Le conchiglie di Paolo Antonio Barbieri. Le ritrovate “Gusse maritime” del fratello di Guercino

di Massimo PULINI

A Cristina e Gianni Fava

Fig. 1. Paolo Antonio Barbieri (qui attribuito), Gusci marini, Collezione privata (courtesy ML Fine art di Matteo Lampertico, Milano)

Quattordici conchiglie, di dodici specie diverse e molto differenti per dimensioni, appaiono disposte su un piano di legno scuro. Della tavola si scorge solo il lato che si pone parallelo e vicino al bordo inferiore della tela, che rifinisce l’immagine e restituisce l’idea di una mensola posta in una nicchia a parete. Lo scaffale affonda nel buio più cupo, ma in primo piano raccoglie una luce intensa che esalta la materia calcarea senza impedire morbidezza alla calda pittura che la descrive.

Non è dunque un banco di vendita e tantomeno un lastrico di porto sul quale sono stati scaricati molluschi al ritorno da una giornata di pesca, come d’uso in molti dipinti napoletani del XVII secolo. Nelle scene da scoglio, in quelle da pescheria o da cucina le tele dei più noti rappresentanti di quella scuola, i Recco, Paolo Porpora e Baldassarre De Caro, grondano di un’acqua e di un’umidità che va a imperlare le viscere dei pesci, le chele dei crostacei e i muscoli gonfi dei molluschi.

Qui tutto invece è asciutto e vuoto, nel silenzio di un interno restano le conchiglie pulite che prendono luce diagonale da una finestra, come fossero già parte di una collezione.

Possiamo riconoscere con precisione tutti gli animali che le abitavano e che, nei secoli successivi all’esecuzione del dipinto, hanno avuto puntuale classificazione scientifica.

Domina la composizione una grande bivalva disposta in diagonale, una Pinna nobilis, raffigurata nella sua madreperla scura e opalina, che crepita di luce sulla punta lanceolata. Sotto di essa la capasanta, una Pecten jacobaeus, mostra il suo interno a ventaglio rovesciato, mentre sul secondo piano a sinistra resta in ombra la possente Tridacna gigas, che ha l’aspetto di un’acquasantiera barocca. Fermiamo l’elenco nominale sulla bellissima conchiglia tondeggiante a chiocciola che si staglia sulla destra e che figura, come Tonna galea. Occupano infine il rimanente spazio le conchiglie più piccole che, distribuendosi in modo armonico sul piano, con le loro spirali a guglia o con le superfici tartarugate, completano l’accorta composizione.

Forse qualcuno potrebbe impegnarsi a cercare ragioni simboliche e rimandi teologici a questo raggruppamento di bellezze naturali, la conchiglia distintiva dei pellegrini devoti a San Giacomo e la Tridacna che ha la forma di una mano offerente indurrebbero a questo percorso di lettura, ma va detto che il fascino oggettivo della composizione e la qualità della pittura, incisiva e vellutata insieme, dispiegano da soli un racconto singolare e prezioso.

Il dipinto (Fig. 1) portava con sé una comprensibile attribuzione al napoletano Paolo Porpora[i], ma non è solo la già accennata divergenza compositiva e contestuale a rendere fragile quell’identificazione, è anche la stesura pittorica a parlare un altro linguaggio nel quale si fondono una vocazione al catalogo a una morbidezza di luce e di impasto materico.

Si rintracciano attitudini di questa natura più nella pittura emiliana del Seicento che in ogni altra area artistica europea, anche se parentele si possono oggettivamente instaurare con i bodegones spagnoli, che tuttavia dimostrano un più crudo chiaroscuro caravaggesco, sovente prossimo all’astrazione. Mentre il tema marino è qui trattato in veste di collezione e in tal senso i precedenti storici si trovano semmai a Firenze, presso la corte dei Medici, più che in centri di costa.

La visione ravvicinata dell’opera permette comunque di comprendere una pittura densa e vellutata molto affine a quella espressa nella bottega di Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino, nel secondo corso della sua carriera.

Proprio in quel contesto si staglia la figura di Paolo Antonio Barbieri (Cento 1603 – Bologna 1649), che era specialista nel genere della natura morta e che collaborava in modo sistematico col fratello maggiore dipingendo oggetti, fiori e animali, entro le stesse composizioni di Guercino, fossero quadri da cavalletto o dipinti d’altare.

Dopo aver intuito la mano di Paolo Antonio in questo dipinto di conchiglie, per un percorso di pura comparazione stilistica, mi è stato possibile trovare un preciso riscontro a questa convinzione, cercando nel fondamentale Libro dei conti che lo stesso giovane Barbieri iniziò a redigere nel 1629[ii], registrandovi le opere vendute dai due fratelli pittori.

