L’Ultima Cena di Francesco De Mura: dalla Luce alla Morte-Rinascita (con una aggiunta su Caravaggio e Michelangelo). Un saggio di M. Fagiolo e una ‘Appendice’ di M. Bussagli

di Marcello FAGIOLO

Una mia recente rivisitazione dell’Ultima Cena di Francesco de Mura nella Cattedrale di Monopoli (firmata e datata 1755; vedi l’opuscolo illustrativo del restauro, La Cena restaurata di De Mura a Monopoli, 2001) mi ha spinto a formulare alcune considerazioni sulla iconografia di questa tela monumentale, anche in rapporto alla precedente versione realizzata da De Mura nella chiesa dell’Annunziata a Capua (1750 c.; vedi anche lo splendido bozzetto presso il Pio Monte della Misericordia di Napoli) che è sviluppata in verticale, mentre la versione di Monopoli è dilatata in senso orizzontale.

La luce eucaristica

Gli studiosi hanno più volte rivolto l’attenzione sugli effetti di luce della tela, che andrebbero peraltro considerati più attentamente nella loro organica correlazione, a partire dall’aureola di Cristo che si irradia fulgida come il sole (designando Gesù come Cristo-Sole).

-La lucerna appesa in alto è generatrice di Luce che rimanda forse alla creazione divina (“Dio ordinò: ‘Vi siano lampade nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte […] e per illuminare la terra’”, Genesi, 1, 14-15) ma anche oscura immagine in controluce, dominata dalla luce retrostante dell’angelica Gloria celeste. Le 7 fiammelle visibili (a Capua sono invece 9) simboleggiano i Doni dello Spirito Santo, mentre il numero totale delle 12 fiammelle rimanda agli Apostoli.

-I bagliori dorati emessi dal vaso di bronzo – a cui si appoggia il giovane sotto la figura di Cristo – mettono “in luce” il simbolismo del vaso in connessione col vino-sangue della messa eucaristica.

-I piatti di peltro in basso a sinistra (ma posti in posizione più significativa sotto il vaso bronzeo nel quadro di Capua) costituiscono l’ultima irradiazione della luce cristologica, e attirano significativamente l’attenzione del cane che vi si specchia con l’estremità del muso. Si moltiplica così il tema della patena, il piatto metallico in cui Cristo aveva spezzato il pane, ripreso nella liturgia della messa per posare l’Ostia prima e dopo la consacrazione.

Si tratta, in definitiva, di un asse di luce divina che da Cristo si irradia verso l’alto e poi discende verso il basso. E – nel ricordare che la vita della Confraternita era illuminata in particolar modo dai rituali delle Quarantore che si svolgevano nella cappella – mi piace collegare questo irradiamento alla tradizione delle Macchine barocche per Quarantore che si qualificano appunto per le innumerevoli e assai differenziate invenzioni di temi iconografici legati all’irradiamento della luce eucaristica.

Il quadro di Monopoli presenta però altri due elementi, anch’essi collegati fra loro, su cui siamo invitati a riflettere con attenzione.

L’Agnus Dei

Il primo elemento è il piatto, imbandito davanti a Cristo, che contiene un animale identificabile con sicurezza con un agnello, soprattutto se si paragona il quadro di Capua (piatto di diametro di circa 50 centimetri) col quadro di Monopoli: in quest’ultimo, il piatto diventa più grande e la testa dell’agnello non è più reclinata verso le zampe posteriori ma si protende con la bocca semichiusa e gli occhi spalancati a osservare il pane (equivalente al corpus Christi) che Gesù appare in atto di benedire.

Si tratta di una evidente rappresentazione simbolica dell’Agnus Dei, prefigurazione simbolica del Cristo come vittima sacrificale per la redenzione dei peccati dell’umanità. L’azione presentata nel quadro appare in sintonia col sacrificio della messa rappresentato liturgicamente nel sottostante altare della cappella: ogni volta il sacerdote, dopo la frazione dell’Ostia, ripete tre volte la formula desunta dal racconto evangelico del Battesimo di Cristo: “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi…”. Al tema dell’Agnello sacrificale si collega anche, nella cappella, l’ovale di De Mura col Sacrificio di Isacco: mentre l’Angelo ferma la mano armata di Abramo, a destra spunta infatti la testa dell’ariete che avrebbe sostituito Isacco nel sacrificio.

