di Rita RANDOLFI
La complessa personalità di Camillo Cybo, pronipote del più celebre cardinal Alderano, viene scandagliata a 360 gradi da Maria Barbara Guerrieri Borsoi nel suo ultimo volume Il cardinale Camillo Cybo e la sua quadreria. Il casato, la ricchezza, la religiosità, le committenze, edito da Campisano nel 2024.

Sesto di undici figli, Camillo nasce a Massa Carrara nel 1681 da Carlo II Cybo-Malaspina, duca di Massa e principe di Carrara, e Teresa Pamphilj, discendente di papa Innocenzo X. Vive un’infanzia infelice, dovuta ad una madre anaffettiva e un padre dai tratti talvolta violenti. Studia a Roma, dove trascorre ben otto anni nel palazzo Pamphilj di piazza Navona, in compagnia del più famoso zio Alderano, il cui testamento costituisce per lui un’ennesima frustrazione, ricevendo in eredità solo oggetti di poco valore, tra cui un’acquasantiera, che destinerà alla cappella delle Reliquie nella Certosa di Roma.
Dopo la morte dello zio, Camillo cambia diverse dimore, andando a risiedere a palazzo Bonelli (poi Valentini o della Provincia), a palazzo Buratti (poi Alberoni), al casino di S. Dionigi, a palazzo Colonna alla Pilotta, edifici non più esistenti o molto trasformati, nei quali, dietro la supervisione dell’immancabile Raimondo Tassandè, decoratore e suo ‘servitore’, promuove abbellimenti consoni al decoro che il suo rango richiede.
Nel 1718 Camillo diventa presidente della Grascia, poi Uditore generale della Camera Apostolica, ma il suo Il suo carattere, tendente al vittimismo, eccessivamente rigoroso e perfezionista, lo porta spesso a scontrarsi con altri membri della Curia. Di fronte alle difficoltà fugge. E infatti lascia l’incarico e si ritira nell’eremo di Monteluco presso Spoleto. Qui spende circa 1.500 scudi per adeguare gli ambienti che gli vengono concessi per le sue esigenze. Nel tentativo di risparmiare, si serve di equipe di pittori decoratori, in grado di consegnare rapidamente i lavori, e del paesaggista Franҫois Simonot. Accanto all’eremo Camillo, grazie alla rendita di 2.000 scudi annui, garantiti dalla nomina di Maggiordomo papale (1725), provvede anche alla costruzione della chiesa di S. Maria delle Grazie, il cui progetto è condotto dal suo architetto di fiducia, Gaetano Fabrizi.

In qualità di Maggiordomo papale fa realizzare, per conto di Benedetto XIII, le statue nella cappella di S. Domenico in S. Maria sopra Minerva dallo scultore carrarese Giovanni Filippo Tanzi, che utilizza successivamente per vari altri incarichi.
Nel 1729 è elevato alla porpora con il titolo di S. Stefano Rotondo (1729-31), poi di S. Maria del Popolo (1731-41) e infine di S. Maria degli Angeli (1741-43).
Dopo essere stato primicerio dell’arciconfraternita degli Angeli Custodi ne diviene protettore. L’omonima chiesa era adiacente al palazzo Buratti, dove all’epoca abitava, e vicino al quale fa costruire un oratorio grazie alle donazioni di Ippolita Ludovisi. Qui promuove funzioni liturgiche fastose, tra le quali è rimasta celebre quella in memoria della regina Maria Clementina Sobieski, nella certezza che tali eventi siano un efficace mezzo di propaganda della sua persona. Le spese affrontate per l’organizzazione delle feste rivelano la pratica dell’affitto degli arredi effimeri, assemblati secondo la creatività del Fabrizi, regista anche di queste manifestazioni.
Nel 1731, per aver appoggiato l’elezione al soglio pontificio di Clemente XII, ottiene come ricompensa la nomina di Gran Priore dell’ordine di Malta. I contrasti con gli altri cavalieri lo inducono a rinunciare alla carica e a ritirarsi a Mola di Gaeta. Seconda fuga.
Nello stesso anno, per giustificare le ingenti spese dovute in parte ai doni elargiti che il suo status comporta, in parte alle comodità di cui ama circondarsi, scrive una lettera che si rivela un errore diplomatico gravissimo in quanto osa paragonarsi al ‘cardinal nepote’ Neri Maria, provocando l’ostilità dei Corsini e del clero romano. In risposta viene diffuso un pamphlet anonimo, ma che Cybo sospetta di mano di Gaetano Bottari, in cui si ribattono uno per uno i punti di questa lettera, di cui viene vietata la diffusione, ma che in realtà a Roma tutti avevano letto.
Il prelato quindi si allontana dalla città pontificia per andare a soggiornare nella sontuosa villa che si è fatto edificare a Castel Gandolfo, utilizzando come progettista Carlo Stefano Fontana. Immerso in un paesaggio di straordinaria bellezza si dedica alla scrittura dell’imponente autobiografia di ben nove volumi, più uno di indici, dove annota minuziosamente ogni accadimento, gli incarichi ricevuti, le soluzioni possibili dei problemi incontrati, la contabilità, denunciando con coraggio gli abusi di cui è testimone, con il risultato di attrarre su di sé l’ostilità di alcuni potenti del tempo.
I giardini della villa, allestiti con particolare cura, con statue provenienti da Massa, dovevano rappresentare una fonte di consolazione ai suoi veri e presunti dispiaceri.
Il cardinal Cybo si occupa anche del monastero delle filippine oblate di Roma, della ristrutturazione della cattedrale di Civita Castellana, ma la sua devozione per le reliquie dei santi lo spinge prima a ottenere una sovvenzione papale per promuovere il restauro della chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano a Calcata, in seguito alla costruzione della cappella delle reliquie nella Certosa di S. Maria degli Angeli a Roma.
Come sottolinea la Guerrieri Borsoi la scelta di non utilizzare il sacello realizzato dallo zio a S. Maria del Popolo rivela la volontà da parte di Camillo di staccarsi da chi lo aveva intimamente deluso. Il prelato riserva per la sua sepoltura e per quella dei familiari ritenuti degni il vano sotterraneo della cappella, nel quale voleva conservare sia il suo archivio, che le preziose reliquie da lui raccolte.
Il compito assunto dal Cybo in relazione alla quadreria di famiglia non è tanto quello di ampliarla, quanto di tentare di conservarla. Molti dipinti gli arrivano da Massa, spesso parte della collezione di Alderano Cybo, benché essa fosse stata dichiarata inalienabile dal suo creatore. Altri Camillo li compra a caro prezzo, quando il fratello li ipoteca per ottenere il denaro necessario a sostenere i suoi lussi. Le opere, dopo viaggi complicati via mare, sono sempre fatte restaurare con grande cura, dimostrando l’interesse del Cybo per questo patrimonio.
Ciò nonostante egli non esita, come spesso accade in quegli anni, a usare le opere di artisti apprezzati come doni per accattivarsi il favore di chi conta. E’ il caso del Transito della Vergine di Carlo Maratta offerta a Clemente XI Albani. Le commissioni più importanti vengono richieste a Pietro Nelli, autore dell’Annunciazione per il duomo di Civita Castellana e dei perduti ritratti del cardinale e di uno dei pochi veri amici di Camillo, il vescovo Giovanni Francesco Maria Tenderini, noti però attraverso stampe. Altri acquisti sono compiuti presso commercianti, come Tommaso De Marchi, e comprati sul fiorente mercato romano. La consistente quadreria alla sua morte è dispersa, ma alcune opere ne erano fuoriuscite anche negli ultimi anni di vita del porporato. Altri dipinti, passano in eredità alla nipote, Maria Teresa, ma la maggior parte finisce sul mercato.
Nella quadreria si trovano capolavori rinascimentali, ad esempio attribuiti a Filippo Lippi, a Mantegna, la copia variata di Giuliano Bugiardini dal ritratto di Raffaello di Leone X con due cardinali (introducendovi Innocenzo Cybo), il Ritratto di Lorenzo Cybo di Parmigianino, numerosi quadri di scuola ferrarese, ma anche tele dei migliori manieristi toscani e degli emiliani del Seicento:


