Le “Storie meridiane” di Lauretta Colonnelli, raccontare l’arte tramite miti e leggende.

di Nica FIORI

Nel meriggio, quando la calura estiva svuota le strade e i campi, può capitare di avvertire un opprimente senso di disagio e di sentirsi impauriti dall’immensità, dal tutto. È in quell’ora “meridiana” che Pan (che in greco vuol dire “tutto”) scatena il terrore e la confusione in chi ascolta le sue urla acute e lugubri, tanto che il termine “panico” deriva proprio da questa divinità dall’aspetto semianimalesco, con corna e zampe caprine, che i cristiani hanno poi trasformato nel diavolo.

Ce lo ricorda Lauretta Colonnelli, affermata giornalista culturale e autrice di saggi sull’arte, in uno dei 40 sorprendenti racconti del suo ultimo libro “Storie meridiane. Miti, leggende e favole per raccontare l’arte”, edito da Marsilio nel settembre 2021: un libro accuratissimo, profondo e di piacevole lettura, il cui scopo è quello di far scoprire al lettore siti e opere non conosciute o poco conosciute del nostro Meridione, facendo un excursus nella storia dell’arte senza limiti di tempo, dai manufatti della Magna Grecia fino all’arte contemporanea.

L’aggettivo utilizzato dall’autrice per le sue storie, che desta indubbiamente curiosità, ha colpito anche lo storico dell’arte Marco Bussagli, che, nel corso della presentazione del volume presso lo Spazio Arti Floreali di Roma, ha affermato che quel momento del meriggio chiamato controra,

quando si ha l’abbandono dei sensi e la mente può viaggiare intorno alle proprie idee, ai sogni e qualche volta incubi”,

può destare delle realtà al limite dell’onirico, realtà che hanno affascinato e “contaminato” anche tanti artisti del Nord, attratti da quella calda luce meridiana, tanto che, dopo il loro viaggio nel Sud Italia, la loro pittura non è più stata la stessa.

Significativo è il caso di Pieter Bruegel (detto poi il Vecchio) che, all’età di 27 anni, in una mattina di fine estate del 1552, si trovava a Reggio Calabria e, guardando dall’alto di una collinetta il panorama dello stretto tra la costa calabra e quella siciliana, vide

una luce così forte che faceva sfolgorare ogni angolo del paesaggio e abbagliava la città di Messina, bianchissima in fondo alla costa di sinistra, come se fosse di calce viva”,

come racconta Lauretta Colonnelli in una delle sue storie.

Pieter Bruegel il Vecchio, Paesaggio con la caduta di Icaro, 1558

Bruegel conservò quel ricordo fino al ritorno in patria, nei Paesi Bassi. Soltanto allora, nel 1558, dipinse la veduta dello Stretto di Messina nel dipinto intitolato Paesaggio con la caduta di Icaro conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles, l’unico suo dedicato alla mitologia. “Ma per scoprire Icaro nel dipinto di Bruegel – afferma la Colonnelli – bisogna ripercorrerne il mito nelle Metamorfosi di Ovidio. E inseguire una pernice“.

Pieter Bruegel il Vecchio, Paesaggio con la caduta di Icaro, part.

La pernice (in basso sulla destra, vicino alle gambe di Icaro che sta precipitando nel mare) richiama il nome di Perdice, il figlio dodicenne della sorella di Dedalo, che era stato affidato allo zio inventore perché imparasse ogni arte. Il ragazzo si rivelò un ottimo allievo, tanto da inventare il compasso e, osservando le lische dei pesci, la sega. Dedalo, roso dall’invidia, portò il ragazzo sull’Acropoli di Atene e lo buttò giù. Lo salvò Atena, protettrice dei sapienti e degli artigiani, trasformandolo in uccello prima che toccasse terra. La caduta di Icaro può essere vista, pertanto, come una disgrazia che Dedalo si è meritato, perché suo figlio precipita in volo proprio come Dedalo aveva fatto precipitare il nipote.

L’autrice, partendo ogni volta da un’opera d’arte (che può essere anche un libro, come nel caso del prezioso Codex purpureus di Rossano Calabro), si è occupata dei miti, della realtà e della storia facendoci entrare in un mondo straordinario, quello appunto del nostro Sud, che possiede un incredibile patrimonio d’arte, grazie a una stratificazione di popoli che dall’antichità si sono succeduti lasciando ognuno il proprio segno.

Eppure i musei del Sud sono raramente visitati dai turisti, più attratti evidentemente dal mare o dalle bellezze naturalistiche, ed è per puro caso che lei ha scoperto, tra gli altri, il museo archeologico di Lipari, con le statuine dei giocolieri, cui dedica un racconto, o il museo di Gioia del Colle, in Puglia, dove è esposto il cratere del Pittore di Memnon, un ceramista del quale si conoscono altri tre esemplari con lo stesso tema (uno a Corinto, uno al Louvre di Parigi e l’altro all’Altes Museum di Berlino).

