La scoperta di un Sud trascurato nelle cronache dei viaggiatori del Grand Tour. Appunti dalla Calabria tra il Sette e l’Ottocento

di Mario URSINO

Viaggiatori in Calabria tra Sette e Ottocento, o altri “Grand Tour

Quando si dice Grand Tour, generalmente ci si riferisce alla moda del Viaggio in Italia, inteso come conoscenza e formazione culturale per i giovani aristocratici e borghesi inglesi, tedeschi e francesi, che trova il suo culmine nella seconda metà del Settecento, dalla fine della Guerra dei Sette Anni (1763) alla campagna napoleonica il Italia (1796); un trentennio felice e fecondo nel quale il nostro Paese, sollecitato appunto da artisti, letterati e poeti provenienti dal Nord dell’Europa, trova nuovi impulsi alla conoscenza della propria storia, con particolare riguardo alle antichità classiche riscoperte a seguito di importanti attività di scavo che, nella prima metà del secolo XVIII hanno messo in luce Ercolano (1719) e Pompei (1748).

fig 1 Johann Heinrich WilhelmTtischbein, Goethe nella Campagna romana

E il testo più noto di questa impresa rigenerante, un percorso dello spirito alle radici dell’antico, è il Viaggio in Italia di Goethe, che il sommo poeta tedesco [fig. 1] compie fra il 1786 e il 1788, ma vagheggiato prima ancora della partenza. Egli infatti scriverà nel suo diario nel 1786: “Ed ora io vedo vivente tutti i miei sogni di gioventù (mio padre aveva molte vedute di Roma in una sala della nostra casa) […] sta ora nell’insieme davanti a me …”. Goethe, dunque, dopo aver attraversato il Brennero nel settembre del 1786, visita Verona, Venezia, Roma, Napoli e la Sicilia fra marzo e maggio del 1787. Itinerario quindi fra il più classico del Grand Tour. E la Calabria? Goethe non c’è mai stato. Difatti, da Napoli si imbarca su una corvetta insieme all’amico pittore Kniep, alla volta della Sicilia, in direzione di Palermo. Questo è il Viaggio in Italia di Goethe: ha ignorato del tutto un terzo del nostro Paese. C’è da chiedersi perché. Stando alle dichiarazioni, invero assai perentorie, di un viaggiatore francese, molto meno noto dello scrittore tedesco, Creuze de Lesser, che ha scritto nel suo Voyage en Italie et en Sicilie, Parigi, 1806: “L’Europe finit à Naples, et mȇme elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicilie, tout le rest est de l’ Afrique”. Della stessa idea è Joseph-Antoine de Courbillon, nel suo Voyage critique à l’Etna en 1819, Parigi, 1820. E invece  l’ufficiale frencese Duret de Tavel, che in Calabria c’era stato per combattere contro gli insorti (perciò non un viaggio di piacere o cultura), nel suo Séjour d’un officier François en Calabre (1810), pur consigliando ai viaggiatori di fermarsi “dans la deliciouse capitale” (Napoli), nei tre anni trascorsi, tra il 1807 e il 1810, è forse il primo a rendersi conto o a scoprire come erano le condizioni del nostro Mezzogiorno e ad evidenziare il grande contrasto tra la Capitale e le sue province. Tuttavia non manca di annotare l’esistenza di autentiche bellezze, sconosciute agli aristocratici in visita il Italia nel Settecento; cosicché Duret de Travel ha scritto tra l’altro: “Palmi è una delle cittadine più graziose che si possono visitare in ogni paese […]. Nel centro della città vi è una grande e bella piazza quadrata – in mezzo alla quale si innalza una superba fontana  [fig. 2] – nella quale sboccano otto strade larghe e dritte. La campagna circostante è deliziosa;l’aspetto degli abitanti denota, oltre che buona salute, anche una loro agiatezza, una condizione che si coglie raramente in Calabria”. Perciò si tratta di un’eccezione, ma questa attenzione, anche di carattere antropologico e naturalistico, costituisce la premessa (a mio avviso) per i futuri viaggiatori in Calabria nell’Ottocento.