tra questi spiccano Guido Reni e soprattutto Guercino, particolarmente amato dai suoi predecessori, nonché Garzi e Maratti, mentre sono quasi assenti i pittori romani del primo Settecento.

Prevalgono, ovviamente, i soggetti religiosi e i ritratti dei membri della casata. Camillo è orgoglioso degli arazzi, riscattatati dalle ipoteche imposte dal fratello Alderano.
La sua vecchiaia è caratterizzata da un peggioramento di salute fisica e psicologica. Il testamento riflette la sua depressione ma anche la puntigliosità. Il cardinale lascia oggetti di pregio ai suoi amici e la villa di Castel Gandolfo all’erede Maria Teresa. Dopo pochi anni la delizia di Castel Gandolfo verrà acquistata da Clemente XIV.
Muore il 12 gennaio del 1743 nel suo casino a S. Dionigi. Vuole essere sepolto nella nuda terra, ma con l’anello di topazio conferitogli con il patriarcato di Gerusalemme.
La corposa autobiografia, ma anche l’enorme mole di documenti, lettere,inventari, giustificazioni, così attentamente esaminati e abilmente interpretati dalla Guerrieri Borsoi, restituiscono un’indole contraddittoria, da un lato incline alla lamentela facile, all’autocommiserazione, dall’altra determinata nei suoi propositi, desiderosa di fare bene il proprio lavoro, di risolvere le situazioni difficili, anche quando rischia di farsi il deserto attorno per decisioni ritenute drastiche dai contemporanei. In fondo Camillo resta fedele a se stesso, allergico ai compromessi, sceglie di farsi da parte, quando fiuta il pericolo, ma sa anche difendere il suo ruolo e le proprie origini nobili, rivelandosi in certi frangenti terribilmente ingenuo di fronte all’arguzia del clero dell’epoca.
La Guerrieri Borsoi, quindi, oltre a ricostruire le vicende storiche e biografiche del prelato, ne restituisce la psicologia, che risente dell’ambiente e delle pressioni sociali dovute ad una situazione finanziaria profondamente mutata, che accomuna i Cybo alle sorti di altre famiglie nobiliari, avviate inesorabilmente verso il declino.
Il ricco apparato fotografico a colori e in bianco e nero, la consistente appendice documentaria, con la trascrizione degli inventari messi a confronto tra loro, per sottolineare la superficialità con cui potevano essere avanzate le attribuzioni, l’accurata bibliografia e la scrittura scorrevole rendono questo volume prezioso, uno strumento importante di conoscenza non solo del protagonista e della sua casata, ma anche di artisti meno conosciuti, ma non per questo meno significativi, la cui attività potrà essere oggetto di futuri approfondimenti.
Rita Randolfi, Roma 13 Aprile 2025