Quella di Memnone, il bellissimo figlio dell’Aurora (Eos per i greci) e di Titono (fratello di Priamo), è una storia ben triste, che lei racconta con grazia poetica. Il cratere di Gioia del Colle, scoperto nel 2002, illustra il momento clou della storia, quando il giovane, chiamato a difendere Troia, viene ucciso da Achille, sotto le mura della città assediata:

Al centro, Memnone è stato colpito e atterrato dalla lancia di Achille, che si protegge col suo scudo rutilante. Ai due lati, in piedi sui carri, assistono al duello le madri dei guerrieri: a destra, Eos, con il capo già avvolto dal mantello rosso, che scolorisce in segno di lutto; a sinistra Teti, la madre di Achille, che allarga le braccia verso il figlio in segno di protezione”.
Pittore di Memnon, cratere corinzio con Achille e Memnon, VI sec. a.C., Gioia del Colle

Si racconta che Eos chiese a Zeus l’immortalità per il figlio, e allora dai tizzoni del suo rogo funebre si innalzarono degli uccelli neri, detti Memnonidi, che volteggiarono più volte, gridando e azzuffandosi, e caddero infine sulla tomba dell’eroe, come offerte funebri, ed è per questo che il ceramista ha dipinto anche grandi uccelli neri ad ali spiegate.

Le storie meridiane si possono leggere una alla volta, lasciandosi attirare dal titolo, senza necessariamente andare in ordine: tutte sono ricche di riferimenti e intrecci che l’autrice sa cogliere e suggerire al lettore. La sua curiosità per la cultura l’ha spinta a fare delle ricerche lunghissime, come quando ha visto due dipinti ottocenteschi, entrambi del 1865, firmati da Filippo Palizzi e da Edouard de Sain, che raffigurano delle donne che lavorano negli scavi di Pompei.

Edouard Sain, Ricerche a Pompei, 1866. Parigi, Museo d’ Orsay

“Chi erano quelle donne?” è la domanda che si è rivolta.

Ed è così che “Le ancelle degli scavi” (titolo del primo racconto del libro) divengono, grazie alla sua ricerca, le protagoniste di una storia di costume, un documento di un’epoca in cui si affronta uno scavo in maniera diversa rispetto al passato, scavando per la prima volta in maniera stratigrafica, cioè dall’alto verso il basso. Una storia forse minore, ma assolutamente degna di essere raccontata. Scrive l’autrice:

Se non fosse per i dipinti di Edouard de Sain e di Filippo Palizzi, non avremmo mai conosciuto le giovani donne che lavorarono agli scavi di Pompei trasportando, sul capo e sulle spalle, le grandi ceste colme della terra di risulta

Di loro non c’è traccia nei giornali di scavo, che pure sono densi di notizie sulle mansioni dei lavoranti al tempo del direttore Giuseppe Fiorelli, quello cui si deve la tecnica (ideata nel 1863) dei calchi dei corpi dei pompeiani morti per l’eruzione del Vesuvio, consistente in colature di gesso liquido entro gli stampi naturali formati dalle ceneri.

Si accorse delle sterratrici l’architetto francese Francois Wilbrod Chabrol, che visitò Pompei fra il 1863 e il 1867 e che accennò in un suo scritto alla presenza di

solerti campagnole prelevate dai villaggi vicini, la maggior parte operaie di fabbriche chiuse o sospese per l’invasione dei tessuti inglesi e per il rincaro del cotone”.

Anche lo scrittore Vittorio Imbriani, nel suo racconto epistolare Pompei notturna, parla delle misere fanciulle che vengono paragonate alle dolenti Danaidi.

Questa commistione fra tempo presente e tempo passato – l’illusione di sovrapporre le figure che riemergevano dal sottosuolo alle persone che si aggiravano tra le rovine… – era un gioco affascinante per i letterati dell’epoca”,

commenta la Colonnelli, specificando che, tra i protagonisti di questi racconti, c’è pure chi si è lasciato ammaliare dall’impronta del seno di una pompeiana del I secolo d. C.