fig 2

In questo senso è particolarmente significativa la maniera di osservare del grande scrittore francese Stendhal, nel suo Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, sono soste brevi: arriva a Crotone il 20 maggio del 1817 e si meraviglia di incontrare “qui in capo al mondo, il bravo capitano Joseph Revanans che ho visto dragone nel 1800”, il quale gli racconta il suo incontro con i briganti; poi passa da Catanzaro laddove, osservando la fisionomia dei calabresi, scrive: “Via via che si procede in Calabria, le teste si avvicinano alla forma greca; numerosi uomini sui quarant’anni hanno esattamente i lineamenti di Giove Mansueto”, e qualche lettore potrebbe pensare che lo scrittore alluda a una nota scultura classica raffigurante il re degli dei. Ma non è così. Stendhal sta pensando a Petrarca, ovvero ad alcuni versi del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta): “Que’ ch’ infinita providentia et arte / mostrò nel suo mirabil magistero / che crȉò questo et quell’altro hemispero, /
et mansüeto piú Giove che Marte
” (1336-1374).

fig 3

Stendhal poi, il 25 maggio si trova a Brancaleone: “Ci siamo fatti accompagnare da tre contadini armati, durante la nostra visita a Locri. Mai briganti ebbero facce più spaventose; in quelle teste non c’è nulla che mi fa orrore […]. Niente è più pittoresco di un calabrese in cui ci si imbatta nella curva di una strada, nelle radure di un bosco. Il lungo stupore di quegli uomini armati fino ai denti, nel vedere noi in parecchi e bene armati, era da morir dal ridere. Poi lo scrittore, per rompere il ghiaccio, compra qualcosa da loro, “per aver l’occasione di fare un po’ di conversazione”. Il 28 e 29 maggio visita Melito e Reggio Calabria e narra episodi curiosi visti o narrati da incontri occasionali. Questo per dire che nell’Ottocento, dunque, la curiosità dei viaggiatori in Calabria associa letteratura, storia e antropologia, analisi del costume. È in questo senso che codesti viaggiatori compiono, a mio avviso, l’altro Grand Tour, tra cui i più noti sono George Gissing, Edward Lear e Norman Douglas, quest’ultimo ai primo del Novecento con il suo famoso Old Calabria. Eppure il territorio calabro suddiviso in Calabria Citeriore (o Calabro latina) o Calabria Ulteriore (o Calabro greca), come erano suddivise nel secolo XVI in Calabria Citra Flumen Nhetum e Calabria Ultra Flumen Nhetum, province amministrate da un Giustierato, e già in tale epoca, quindi prima del Grand Tour, furono attraversate da viaggiatori stranieri e italiani, come ha narrato lo studioso Rocco Liberti nel suo interessante volume Viaggiatori italiani e stranieri e la Calabria (1525-1827), 2016 [fig. 3]; così scrive l’erudito Rocco Liberti: “…quando il viaggiatore si avviava nelle terre del Sud per brama di conoscenza dei resti della classicità o dei costumi delle popolazioni o anche per semplice diporto metteva regolarmente su carta quanto riusciva ad osservare […]. Il tour, cui ognuno si votava per i motivi più vari risultava sempre e comunque un’impresa azzardosa…”. Costoro, ci informa la studioso, si servivano di “itinerari o guide messi sul mercato da autori e tipografie. In essi, invero, oltre a elencare i percorsi veri e propri, si consigliava di tutto, dal rimedio spirituale prima della partenza [ovvero raccomandarsi l’anima a Dio, n.d.A.] alla ricerca di lettere raccomandatizie”, necessarie per ottenere un’ospitalità garantita.

fig 4

L’espressione “Grand Tour”, come si diceva in principio, è riferita al settecentesco viaggio; e il Liberti ci informa che esso è stato coniato dall’inglese Lord Granborne nel 1636, e ripreso dall’ecclesiastico Richard Lassels (1603-1668), autore anch’egli di un Voyage of Italy, Parigi 1760 [fig. 4]