Ovviamente gran parte di quelle note manoscritte riguardano la indefessa attività di Guercino, che in quel tempo era divenuto uno dei più richiesti pittori d’Europa, ma non mancano diversi dipinti di Paolo Antonio, laconicamente classificati nel soggetto e con asciutte parole di descrizione.

In una delle prime note di quel preziosissimo libro contabile, conservato oggi all’Archiginnasio di Bologna, viene fatto riferimento a una tela raffigurante Gusse maritime che il 10 dicembre 1629 viene ceduta al Sig. Gio. Batt. Panini per scudi 6. Quelle Gusse maritime, o gusci marini, con buona ragione possono identificarsi nel dipinto di conchiglie ora riemerso. È l’unica menzione di questo tipo, ma in altre nove occasioni vengono elencate tele raffiguranti pesci, che ancora mancano all’appello.

Di dodici anni più giovane del famoso fratello, Paolo Antonio era nato nel 1603 e doveva aver comunque realizzato altre opere autonome prima di iniziare, a ventisei anni, quel ragionato rendiconto di bottega, anche se si ha certezza che abbia lasciato, finite o incompiute, varie opere non registratevi[iii]. Risulta di grande importanza il ritrovamento di questo raro cimento, che va a iscriversi però in una già conosciuta vocazione compositiva che in altre opere ci restituisce oggetti e frutti disposti in forma elencata, come se anche pere, mele o castagne fossero oggetti da collezione, o quantomeno da porre in dispensa in modo ordinato.

Questa propensione a collocare le cose in forma sistematica, sopra una tavola o un semplice ripiano, è la prima caratteristica evidente quando si osserva un’opera del giovane Barbieri. Confrontando con altri specialisti a lui contemporanei è difficile imbattersi in spazi pittorici così soppesati, mentre nella generazione successiva e voluti proprio dalla corte medicea con intenti collezionistici, ritroviamo analogie nei composti repertori di frutta ideati da Bartolomeo Bimbi (Settignano, Firenze 1648-1729).

Di recente è stata acquisita dalla Pinacoteca Comunale di Cento[iv] una splendida composizione di Paolo Antonio Barbieri raffigurante dei Paramenti sacri (Fig. 2), un dipinto che dovrebbe corrispondere a quello annotato il 31 ottobre 1643, riguardante un dipinto di Argenti consegnato al “Comendatore Manzini”.

Fig. 2. Paolo Antonio Barbieri (attr.), Paramenti sacri, Cento, Pinacoteca Civica

Questi corredi liturgici trovano precisa disposizione sulla mensa d’altare, ma anche la Tavola con cesta di castagne, formaggio, funghi, mandorle e uva (Fig. 3) del The Art Institute di Chicago è pensata con un senso di semplice occupazione del piano di sostegno, non diversamente dalla Natura morta con Piatti di pere e fichi con pesche, melone, verza e zucchina (Fig. 4), della collezione Luigi Cremonini di Castelvetro, del tutto simile ai Piatti, sacco di olive, cacciagione, melagrane e mele cotogne (Fig. 5), transitato ad un’asta Sotheby’s di New York.

Fig. 3. Paolo Antonio Barbieri, Tavola con cesta di castagne, formaggio, funghi, mandorle e uva, Chicago, Art Institute
Fig. 4. Paolo Antonio Barbieri, Piatti di pere e fichi, pesche, melone, verza e zucchina, Castelvetro, coll. Cremonini
Fig. 5. Paolo Antonio Barbieri, Piatti, sacco di olive, cacciagione, melagrane e mele cotogne, già New York, Sotheby’s

Più sontuose a raggruppate risultano altre bellissime tele di Paolo Antonio conservate a Ravenna, Modena e Puerto Rico, che attestano una fase compositiva più ambiziosa (Fig. 6 e 7), dove il raggruppamento delle cose diviene più serrato e in forma di catasta, eppure resta distinguibile quel senso sottilmente ossessionato dall’ordine che caratterizza le scelte di Paolo Antonio Barbieri.

