin dai tempi antichi e tutta l’arte greco romana ha giocato su quel confine ideale e fisico, su quel sottile limite tra la forma e il concetto. Sono sufficienti poche accentuazioni, ai caratteri corporei di un individuo, per trasformarlo in un essere mitologico o per oltrepassare quel terreno ambiguo che sta tra espressione ed allusione, tra realtà e teatro.
Torna utile a tale discorso riproporre un dipinto di indubbia efficacia (Foto 10), che pure non ha incontrato una totale adesione tra gli studiosi di Annibale Carracci. Mi riferisco a un’immagine tra le più assertive nel vastissimo repertorio della pittura tra Cinque e Seicento. Una tela che tocca un apice comunicativo diretto, senza mezzi termini, dando del tu all’osservatore, quasi fosse uno di quei manifesti che, secoli dopo, avrebbero incitato all’arruolamento.
Venne pubblicato nel 1972 da Stephen Pepper e nel 1976 fu inserito dal Malafarina nel gruppo delle “ulteriori opere attribuite ad Annibale” entro la monografia edita dalla Rizzoli [viii]. Sin dal suo riemergere è sempre stato classificato come Contadino che ride (Foto 10) (Fiorenzuola d’Arda, collezione privata), una didascalia che di certo non può contenere tutto il carico di provocazione, il moto improvviso e urlante di quest’uomo, che ha anch’egli tratti fauneschi e quell’aria sfottente di un amico che ha appena vinto una partita a carte, al tavolo di una bettola di paese.

Potrebbe venire scambiato per il fermo immagine di un film, cha abbia Willem Dafoe come protagonista, tanto è giocata la maschera satirica su aspetti caratteriali di un volto segnato da zigomi sporgenti e da un accentuato prognatismo.
Anche in questo caso, e tenendo presente le debite alterazioni espressive, è possibile proporre una derivazione dal volto di un meraviglioso Ritratto virile (Foto 11 e 14) recentemente acquisito agli studi, nonostante non sia mai stato messo in relazione con l’opera di Fiorenzuola.

Provenie dalla Nelson Shanks Collection [ix] ed è transitato presso la Sotheby di New York il 27 gennaio 2022. Ritengo vada posto al vertice della ritrattistica secentesca, per forza espressiva e per la superba qualità di stesura che tocca punti sprezzanti e può dirsi un incompiuto volontario che sospende le trascurabili sartorie della camicia a lattuga e del corsetto, lasciato semplicemente imbastito.
I caratteri del volto, gli zigomi allargati, le carnose e pronunciate labbra, così come l’evidente mascella spinta in avanti, fanno comprendere come la caricatura del ‘villano gaudente’ possa essere derivata da quest’uomo (Foto 13 e 14), le cui fisionomie peraltro si conoscevano già attraverso un’altra carta dipinta da Annibale e conservata a Palazzo Pitti (Foto 12).



Un foglio pittorico che si configura quale prima idea della tela newyorkese, nello spirito più severo che spinse i curatori della mostra del 2006 a definirlo: Testa d’uomo dall’espressione irata[x].

A differenza di quanto abbiamo visto nel caso precedente, il foglio risulta più chiuso nel disegno e meno vibrante rispetto alla redazione su tela. Resta comunque intatta la prassi di partire da un viso reale, magari scelto tra gli amici e necessariamente dotato di un proprio vigore espressivo, per condividere con questi un percorso di ‘finzione’ e per portare a termine uno specifico tema narrativo.
A questo punto del testo devo svelare un piccolo mistero legato al primo disegno qui presentato (Foto 4 e 7), che è conservato in una collezione privata assieme ad altri due piccoli fogli, anch’essi assegnabili ad Annibale[xi]. Al momento di dare un consiglio per la cornice più adatta, alla vigilia della Biennale Disegno Rimini del 2016, io stesso mi sono accorto che i tre piccoli disegni facevano parte, in origine, di un foglio più grande, frammenti di diverso formato, ma combacianti tra loro (Foto 15). Non è più possibile sapere quando sia avvenuto il taglio, ma la continuità della punta del cappello o della veste del ‘contadino’, rendono inequivocabile la loro realizzazione in una seduta congiunta di ripresa. Le altre due teste sono stese ancora più rapidamente del primo disegno e tuttavia trovano anche loro qualche riscontro non banale con altre invenzioni di Annibale.
Lo Studio di testa senile che sta al centro (Foto 16) venne quasi certamente utilizzato nel Venditore di immagini appartenente ai Mestieri per via, la serie di disegni andata smarrita, ma tradotta in calcografia da Simon Guillain[xii] nel 1646 (Foto 17 e 18).


Mentre per lo Studio di testa di ragazzo con cappello (Foto 20), non si trova al momento una connessione diretta.


Segnalo tuttavia una bella tavoletta inedita battuta da Sotheby a Londra il 29 ottobre 2019 come opera di scuola bolognese, e raffigurante un Busto di ragazzo con cappello rosso [xiii] (Foto 21) dove le forme paffute del giovane e i grandi occhi chiari si prestano quantomeno al confronto.


Questo dipinto londinese è un altro struggente esempio di come le Teste di carattere carraccesche anziché costituire dei ritratti ufficiali, fossero una sapida annotazione di vita e di cronaca sentimentale.


Vorrei infine segnalare un’addenda che integra la parte iniziale di questo mio primo saggio su Annibale. Ritengo che un altro piccolo foglio, transitato sempre sul mercato antiquario londinese, vada posto in relazione al primo Ritratto virile di Brera (Foto 2, 5 e 22). Si tratta dello Studio per un volto maschile (Foto 23) eseguito da Annibale, ma ingiustamente ritenuto un Autoritratto [xiv], che ora posso proporre come la prima idea del volto capostipite di quella metamorfosi che ho appena tentato di ricostruire.
Massimo PULINI Cesena, 6 Aprile 2025
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