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Il volume del Liberti è davvero interessante, poiché l’autore passa in rassegna, secolo per secolo, il Cinquecento, il Seicento, il Settecento e l’Ottocento, elencando i protagonisti del Tour, che riportavano nei loro scritti e memorie, non solo la descrizione accurata naturalistica e di costume, ma pure singolari e pressoché ignote notizie sulle ragioni che li spingevano nelle nostre terre del Sud. Tra le tante mi è sembrata degna di rilievo quella del medico bolognese Leonardo Fioravanti

fig 5

(1517-1588) che si era portato a Tropea [fig. 5], motivato dalla conoscenza di come in quella città si praticava la rinoplastica da due fratelli chirurghi Pietro e Paolo Vianeo, che “facevano il naso a coloro che per qualche accidente l’havevano perduto”, scrive il Fioravanti in pieno Cinquecento. Una notizia davvero sbalorditiva per quel tempo. La stessa curiosità suscitò l’interesse del mercante prussiano Samuele Kiechel (1563-1619), che, fermatosi a Tropea diversi giorni, incontrò anch’egli i fratelli Vianeo, e naturalmente annota nel suo diario con dovizia di particolari la singolare operazione chirurgica: “In una piccola città (Tropea) vive un fabbricatore di nasi…”.

Oltre ai citati Fioravanti e Kiechel, nel secolo XVI la Calabria fu attraversata da altri viaggiatori e testimoni oculari di questa terra sconosciuta ai più; essi erano Leonardo Alberti, altro bolognese, umanista e frate domenicano che si è recato in Calabria nel 1525; l’inglese Sir Thomas Hobby, letterato e diplomatico (1530-1566), noto anche per aver tradotto Il Cortegiano di Baldassar Castiglione; Gabriele Barrio (1506c.-1577), un monaco oriundo francese; Louis Balourdet, un curato proveniente dalla regione della Champagne, che transitò in Calabria diretto in Terra Santa; Girolamo Marafioti, ancora un monaco nel 1595, autore di Croniche et antichità di

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Calabria, Padova, 1601 [fig. 6]. Certo i religiosi avevano il vantaggio di soggiornare di convento in convento, e in questo peregrinare ci restituiscono una descrizione impensabile di una Calabria cinquecentesca, ricca di testimonianze storiche e di costume, lodandone la bellezza e ricchezza della flora e della fauna, delle messi abbondanti e del rigoglio dei frutti, segnatamente agli agrumeti, nonché l’abbondanza ittica nelle marine visitate, la fiorente coltivazione del gelso per la manifattura della seta.

Nel secolo successivo in Calabria, nonostante le difficili condizioni ambientali, come il terremoto del 1638, le epidemie e “le bande di malviventi imperversanti ovunque”, scrive il Liberti, “non sono mancati un buon numero di viaggiatori o studiosi che hanno percorso il territorio calabrese e lasciato chiare orme del loro passaggio”. E l’elenco di questi notabili che si spingevano dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Inghilterra, nutriti dalla letteratura dei classici, passavano e sostavano in alcune città della Calabria per proseguire verso la Sicilia, Malta, la Terra Santa, e attraverso lettere, diari, taccuini di viaggio, disegni dei luoghi visitati, ci hanno lasciato testimonianze, da quelle più ovvie, come la descrizione di Scilla e Cariddi e il riferimento al terrore dei naviganti dell’antichità, a più singolari notizie o episodi loro occorsi durante le soste nel territorio delle cittadine calabre. Così apprendiamo per esempio curiosità poco note, quali quelle riportate dall’inglese George Sandays (1578-1644), in viaggio al Sud nel 1610, che nella sua Relation of a jorney…., fermandosi nella baia di Pacì ci informa che in quella parte della Calabria vi era una grande quantità di Tarantula, ovvero un grosso ragno, il cui morso velenoso provoca movimenti e convulsioni da cui ha origine la danza della Taranta, danza che avrebbe anche un effetto terapeutico liberando, attraverso i movimenti frenetici e la sudorazione, del veleno del ragno (cfr. Liberti, op. cit., pp. 35-36).

