di Emilio NEGRO
I tre cugini Carracci, Caravaggio e molti altri pittori, replicarono talvolta le opere di maggior successo e non tenerne conto equivale a rifiutare un dato di fatto storicamente acquisito. Nel caso di Ludovico Carracci ciò è stato dimostrato anche di recente dal ritrovamento della maestosa Caduta di S.Paolo, un formidabile “assolo” antecedente alla pala di analogo soggetto della Pinacoteca Nazionale di Bologna (figg.1-2) (1).


Dunque Ludovico non fece eccezione a tale consuetudine e quanto rimane di quella produzione non ancora individuata andrà ricercata fra le repliche e i bozzetti più significativi, palesemente relazionabili per affinità stilistiche con le pitture già inserite nel suo ricco catalogo.
A quest’ultima categoria appartiene un dipinto in buono stato di leggibilità raffigurante il Crocifisso con Dio padre e angeli, presentato da una nota casa d’aste genovese con l’attribuzione prudenziale – ma ingenerosa -, a “Ludovico Carracci, studio di” (olio su tela, cm 60,5 x 42) (fig. 3) (2).


I suoi legami con lo stile del più anziano dei tre cugini felsinei, austero, dimesso e consono ai canoni della Controriforma, sono lampanti e consentono di restituirglielo senza dilungarsi in argomentazioni superflue, salvo rimarcare la sua credibile funzione di modello preliminare per il Crocifisso fra Dio padre, angeli e i patriarchi al Limbo (olio su tela, cm 280 x 193, firmato e datato “OP. LUD. CARRACCI BO PIN M.DCXIV”, Ferrara, chiesa di Santa Francesca Romana) (fig.4).
A questi sono legati altri due dipinti del maestro bolognese di similare soggetto: la frammentaria Crocifissione di raccolta privata proveniente da un’antica famiglia nobile di Modena (olio su tela, cm 83 x 64) (fig. 5) (3) e il Gesù crocifisso e un angelo pubblicato da Gail Feigenbaum in occasione della fondamentale mostra monografica bolognese del 1993 (olio su tavola, cm 70 x 40, collezione privata) (fig.6) (4).


L’opera venduta in asta a Genova presenta infatti le caratteristiche tipiche delle pitture propedeutiche ad altre di più complessa ed onerosa realizzazione, cioè le misure e soprattutto le varianti proprie dei dipinti preparatori: nel caso specifico, le due aree nere apicali laterali in origine adibite ad essere ricoperte dalla carpenteria dell’altare, la differente posizione degli angeli, la presenza delle gocce di sangue sul busto e sul perizoma del Salvatore assenti nelle altre redazioni, la mancanza dei ritratti dei patriarchi nel Limbo e della triplice scritta nel titulus crucis “Gesù nazareno re dei giudei” in lingua ebraica, greca e latina. Di conseguenza si può affermare che la tela già Cambi rientra nel novero degli schizzi e dei modelli richiesti dai committenti specialmente tra il Cinque e il Seicento, quando sovente i contratti stipulati dagli artisti imponevano di presentarli prima di dare inizio all’opera definitiva.
Verosimilmente le quattro Crocifissioni menzionate furono eseguite a poca distanza di tempo, intorno al 1614, per interpretare nel modo più chiaro il tragico trapasso di Cristo dalla vita alla morte, uno dei cardini del credo cristiano raccontato dai Vangeli (Matteo, 27, 33-56; Marco, 15, 22-41; Luca, 23, 33-49; Giovanni, 19, 17-37) e su cui si concentra in maggior misura la devozione dei credenti. Ciascuna di esse fu per questo ambientata contro uno sfondo cupo schiarito dalla luce che illumina la sofferta tensione muscolare di Gesù, rappresentata con l’accuratezza tipica di un eccellente anatomista. Tale evidente adesione al dato naturale non meraviglia giacché, come ricordava Lucio Faberio, fin dall’iniziale Accademia dei Desiderosi (poi Incamminati), c’era tra i Carracci e i loro scolari una “commendabile emulazione” nel
“disegnare l’ossature de’corpi, nell’imparare i nomi, le posture e legature dell’ossa, i muscoli, i nervi, le vene, e l’altre parti, facendosi perciò spesse volte Anotomia” (5).