Jan Van Eyck, Adorazione dell’Agnello mistico (Gand, 1426-32, partic.).

Se è ben noto il simbolismo dell’Altare come immagine di Cristo e del suo sacrificio, non mancano riferimenti visivi all’Agnello sulla Mensa eucaristica. Basterebbe ricordare il meraviglioso polittico di Van Eyck con L’adorazione dell’Agnello mistico (Cattedrale di Gand, 1426-32) in cui si crea un cortocircuito tra la scena evangelica del Battesimo e l’apparizione dell’Agnello nell’Apocalisse: al centro dell’asse che congiunge la Gloria dello Spirito Santo con la Fontana della Vita, l’Agnello – col sangue zampillante nel calice – troneggia su un altare con la scritta inneggiante all’“Agnus Dei qui tollit peccata mundi”.

 

G.B. Recco, Allegoria pasquale con le Uova e l’Agnello (mercato antiquario)
Josefa de Ayala de Obidos, L’Agnello sacrificale (1670-80 c.; Baltimora, Walters Art Museum)

Per quanto riguarda l’iconografia barocca, si può ricordare, in area napoletana, la Natura morta con Agnello e Uova di G.B. Recco (1650-60 c., con diverse versioni e varianti in ambito napoletano), di chiaro significato pasquale: pronto al sacrificio, l’Agnello con le zampe legate guarda con occhi sbarrati verso la profondità (della sepoltura?), quasi a respingere da sé il calice amaro mentre un alone di luce fa risaltare il muso inquieto. Ricordo, per concludere, un quadro di Josefa de Ayala de Obidos (1670-80 c.; Baltimora, Walters Art Museum), sicuramente influenzato dall’opera di Recco: divinizzato esplicitamente con l’aureola, l’Agnello sacrificale – con le zampe legate e i mansueti occhi aperti a fissare un fiore rosso-sangue – giace su una tavola (allusiva al coperchio del sepolcro) su cui si legge “occisus ab origine mundi” (Apoc. 13, 8) con riferimento alla volontà primigenia di Dio di redimere il genere umano al momento stesso della creazione e del peccato originale, istituendo la figura metaforica del Verbo incarnato come Agnello predisposto al sacrificio.

Il Sepolcro

Nel quadro di Capua, davanti al vaso bronzeo appare un giovane seduto su un alto gradino che indica con la mano destra i piatti di peltro in primo piano. Nel quadro di Monopoli si registra un altro cambiamento significativo, a mio avviso richiesto da un teologo consulente della Confraternita del SS. Sacramento (dedicata in origine al “Sacratissimo Corpo di Cristo”): il giovane appare seduto sul bordo di un recinto rettangolare, verso il quale punta il suo indice (l’importanza del recinto appare contrassegnata dalla firma del pittore in lettere capitali) e che proporrei di identificare come accesso a una cripta sepolcrale: le metafore del sacrificio eucaristico, se fosse giusta questa mia lettura, troverebbero così una conclusione nella possibile allusione al sepolcro di Cristo.

Il quadro di Monopoli si qualifica così con un ultimo arricchimento rispetto a quello di Capua: l’asse di Luce sembra concludersi con l’allusione a una Tenebra che però prefigurerebbe la Luce della Resurrezione, riflettendo in qualche modo la durata delle Quarantore le quali partono temporalmente dalla Morte e si concludono con l’uscita dal sepolcro.

La Deposizione di Caravaggio

A questo punto vorrei aggiungere un’altra suggestione visiva (ma premetto che si tratta di una semplice coincidenza): il drappo del giovane scende lungo il recinto sepolcrale come una sorta di velo sindonico, rievocando un capolavoro di Caravaggio, la Deposizione della Pinacoteca Vaticana, in cui troviamo una analoga postura del lenzuolo di Cristo che scende lungo la pietra del sepolcro (fulcro visivo del quadro come metafora di Cristo “pietra angolare”), mentre la mano di Cristo sembra indicare la profondità del sepolcro.