fig 7

I viaggiatori seicenteschi raramente viaggiavano da soli, potevano unirsi facilmente ad altri sullo stesso itinerario; gli aristocratici si spostavano con un gran seguito di persone, tra accompagnatori e servitù, ma si trovavano spesso ad adattarsi a dormire su della paglia, anche per evitare letti poco igienici ed infestati da insetti; lo stesso dicasi per l’alimentazione: dovevano accettare cibi e bevande ai quali non erano abituati. L’elenco dei personaggi riportati nell’antologia del Liberti è numeroso, ed alcuni visitano anche il litorale jonico, avendo sempre in mente i riferimenti classici: di Locri, oltre agli scavi, si ricorda anche il severo legislatore Zaleuco, poi Castelvetere, oggi Caulonia, Capo Stilo, Catanzaro e Crotone; e oltre ai miti evocati in queste località, venivano osservate anche le manifatture, come le canneulazze della canna da zucchero, in particolare nella zona di Sant’Eufemia. Né può mancare Bagnara per la pesca del pesce spada e del tonno. Ma a parte le laudative osservazioni comuni a codesti viaggiatori, mossi da interessi prevalentemente scientifici, va ricordata la drammatica esperienza di un grande studioso e scienziato, Atanasio Kircher, nato a Turingia nel 1602 e morto a Roma nel 1680, città nella quale nel 1651 fonda, presso il Collegio Romano, il Museo Kircheriano [fig. 7], raccolta pubblica di antichità e curiosità. Il gesuita, mentre si trova in Calabria nel 1638, assiste impaurito agli effetti del sisma e delle eruzioni vulcaniche: “Quando siamo giunti tra Lipari e Capo Vaticano, ho osservato con molta attenzione l’aspetto dell’Etna e dello Stromboli…”. Poi si avvicinano a Tropea per alloggiare presso il collegio del loro ordine, ma ne dovettero subito fuggire per le violente scosse e ritornare sul battello per portarsi al largo e sfuggire al pericolo tellurico. Andarono verso Pizzo, e si vedevano solo città e villaggi rasi al suolo, stessa situazione a Sant’Eufemia, e non potendo fare altro, il Kircher egli altri compagni di viaggio proseguirono direttamente per Napoli (cfr. Liberti, op. cit,, pp. 58-61).

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Per tutto il Settecento, come si è detto, il Grand Tour è all’apogeo. Il viaggio istruttivo per i giovanissimi viaggiatori è sempre accompagnato da un precettore; i letterati spesso si accompagnano con artisti e disegnatori, con acquirenti di opere d’arte, ove fosse possibile acquistare reperti dell’antichità, di cui gli inglesi erano particolarmente appassionati: il tutto era ispirato dal concetto che l’origine della civiltà occidentale è avvenuta nella Magna Grecia e pertanto andava visitata. E come nel secolo precedente il viaggio in Italia era sempre riservato ad una élite e solo nell’Ottocento si estende anche a studiosi e viaggiatori borghesi.

fig 8

Ma c’è un’importante differenza, ben evidenziata nel volume del Liberti, che opportunamente distingue le categorie dei viaggiatori settecenteschi, tra quelli che hanno visitato il Sud prima del violentissimo sisma del 1783  che colpì la Calabria e la Sicilia, e con particolare veemenza, Messina e Reggio Calabria. Lo studioso distingue quindi i viaggiatori settecenteschi “prima del grande flagello” e quelli che invece si recano al Sud per verificare e studiare gli effetti del “grande flagello”; i primi, più numerosi, hanno descritto e illustrato nelle loro testimonianze le condizioni dei luoghi visitati, come l’Abate di Saint-Non (1727-1791), accompagnato dal famoso pittore francese Jean Honoré Fragonard (1732-1806), nel suo Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile (1781-1786) [fig. 8], in cui elogia tra l’altro “l’ospitalità con la più larga franchezza e cordialità. Si può dire, e senza esagerazione, di questi felici e tranquilli abitanti, che, da quando si entra nelle loro case, esse divengono vostre…”. Tra i viaggiatori post-flagello, uno dei personaggi di maggior rilievo a recarsi ufficialmente in Calabria, per studiare gli effetti del disastroso sisma, fu il generale Francesco Pignatelli (1734-1812), nominato vicario delle Calabrie, che portò conforto alle popolazioni colpite per curare i feriti, bruciare i cadaveri, riaprire le strade occluse, ma anche ordinare ai proprietari dei fondi a sistemare le loro case crollate. Il generale eseguì diligentemente il suo compito in poco più di tre anni, tra il 1783 e il 1787, per tutta la Calabria Ultra, da Terranova a Oppido, da Rosarno a Seminara (cfr. Liberti, op. cit,, pp. 170-171).

fig 9

Un altro viaggiatore degno di nota è stato Michele Sarconi (1731-1797), segretario della Commissione dell’Accademia Reale delle Scienze e Belle Arti, che redasse una circostanziata relazione nella sua Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie nell’anno 1783 [fig. 9], nel resoconto si leggono anche parole assai tristi, quando giunge ad Oppido: “Eccoci in una città che fu lungamente oggetto di piacere, e di invidia, e ora miserabile oggetto di orrore”.