Molto più recentemente le misteriose ragazze di Sain hanno colpito la fantasia di Jean Noël Schifano, che nel suo Dictionnaire amoureux de Naples (2007) definisce le ragazze “d’una grande grazia carnale … scalze, vestite come contadine al lavoro” e immagina un approccio amoroso da parte di una di esse:

La più vicina mi guarda, con le braccia alzate a reggere il paniere carico: è pronta a divorarmi d’amore e già mi divora con gli occhi …”.
Vaso blu con scena di vendemmia I sec. d.C. Napoli, MANN

Ogni racconto è per il lettore l’occasione di scoprire o riscoprire, nel senso di vedere con una nuova consapevolezza, manufatti archeologici di indubbio fascino: dal vaso con scena di vendemmia (conservato nel Museo archeologico nazionale di Napoli) in vetro cammeo bianco e blu (il pigmento noto come blu egizio), nella storia intitolata ”La memoria perduta del profondo blu”, al Satiro di Mazara del Vallo, scelto per la copertina del volume e protagonista del racconto “Il satiro ebbro in fondo al mare”; da “Il forchettone di Melfi”, che viene descritto come “un anello circolare con dieci uncini a raggiera, inserito nella bocca di un serpente che si allunga a formare il manico”, alle Matres matutae con i loro bimbi in fasce nel racconto “Le antiche zie di Capua”; da “I giocatori d’azzardo”, dove scopriamo che anche l’imperatore Augusto era un accanito giocatore di dadi, ai partecipanti al simposio che si dilettavano nel kottabos” (un gioco di probabili origini sicule, popolarissimo fra il VI e il III secolo a.C.) nel racconto “Lanciando gocce di vino”; dai celebri Bronzi di Riace, attualmente nel Museo archeologico di Reggio Calabria, al Tuffatore di Paestum; da “Gli amorini profumieri” di Pompei al racconto “Casti baci languide carezze”, che allude al dipinto scoperto nel 1987 nella Casa dei Casti amanti a Pompei.

Occasione questa per parlarci della poesia amorosa di Catullo, dedicata a Lesbia, dell’Ars amatoria di Ovidio, della figlia emancipata di Augusto, Giulia, che, accusata di adulterio, morì in esilio a Reggio Calabria, e per finire anche del bacio di Anna e Gioacchino, presso la Porta Aurea di Gerusalemme, raffigurato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova.

Elisabeth Vigée Le Brun, Lady Hamilton come baccante, 1790-1791, Liverpool Walker Art Gallery

Tutt’altro che casta doveva essere Emma Hart, che sarebbe divenuta celebre come lady Hamilton, amante dell’ammiraglio Nelson e amica della regina Maria Carolina, e che è protagonista del racconto “Una lady danzante a Pompei”. Partendo dal dipinto di George Romney che l’ha raffigurata ventenne come Baccante (oltre che come Circe, come Medea e in altre pose), scopriamo il suo successo come modella, visto che la raffigurarono, tra gli altri, Angelika Kauffmann, Joshua Reynolds ed Élisabeth Vigée Le Brun.

I meravigliosi mosaici di Monreale rivivono nel racconto “Il sogno di Guglielmo” (Guglielmo II d’Altavilla) e il quattrocentesco Ritratto di uomo di Antonello da Messina in “Il sorriso beffardo del vescovo”.

Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, Museo della Fondazione Culturale Mandralisca, Cefalu (Palermo)

Questo piccolo dipinto su tavola avrebbe scatenato nell’Ottocento la furia della figlia zitella di un farmacista di Lipari, che lo sfregiò con 15 colpi, i cui segni sono ancora visibili, nonostante i restauri, sulle labbra e sugli occhi.

Nel racconto dedicato alla Vucciria di Renato Guttuso, scopriamo che il grande dipinto, conservato a Palermo, è stato realizzato nella casa lombarda del pittore, dove si faceva recapitare tutti i prodotti ortofrutticoli, i pesci e le carni provenienti dal mercato palermitano, oggi scomparso. Pur resa a distanza, l’atmosfera è straordinaria, evidentemente perché, come aveva constatato pure Gogol, la lontananza è importante per riuscire a esprimere certe sensazioni.

Picasso fu influenzato da un affresco di Palermo, il Trionfo della morte di un anonimo quattrocentesco, per la testa del suo cavallo in Guernica, mentre l’olandese Maurits Cornelis Escher, che amava viaggiare nel nostro Sud alla ricerca di quei borghi solitari che ha raffigurato in molte incisioni, è il protagonista del racconto “Escher, il mulo e la mantide”.

Tra i numerosi racconti, particolarmente significativo appare “La notte degli Angeli”, ispirato dalla concattedrale di Taranto, realizzata da Gio Ponti nel 1970.

Gio Ponti, Concattedrale di Taranto, 1970

La grande vela traforata che la caratterizza è stata concepita per far sì che in quei trafori gli spiriti angelici possano appollaiarsi. Nella favola-parabola raccontata dallo stesso Ponti, il Signore pronuncia questa bellissima definizione dell’Arte:

L’arte, signori angeli, è il miracolo degli uomini: è la cosa più bella, più eccelsa, è la loro cosa divina, nella quale, e solo in essa, gli uomini sono come me: sono creatori”.

Così come ci sono i creatori, ci sono anche i narratori d’arte e Lauretta Colonnelli lo fa in maniera coinvolgente, suggerendo più chiavi di lettura delle opere prese in esame e rendendoci partecipi delle sue riflessioni.

Nica FIORI  Roma 5 dicembre 2021