Fig. 6. Paolo Antonio Barbieri, Natura morta con bottiglia, frutta, ortaggi e tre specchi, Modena, coll. privata
Fig. 7. Paolo Antonio Barbieri, Mele, cipolle, agli, zucche e oggetti, Ravenna, Pinacoteca Comunale

Sarebbe fin troppo facile oggi associare questa propensione alla sua vocazione per la ragioneria, ampiamente dimostrata nei due decenni in cui il fratello di Guercino si trovò ad amministrare la partita doppia della bottega. Questa semplice constatazione non intende sconfinare nella psicologia, ma è innegabile che talvolta l’estetica abbia a che fare con il senso dell’ordine, del mettere le cose al loro posto proporzionale e concettuale.

Si può infine affermare che rappresenti la sintesi, tra questa vocazione e il rapporto instaurato col fratello, il dipinto finora ricordato come la Spezieria, conservato al museo di Spoleto e raffigurante in realtà una Confetteria (Fig. 8), nella quale i dolci trovano un loro preciso contenitore che li preserva e li classifica.

Fig. 8. Paolo Antonio Barbieri, Confetteria con giovane lavorante, Spoleto, Pinacoteca Comunale

Presento poi l’altra Confetteria (Fig. 9), conservata presso la Galleria del Castello di Praga (la foto in bianco e nero è presente nell’Archivio della Fondazione Zeri), una composizione che isola le splendide colonne di vetro, ripiene di caramelle e composte di frutta, collocandole dietro a un vaso di mostarda, un piatto, dei cedri e un sacchetto di semi.

Fig. 9. Paolo Antonio Barbieri, Confetteria, Praga, Museo del Castello

Pur nella oggettiva rarità delle opere conosciute questo artista dimostra un ruolo di assoluto rilievo entro la specifica storia della natura morta italiana e risulta di particolare importanza aver ritrovato anche solo un dipinto che, pur confermando lo stile, ne allarga notevolmente i confini tematici. L’opera si pone tra i risultati più elevati nella stesura e più precoci nella datazione.

Sono certo infine che la nuova scoperta possa risultare di grande aiuto nella ricerca di quella decina di tele raffiguranti pesci, che sappiamo dipinte da Paolo Antonio Barbieri, ma che ancora risultano disperse.

La sobria bellezza delle Gusse maritime, toccate dall’impasto caldo e vellutato, direttamente ispirato al fare di Guercino, non sembra celare un enigma, ma più semplicemente pare raccontarci, con serena oggettività, un miracolo della natura, parlandoci semmai di quelle corazze perlacee come fossero immaginate da una mente superiore.

Massimo PULINI   Montiano  16 Gennaio 2022

NOTE

[i] L’opera, un olio su tela di cm. 55,8 x 65,8, transitava sul mercato antiquario milanese con una attribuzione al napoletano Paolo Porpora (Napoli, 1617 – Roma, 1673).
[ii] Il cosiddetto “Libro dei conti di Guercino” era in realtà un registro delle vendite della bottega dei fratelli Barbieri. Paolo Antonio lo redasse dal 1629 fino alla propria morte avvenuta nel 1649. Da quel momento e fino al 1666 continuò a compilarlo direttamente lo stesso Guercino. L’originale è conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e Barbara Ghelfi ne ha curato una pubblicazione uscita per le edizioni Nuova Alfa nel 1997.
[iii] Quel libro contabile conteneva solo le opere vendute di Paolo Antonio fino alla morte del 1649, ma va certamente immaginata la realizzazione anche di altri dipinti restati in bottega.
[iv] L’opera è stata recentemente donata al Comune di Cento grazie agli Amici della Pinacoteca Civica di Cento e l’associazione Imprenditori centesi per la cultura, attraverso l’impegno di Cristina e Gianni Fava. Nella presentazione pubblica, avvenuta l’11 dicembre 2021, Daniele Benati pur confermando l’attribuzione a Paolo Antonio Barbieri ha posto qualche dubbio sulla possibilità di identificare l’opera con quella consegnata dall’artista nel 1643 al “Comendatore Manzini”, come risulterebbe dal Libro dei conti e ha riferito di una citazione dell’opera nell’inventario del 1719 relativo ai beni del Casino di Belpoggio, appartenente a Benedetto Gennari, nipote di Guercino e di Paolo Antonio. Non è questo il tavolo di lavoro adatto per affrontare l’argomento di una riconsiderazione attributiva di quei Paramenti sacri, ma sin dalla prima volta in cui ho visto l’opera dal vero (alla Biennale antiquaria di Firenze del 2019, presso la Galleria di Alessandra Di Castro), ho pensato alla mano dello stesso Benedetto Gennari. Il puntiglio descrittivo e la luminosità scintillante di quegli argenti si addice infatti più al giovane Benedetto, alla sua aristocratica eleganza, che non alla mano calda e ‘di contado’ di Paolo Antonio Barbieri.