Dunque i tour in Calabria hanno avuto molteplici occasioni per visitarla e riprenderanno per interessi naturalistici nell’ultimo scorcio del secolo XVIII, quando le rovine erano ancora vistosamente visibili; si riprendono solo le colture e la pesca del pesce spada e del tonno a Bagnara [fig. 10] e le manifatture delle coperte fatte a Tropea e nei dintorni. Il terremoto suscita anche l’interesse di scienziati e studiosi di chimica e mineralogia, come il napoletano Andrea Savarese (1762-1810), inviato nelle Calabrie per studiare le ferriere e localizzarne delle nuove.

fig 10 J. Houel La pesca del tonno

L’altro Grand Tour o semplicemente il Tour

Viaggiare verso le Calabrie, così come per andare in Sicilia, da Napoli si partiva via mare e lungo la costa con le “feluche”, imbarcazioni agili con le quali si raggiungeva Paola, Tropea, Palmi. Sarà il maggiore Rilliet, verso la metà dell’Ottocento, a rendersi conto delle difficoltà per raggiungere l’interno del territorio calabro. L’unica grande arteria era quella che da Napoli arrivava a Reggio di 280 miglia lungo la costa. Per addentrarsi nell’interno della regione ci voleva coraggio, senso dell’avventura e senza itinerari prestabiliti. “Sono soprattutto i pedestrian tours, viaggiatori a piedi, come Edward Lear e Arthur John Strutt a darci la misura di questo turismo che è la negazione più radicale del Tour Settecentesco” ha scritto nel denso saggio Viaggiatori stranieri nel Sud, Milano, 1964, lo studioso Atanasio Mozzillo. E anche quando nascono le prime linee ferroviarie nel 1866 non migliora significativamente il viaggio in Calabria; la Taranto-Reggio viene completata solo nel 1885 (ancora oggi quella tratta lungo lo Jonio non brilla per sua efficienza e la scarsità del transito). Gissing e Douglas, per esempio, quando decidono di servirsene incontrano difficoltà perché i treni non osservano orari precisi: anticipano la partenza o la posticipano a piacimento del macchinista.

fig 11

Nel primo decennio dell’Ottocento, durante l’occupazione francese, i viaggiatori che attraversano la Calabria sono quasi tutti ufficiali dell’armata napoleonica che, oltre a combattere contro gli insorti, i briganti e gli inglesi, trovano anche il tempo di fornire testimonianze scritte sulle condizioni degli abitanti del territorio, come nel citato Duret de Tavel nel suo Séjour d’un officier français en Calabre (1810) e Auguste de Rivarol (1784-1825), militare e letterato francese con il suo Notice historique de la Calabre (1817). Dopo la Restaurazione riprendono i viaggi di letterati e studiosi, come il già sopra citato Stendhal; alla metà del secolo, nel 1852, è ricco di interesse il diario dello svizzero Horace Rilliet (1824-1854), medico chirurgo che visita la Calabria al seguito del viaggio di Ferdinando II nelle provincie del Regno; egli dà alle stampe il suo Colonna mobile in Calabria, Rubettino, 2008 (non incluso nell’antologia del Liberti, che si conclude nel 1827), ricchissimo di notizie, narrate spesso con vivace umorismo, e illustrato da lui con innumerevoli disegni [figg. 11-12] dei luoghi attraversati, che, seppure di non grande valore artistico, si possono definire delle accurate vignette, talvolta anche comiche per le situazioni di volta in volta descritte.

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Ricordo infine le maggiori e più note documentazioni letterarie sulla Calabria jonica dei noti Lear, Gissing e Douglas, ai quali aggiungo Calabria 1903 dello scrittore e giornalista svizzero Joseph Viktor Widmann (1842-1911) che, risalendo la costa jonica in treno, passando da Roccella Jonica scrive: “… poi la pittoresca Roccella aggrappata a una roccia su un promontorio che si protende scosceso sul mare, ai cui piedi si trovano diverse ville con giardini meravigliosi sovrastati dalle cime delle palme, una località che ti conquista subito per la sua bellezza tanto che dici: «Ecco, è qui che vorrei vivere fino alla fine dei miei giorni»”.