Anche la tela di Caravaggio, come quella di Monopoli, sintetizza una serie di scene diverse, ma più organicamente concatenate: i gesti delle donne “mimano” le azioni successive della crocefissione (le braccia aperte di Maria) e della deposizione (le braccia della Maddalena sembrano quelle di Cristo appena distaccate dalla croce), mentre Nicodemo e Giovanni adagiano il corpo sulla “pietra dell’unzione” prima di avvolgerlo nel lenzuolo sindonico e di calarlo nella tomba.

Credo verosimile che Michelangelo Merisi abbia voluto auto-rappresentarsi nel martire-Cristo (così come fece con personificazioni molto diverse in altri quadri), mentre il Nicodemo che si rivolge verso di noi altri non è se non il sommo Michelangelo. E si potrebbe ipotizzare un pellegrinaggio devoto del pittore “maledetto” alla Pietà che Michelangelo aveva voluto per la sua sepoltura e che era allora ospitata incompiuta nella vigna Bandini sul Quirinale (prima di essere acquisita dai Medici, per approdare infine in S. Maria del Fiore e oggi nel Museo dell’Opera del Duomo).

Ho potuto chiarire, qualche decennio fa, che nella Pietà “Bandini” Michelangelo aveva voluto impersonare Nicodemo, essendo a conoscenza di una tradizione medievale che in qualche modo lo voleva artista come l’evangelista Luca, e più esattamente scultore in quanto autore di una celeberrima icona del Crocefisso, il miracoloso Volto Santo di Lucca: secondo la tradizione Nicodemo, discepolo di Gesù (e presunto autore di un Vangelo apocrifo), dopo avere contribuito alla deposizione e avere offerto la “mistura di mirra e aloe di centro libbre” (Giov. 19, 39) avrebbe cominciato a intagliare su una croce di quercia il corpo di Cristo nel legno di cedro e la scultura sarebbe stata terminata nel volto da mano angelica e poi pervenuta miracolosamente per barca in Toscana, insieme a due ampolle col sangue di Cristo.

Vorrei concludere ricordando un’altra opera di Michelangelo, di cui mi sono occupato in passato, il Tondo Doni, che presenta aldilà della Madonna una enigmatica cavità, che ho potuto interpretare come cava di marmo e come prefigurazione della tomba di Cristo: qui si trova – oltre agli Ignudi appoggiati o seduti sul bordo (come nel quadro di De Mura) – il Giovannino che guarda preoccupato verso Cristo, a profetizzarne la morte (vedi la piccola croce che porta in spalla).

La cava geometrica ideata da Michelangelo – nella forma a esedra che rievoca l’orchestra del teatro antico – sembra effettivamente riprodurre i teatri artificiali delle cave di Carrara, nelle quali lo scultore si recava per lunghi periodi a scegliere personalmente i blocchi di marmo.

Michelangelo. Tondo Doni (1504 c.; Firenze, Uffizi). La fossa-cava-cavea allusiva al sepolcro di Cristo (in basso, disegno di F. Colonnese)

Marcello FAGIOLO  Roma 19 luglio 2020

 

Francesco Lofano, che cordialmente ringrazio, mi segnala quanto segue.

L’Ultima Cena di Monopoli è firmata e datata 1755. In una singolare delibera del 25 agosto 1754 (conservata presso l’Archivio Unico Diocesano di Monopoli) la Confraternita committente impone all’artista di eseguire l’opera “sul modello di un altro simile dipinto dello stesso pittore per la chiesa di cattedrale di Capua”. Dal documento si apprende che il prezzo concordato sarebbe stato di 330 ducati in luogo dei 600 chiesti per il dipinto di Capua, grazie all’intercessione del marmoraro Nicola Lamberti che avrebbe dovuto eseguire le cornici dei dipinti. Questa riduzione di compenso potrebbe avere indotto De Mura a far partecipare la sua bottega all’esecuzione del quadro (si può pensare, in particolare, a Giacinto Diano).