La puntuale descrizione del corpo del Messia dolorosamente teso nell’estremo anelito di vita era perciò fondamentale per ottenere un’immagine che soddisfacendo i canoni estetici della Controriforma cari a Ludovico, desse ai fedeli l’illusoria presenza del dio vivo sull’altare.
Il valente pittore bolognese eseguì le quattro opere ricordate durante la sua estrema fase stilistica, ancora contraddistinta da un’accentuata cruda naturalezza e da un febbrile misticismo, ovvero i caratteri tipici delle pitture della sua ultima maturità, più crude ed essenziali rispetto a quelle antecedenti.
Resta difficile stabilire l’originale collocazione del frammento di pala già a Modena, eseguito su una tela dalla tipica orditura veneta; la Crocifissione su tavola pubblicata dalla Feigenbaum (6), dovrebbe essere invece una replica con varianti della pala datata 1614, originariamente collocata nella basilica olivetana di San Giorgio extra-muros, la più antica chiesa edificata sul territorio ferrarese, da non confondere con l’altra di più contenute dimensioni intitolata a S.Benedetto da Norcia e a S.Giorgio, ma soprannominata dai ferraresi San Giorgino, costruita nel 1569 dai monaci del medesimo ordine dentro le mura cittadine (7).
Nel 1622 questa chiesa fu consacrata nuovamente a Santa Francesca Romana e nei due anni seguenti venne ristrutturata per volontà dell’abate Don Lorenzo Bertazzoli che l’ampliò fino a farla diventare di “media grandezza” (8); il priore commissionò inoltre il nuovo altare maggiore e fece collocare nell’abside il Cristo in croce e i Santi Padri nel Limbo firmato e datato da Ludovico. A coronamento della pala fu collocata una “trilogia” di tele dello
“stesso Carracci: nella cimasa superiore ‘Gli angeli adoranti’ che portano in trionfo gli strumenti della passione” (0,50 x 0,65) ed ai lati in apposite nicchie ‘L’Addolorata’ e ‘S.Giovanni Evangelista piangente’ (0,40 x 1)” (9).
Nonostante le trasformazioni volute da Bertazzoli gli altari restarono ancora tre, “il maggiore collocato al termine dell’unica navata e due a muro”, quello a sinistra dedicato a San Bernardo Tolomei e di fronte l’altro intitolato a Santa Francesca Romana, rispettivamente in sostituzione di quelli consacrati alla Madonna e al Rosario (10). Al presente le cappelle con l’altare sono quattro, cioè due per lato, e il polittico su tela è stato spostato nell’ultima cappella a destra, all’interno di una carpenteria visibilmente posteriore che esalta comunque lo scomparto al centro: di quest’ultimo la Feigenbaum ha identificato la maggior parte degli “spiriti magni” ritratti (11). Iniziando da sinistra sono Noè con la colomba sulla spalla, Isaia con la sega e Mosè coi raggi di luce sul capo; nel lato opposto della croce Abramo con la fascina, Isacco più in basso, forse Eva, David con la corona e Adamo con un frutto (12).
Tutte le grandi anime sono originalmente raccolte sotto ai due tronchi incrociati, a mala pena dirozzati, sul più lungo dei quali campeggia la striscia di carta svolazzante con l’iscrizione trilingue, inchiodata a una tavoletta di legno precariamente fissata con un solo chiodo all’apice della croce.
Per la comprensione del complesso significato iconografico della pala di Cristo in croce e i Santi Padri nel Limbo e, soprattutto per capire come essa sia legata al culto di San Benedetto e a quello del suo ordine, sono necessarie ulteriori indagini stilistiche e iconologiche dovute all’inusuale presenza di Mosè e Abramo visibili ai lati del sacro legno, cioè in posizione araldica preminente. Va rimarcato innanzitutto che il viso del primo deriva dal celeberrimo volto del Mosè di Michelangelo della Basilica romana di San Pietro in Vincoli (fig. 7-8).