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Edward Lear, passo passo per la Calabria Ulteriore 

Celebre artista e scrittore inglese dell’età vittoriana, Edward Lear è nato a Londra nel 1812 ed è

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scomparso a San Remo nel 1888; come scrittore è stato autore di numerosi libri di nonsense, i famosi Limericks ed è stato il maggiore dei pedestrian tour, poiché ha attraversato buona parte della Calabria Ultra sempre a piedi, e soprattutto il più preciso descrittore della territorio orientale jonico, dal 25 luglio al 5 settembre 1847, tra la costa e le sconosciute località dell’Aspromonte. Il suo Diario fu stampato per la prima volta a Londra nel 1852, Journal of a landscape painter in Southern Calabria, e tradotto in italiano, Diario di un viaggio a piedi, nel 1973 da Ernesta De Lieto Vollaro [fig. 13]. Il suo diario si fermò quindi al 5 settembre del 1847, a causa dei moti rivoluzionari scoppiati nel Regno di Napoli, di cui egli rimase inconsapevole fino a quando, ridiscendendo la costa orientale fino a Reggio Calabria, si rese conto dell’impossibilità di risalire per la provincia occidentale per raggiungere anche la Calabria Citeriore, e perciò fu costretto a far ritorno a Napoli insieme all’amico John Proby su un battello maltese di passaggio da Messina.

Lo scopo principale dell’artista-viaggiatore Lear era quello di disegnare paesaggi fino ad allora mai illustrati, come possiamo vedere nella bellissima serie di incisioni che corredano il suo testo. Nella “Prefazione” egli tiene a precisare: “Il modo di viaggiare scelto da me e dal mio compagno di cammino […] è stato tra i più semplici e anche tra i più economici; abbiamo percorso l’intero itinerario a piedi, un cavallo trasportava il nostro esiguo bagaglio, e una guida…” (La guida era un tale Ciccio, personaggio simpaticissimo e paziente che acconsentiva sempre al desiderio di sosta dei due viaggiatori, senza mai protestare, e dando loro i migliori consigli per attraversare un territorio spesso impervio tra la costa e le montagne dell’Aspromonte, n.d.A.).

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Sinteticamente il viaggio si svolse in questo modo (narrato in maniera impareggiabile, semplice e godibile, privo dell’erudizione di un Gissing, o ancor più di Norman Douglas nel suo famoso Old Calabria, narrando preferibilmente del rapporto simpatetico con i vari ospiti presso i quali di volta in volta doveva sostare, per mangiare e passare la notte, non essendovi locande nel territorio jonico dove potersi riparare.

Dunque Lear e il suo compagno John Proby, giovane artista e disegnatore che lo seguì per approfondire i suoi studi di pittura e si mossero da Reggio “ben forniti di lettere di presentazione alle persone delle città più importanti che  a loro volta ci avrebbero introdotti….”, per trovare ospitalità. A Reggio colgono l’occasione per delineare la bellissima posizione della città tratta “dalla loggia di una casa di un povero uomo, che molto gentilmente mi ha permesso di sedermi sulla soglia…” [fig. 14]; successivamente la prima sosta avviene a Bova, dove i due viaggiatori vengono ospitati da Don Antonio Marzano, il maggiore possidente della cittadina, e qui disegnano la Rocca, vista dalle rupi sottostanti [fig. 15];

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poi è la volta di Palizzi: “Nessun posto più selvaggio né più straordinario di Palizzi può attirare l’occhio dell’artista“ [fig. 16]. Molto sospettosi gli abitanti del posto: “Di dove siete? Che fai? Chi sei?”. Altro luogo pittoresco tra le impervie montagne è Pietrapennata [fig. 17], ripresa per le sue spaccature isolate tra lecci e querce. Il villaggio di Pietrapennata è famoso per il “Palazzo del baco da seta”; altra spettacolare località è il noto Santuario di Santa Maria di Polsi, che si trova “al termine di una delle cime settentrionali  che formano la valle del gran torrente, conosciuto come fiume Buonamico”.