Bibliografia essenziale: G. Bellifemine, La Basilica della Madonna della Madia a Monopoli, Fasano 1979, pp. 90, 154, 165; M. D’Elia, La pittura barocca, in Civiltà e culture in Puglia. La Puglia tra barocco e rococò, Milano 1982, p. 303; M. Pasculli Ferrara, scheda in C. Gelao (a cura di), Confraternite. Arte devozione in Puglia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della Mostra (Bari, 1994), Napoli 1994, p. 273; Arciconfraternita SS. Sacramento di Monopoli (a cura di), La Cena restaurata di De Mura a Monopoli, Fasano 2001; M. Pirrelli, Per la cattedrale barocca di Monopoli. Uomini e Tempi, Fasano 2014, pp. 90, 178.
Mi sono occupato della Pietà Bandini di Michelangelo in Introduzione alla “toscanità” di Bernini (e alla “romanità” di Michelangelo e di Buontalenti), saggio introduttivo a Bernini e la Toscana: da Michelangelo al barocco mediceo e al neocinquecentismo, Roma 2002, pp. IX-LIX.; e del Tondo Doni in “Post tenebras Lux”: l’eclisse e la rinascita, in V. Cazzato, R. Poso, G. Vallone (a cura di), Per le Arti e per la Storia. Omaggio a Tonino Cassiano, Galatina 2017, pp. 104-111.

Appendice  di Marco BUSSAGLI

Una evocazione della Piscina Probatica?

Il quesito iconografico posto da Marcello Fagiolo, come accade nelle letture che scaturiscono da immagini complesse e dense quali la Cena di Monopoli, può suscitare altre ipotesi. La presenza nel piatto dell’agnello arrostito, tanto da sembrare irriverente, ha illustri precedenti nel richiamo culinario che troviamo in opere come l’Ultima Cena della Galleria Borghese considerata fra i capolavori di Jacopo Bassano: qui, al centro della tavola imbandita, è presente un piatto con una testa e una zampa di agnello scuoiato, pronto per essere cucinato. D’altra parte, Leandro Bassano, terzogenito di Jacopo, riprende l’idea nella Cena della Galleria Palatina a Firenze: qui nel piatto troviamo un quadrupede arrostito che, per la conformazione delle zampe, dovrebbe essere un agnello. Certo, De Mura è molto più preciso e aggiunge alla presenza dell’agnello ucciso (come in Jacopo) quella dimensione culinaria (di Leandro) che lo mostra come un agnello arrosto. Credo che la scelta di De Mura rientri in questo filone iconografico e teologico, visto che la condivisione dell’agnello è metafora di quella del corpo di Cristo attraverso l’Eucarestia. Quanto all’altro aspetto offerto alla nostra attenzione, l’apertura nel bel mezzo del pavimento, piuttosto che un accesso monumentale al sepolcro di Cristo, potrebbe richiamare il tema della Piscina Probatica, di cui parla il Vangelo di Giovanni:

«V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto» (Giov. 5, 2-4).

La prima obiezione che mi si farà è che De Mura non ha dipinto l’acqua, ma si può rispondere che non ha dipinto neanche la lastra tombale. Tuttavia, si può osservare che una linea nera segna le pareti dell’invaso poco al di sotto del bordo, alludendo forse al livello dell’acqua, ma lo spazio è talmente ridotto e in ombra che non sarebbe stato pittoricamente corretto produrre riflessi ed effetti di luce che risulterebbero ingiustificati.

Il tema della Piscina sarebbe una metafora della fede e della salvezza attraverso la Comunione, che viene rappresentata con la Cena e che, nella realtà della chiesa, è dimostrata dall’altare sottostante. È chiaro che si tratta di un’allusione metaforica e non di una vera descrizione della Piscina Probatica: pertanto mancano ovviamente i cinque portici, non c’è la pletora di ciechi e mendicanti e non c’è neppure il vecchio paralitico, protagonista della scena. Si tratta comunque, nel racconto evangelico, dell’episodio che provoca la collera dei giudei e la successiva persecuzione di Cristo che sarebbe approdata alla morte sacrificale sulla Croce. Il personaggio che allunga il piede per immergersi e indossa un panno giallo rappresenta l’umanità intera coi suoi peccati e i suoi problemi che solo l’amore di Cristo può guarire. Si spiegano così le discrepanze rispetto al testo evangelico, ma pure la possibilità di un sovrapporsi di rimandi che integrano l’allusione al sepolcro di Gesù nel quale la morte si trasforma in vita eterna.

Marco BUSSAGLI   Roma 19 luglio 2020