Questa constatazione rafforza il valore dei rapporti intercorsi tra Ludovico e l’Urbe, testimoniati in primis dall’invito rivoltogli dai Farnese per affrescare il loro palazzo romano (istanza che il Carracci rifiutò per rimanere indisturbato a Bologna, inviando in sua vece il cugino Annibale), provando inoltre il valore della sua trasferta romana del 1602 e di altre possibili non documentate (13).
Va rimarcato infine come l’inusitata presenza di Mosè in questo rivoluzionario unicum iconografico destinato ad abbellire un tempio benedettino, trova una spiegazione convincente, ma finora trascurata, nel Libro dell’Esodo (17, 8-16) (14), in cui è ricordato l’episodio del grande profeta che pregò il Signore per conseguire la vittoria degli Ebrei sugli Amaleciti. In quell’occasione il patriarca, per aumentare la potenza dell’invocazione, volse le mani al cielo ma, essendo molto vecchio, stentava a tenerle alzate e perciò periodicamente le abbassava per riposarsi. Proprio in quei momenti i nemici ebbero la meglio sull’esercito giudeo, cosicché Aronne e Cur decisero di intervenire aiutandolo a tenere alzate le palme finché la sua preghiera fu soddisfatta e gli israeliti vinsero la battaglia.
La Chiesa di Roma venera Benedetto da Norcia come il novello Mosè giacché egli, sentendosi prossimo alla fine, affidò l’anima a Dio pregandolo allo stesso modo del profeta, cioè con le mani rivolte verso l’alto onde accentuare il fervore dell’invocazione. Ma anch’egli, essendo vecchio, stentava a mantenerle sollevate e due monaci, analogamente ad Aronne e Cur, decisero di aiutarlo fino a quando rese serenamente l’anima a Dio illuminato dalla grazia spirituale (15).
La raffigurazione di Abramo nel Limbo si deve perciò al fatto che il clero equiparava l’uno e l’altro a San Benedetto, ai suoi monaci e ai loro monasteri. Questa singolare credenza è ben spiegata nei “Discorsi” del teologo e predicatore toledano Alonso di Vigliega, pubblicati in italiano nel 1603. In essi si legge che l’esistenza di Abramo somiglia a quella del beatissimo San Benedetto perché, come il profeta, egli lasciò la casa del padre e le sue ricchezze per vivere nel deserto dove mortificò il suo corpo con dure penitenze. E se Dio non glielo avesse proibito, quell’esistenza di stenti l’avrebbe condotto alla morte, così come sarebbe stato ucciso Isacco senza l’intervento celeste. Per queste azioni meritorie Abramo e San Benedetto ricevettero dall’Onnipotente analoghi premi: ad entrambi fu concesso che il Limbo dei Santi Padri venisse equiparato al loro seno. Tuttavia San Benedetto, a differenza del patriarca, ha tanti seni quanti sono i monasteri dei suoi monaci e delle sue monache.
Quei luoghi di pace sono “molto simili al Limbo”, poiché anche in essi staziona “gente illustre…Re, & personaggi di gran qualità”. Inoltre come nel seno di Abramo, nelle comunità di religiosi non vi è pena e le “anime benedette” di ognuno sono “solamente afflitte dal desiderio ardentissimo…di vedere Dio”. Gli spiriti beati del “seno di Abraam” e le genti pie che vivono nei conventi sono quindi sicure di “non dannarsi, & certe della loro salvazione”: e questa è l’unica “sicurezza, che in terra si può avere”, sicché chi vive nel mondo secolare corre “maggior pericolo, che i religiosi nel convento…i quali devono persuadersi di essere nel seno di Abraam, & d’avere molta sicurezza” del paradiso (16).
Emilio NEGRO Bologna 27 Aprile 2025
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