fig 17
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Al convento trovano una frugalissima ospitalità e con molta diffidenza da parte dei religiosi: “Perché siete venuti in questo posto solitario?”; Lear annota nel suo diario: “Santa Maria di Polsi è una delle più notevoli visioni che io abbia mai visto […] il carattere perpendicolare dello scenario è sorprendente, le rupi boscose da sinistra a destra lo chiudono come le quinte di un teatro” [fig. 18]. (La leggenda narra che un re normanno seguì un bove e là dove lo raggiunse emerse dal terreno la sacra icona e lì egli decise di edificare un monastero, n.d.a.). Da Polsi il viaggio prosegue, prima di raggiungere Gerace, verso il mare, a Bovalino, e qui con lettera di presentazione si recano presso il Conte Garrolo che li riceve con grande ospitalità e che, con eloquio dotto e inarrestabile, profuse tutta la sua erudizione agli stanchi viaggiatori; a Gerace, città vescovile “posta su uno stretto margine di roccia” saranno accolti premurosamente da Don Pasquale Scaglionecompita persona e da tutta la sua famiglia […] questa è una famiglia distinta e piacevole in tutti i sensi […]. Il tocco bello di Gerace è il suo ammirevole colore; il bianco o il delicato bigio delle rocce scoscese, il colore grigio degli edifici che contrasta magnificamente con il porpora delle montagne…”  [fig. 19].

fig 19

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I due viaggiatori, salutata l’amabile famiglia Scaglione iniziano il loro cammino per Roccella. Risalgono verso la collina di Siderno, apprezzano la distinzione e i costumi dei contadini, in particolare delle donne che “portano vestiti blu scuri, con un bordo largo dieci centimetri, arancione o rosa, e le loro teste sono coperte con panni neri o bianchi […]”. Scendono verso la marina e proseguono sulla spiaggia; scorgono poi “Roccella, col suo capo roccioso, ammirabile anche da Gerace, diventa sempre più bella mano a mano che ci avviciniamo […] sono riuscito ad arrivare in un posto, fra aloe e ulivi, abbastanza in tempo per disegnare i fini contorni di fronte a me” [fig. 20].

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Dopo aver salutato il barone Nanni che li aveva ospitati a Roccella, Lear e Proby hanno premura di arrivare a Stilo: “Alle due e mezza abbiamo lasciato Roccella, certamente una delle più belle scene nella costa della Calabria”. Attraversarono il fiume Allaro e risalgono verso Stignano, ospiti nella casa di Don Cirillo Caristò. La famiglia fu molto premurosa, con un nonno molto inquisitore sul loro passaggio. A tavola molta confusione, col bimbo che cade sedendosi sul piatto di maccheroni di servizio: “Proby ed io fummo contenti di esserci già serviti”. A Stilo saranno ospiti nella casa di Don Ettore Marzano, dove “tutto era gradevole e in

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perfetto ordine”. A Stilo disegnano molto e traggono la bellissima veduta [fig. 21], maestosa con le alte montagne: “Una folla era attratta dalla nostra occupazione mentre eravamo intenti a fare degli schizzi vicino alla città”. Il 18 agosto salutano “Don Ettore Marzano, il più piacevole dei giovani calabresi di ceto nobile che abbiamo incontrato”. Il viaggio procede a ritroso, attraverso Motta Placanica, Castelvetere, per puntare di nuovo verso Gioiosa, rivedendo al crepuscolo “Roccella nella sua doppia roccia”. A Gioiosa saranno ospitati dal Barone Rivettini, il quale era intento a giocare a carte, apparentemente incurante dei nuovi arrivati, quasi respinti dalla servitù che nulla sapeva della lettera di presentazione. Lear insistette parecchio per presentarsi al barone e questi dette ordine di accogliere gli ospiti. Il Rivettini si prese cura lui stesso di essere premuroso verso i due viaggiatori con il singolare e insistente intercalare ad ogni loro risposta o richiesta: “Perché?”, come un perpetuo ritornello sino a quando essi andarono via: “Perché andate via? Rimanete a pranzo. Perché no?”, cosicché Lear e Proby lo ricorderanno sempre come “il barone Perchè”. Riuscirono comunque a disegnare “fra le ripide scogliere sulle quali pende il fogliame delle querce, dove c’era una magnifica vista di Gioiosa sulla rupe” [fig. 22].

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Poi  proseguono per Canolo, a loro descritta dagli amici di Gerace come “luogo orrido, e a suo modo pittoresco”,  così come la vediamo nel grandioso, romantico scenario da essi ritratto [fig. 23]. Ritornano a Gerace, si rivedono con l’affabile famiglia Scaglione, alla quale portarono i famosi confetti comprati a Gioiosa. Da Gerace risalgono l’Aspromonte per andare verso la costa occidentale, dopo aver attraversato San Giorgio, altra magnifica veduta [fig. 24]. A Polistena si fermano presso la famiglia Morano, discendenti del famoso pittore napoletano Vincenzo Morano [o Morani] (1809-1870), nativo del posto che Lear aveva conosciuto a Roma.

Il 25 agosto si rimettono in marcia, passando per Oppido, per raggiungere la costa occidentale verso Palmi: “Così da Oppido ci siamo incamminati sempre scendendo verso il mare. Raggiunta la costa, una significativa riflessione dei due viaggiatori: “Com’è indiscutibile la semplicità di quelli che pensano di aver visitato la Calabria viaggiando in carrozza dsa Napoli a Reggio! […].  Abbiamo deciso che tutte le strade carrozzabili sono sconvenienti e volgari”. A Palmi  elogiano la città “graziosa, pulita e movimentata”, eseguono diversi disegni, in particolare “una piatta passeggiata o piattaforma, semicircondata da sedili e da una balaustra, il ritrovo serale dove si ozia a Palmi, finisce da una parte con un gruppo di chiese e altre costruzioni della città, e dall’altra parte cala a picco sul mare blu, un perpendicolare precipizio coperto di cactus” [fig. 25].

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Da Palmi, poi, si imbarcano per Bagnara: “Bagnara sorge dalle rive del mare in un anfiteatro di case, coronata da un’alta roccia  […]  ed è senza dubbio una delle città di aspetto più importante e maestoso che noi abbiamo visto finora […]  e poche vedute costiere della Calabria occidentale possono eguagliarla” [fig. 26].

fig 26

Dopo Bagnara raggiungono Scilla e ne traggono una veduta altrettanto maestosa [fig. 27]. A Villa San Giovanni ritrovano il consigliere De Nava per ringraziarlo per le lettere da lui fornite per ottenere l’accoglienza sul litorale jonico, senza le quali, Lear scrive: “Se non fossimo stati accompagnati da queste presentazioni, molto dell’interesse, e quasi tutto il conforto del nostro giro ci sarebbe stato negato, e le rimembranze della Calabria sarebbero state diverse da quelle che abbiamo goduto”.

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fig 28

I due, successivamente, attraversano lo stretto di Messina; Proby si ferma lì per tre giorni e Lear torna indietro in Calabria per visitare Pentadattilo e ne trae forse la più romantica delle sue vedute [fig. 28]. Giunto a Melito finalmente si rende conto del disagio della popolazione quando il suo ospite, Don Pietro Tropea, gli chiede se avesse sentito nulla a proposito di moti rivoluzionari, di cui però Lear non sapeva nulla; Don Pietro gli dice: “È già principiata la rivoluzione!”. Lear si rende conto di trovarsi tutto solo, per cui raggiunge Reggio, dove l’agitazione popolare è più che evidente; il suo pensiero è di recarsi a Messina per ritrovare l’amico Proby. Rivede ancora il consigliere De Nava, persuade dei “riluttanti barcaioli” di portarlo a Messina, e qui ritrova il suo compagno di viaggio. Si annuncia l’arrivo di un vapore da Malta per Napoli, e così il loro pedestrian tour viene interrotto poiché non poterono risalire la costa occidentale della Calabria.

 

Il 5 settembre il vapore maltese salpa da Messina e Lear, ammirando ancora una volta le scintillanti linee di Reggio, il faro di Messina, la rupe di Scilla, il promontorio di Nicotera e la lunga punta di Palmi che svaniscono in lontananza, chiude il suo Journal con queste toccanti parole: “Lascio le sponde della Calabria con un sentimento di grande tristezza che non posso descrivere. Non è piacevole pensare l’incerto destino di tante gentili e gradevoli famiglie: De Nava, Scaglione, Marzano, eccetera. Profonda malinconia ombreggia la memoria di un viaggio incominciato così piacevolmente…”. Adorabile Lear.

Mario URSINO   settembre 2018