La ripresa di Raffaello. Non fu un ‘titano’ nè un ‘maledetto’, ma “il più grande pittore di sempre!”

di Stefania PASTI

La mostra alla Accademia Carrara (Raffaello e l’eco del Mito e l’esposzione a Palazzo Barberini della Madonna Estherazy hanno acceso di nuovo i riflettori su Raffaello Sanzio un vero genio della pittura, forse meno popolare di altri grandi che vanno per la maggiore; una studiosa come Stefania Pasti, grande esperta dell’arte del pittore di Urbino, ne sottolinea la grande personalità in questo saggio; Stefania Pasti ha frequentato la Scuola di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna presso “la Sapienza” Università di Roma; ha collaborato a lungo con la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico e per il Polo Museale di Roma durante la direzione di Caludio Strinati partecipando attivamente a mostre convegni e pubblicazioni scientifiche. Ha pubblicato numerosi lavori che abbracciano il periodo che va dal Medioevo romano fino al Cinquecento; è tra gli storici dell’arte più attivi nello studio delle vicende relative alla vita e all’opera di Giulio Romano e di Raffaello del quale ha analizzato le complesse implicazioni teologiche e figurative della famosa Trasfigurazione, l’ultimo capolavoro, lasciato non finito, del grande Maestro. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.

 

Raffaello genio assoluto dalla pittura più grande a quella più piccola

Raffaello è un artista che forse in questo momento non va molto di moda. Caravaggio infatti sembra monopolizzare la scena, sia per il grande pubblico, attratto dalla fama della sua vita ‘maledetta’ e dall’intensa emotività dei suoi violenti effetti luministici, sia per gli studiosi, oggi presi dal dibattito sulla reale portata delle indagini diagnostiche, da alcuni ritenute non dirimenti ma utili strumenti di studio, e da altri invece considerate come risolutive in casi di incertezze attributive (vedi a questo riguardo l’inchiesta in corso su About Art).

L’anno prossimo sarà poi quello della celebrazione del cinquecentenario della morte di Leonardo, e allora non c’è dubbio che accanto a studi seri e approfonditi, vedremo tornare a galla tutta una congerie di interpretazioni magico-esoteriche, che più strampalate sono e più affascinano il colto e l’inclita. Michelangelo poi non passa mai di moda e ancora una volta molto più per la seduzione del mito del titano scontroso e solitario che per un’effettiva conoscenza della sua opera.

Raffaello invece non rientra in nessuna delle categorie che hanno reso così popolari questi altri grandi. Bellissimo sì, ma forse poco interessante. Certamente non fu un titano solitario, e la sua vita non fu affatto maledetta, ma anzi baciata da straordinaria fortuna, per contro precocemente spezzata da una morte improvvisa che suonò come una tragedia, una fine questa condivisa da Caravaggio, ma non certo da Leonardo e ancor meno da Michelangelo, che morì poco meno che centenario. E ancora, la sua pittura troppo bella sembra non aver nessun tipo di contatto con quel filone esoterico che oggi tanto appassiona il pubblico; e invece pochi sanno che proprio lui, per alcune sue opere capitali quali la Trasfigurazione e anche la minuscola e grandissima Visione di Ezechiele, ha preso ispirazione da libri cabalistici e profetici, astrusi (astrusi oggi per noi) manoscritti del primo Cinquecento, che attingono da ogni possibile tradizione sapienziale e esoterica antica trasformata in veste cristiana. Forse, se un pubblico più ampio ne fosse informato, troverebbe Raffaello più interessante, mentre ancora oggi si pensa spesso che la sua opera emotivamente “parli” poco ad una platea in cerca di una passionalità spesso superficiale. Di superficiale in Raffaello non c’è proprio niente.

Dando per scontata l’elevatissima qualità della sua pittura, per comprendere se davvero “Raffaello è il più grande pittore di tutti i tempi”, come sostiene Antonio Paolucci, ci vuole molto di più di una ricerca di facili effetti. Addentrarsi nella sua arte significa rendersi conto di una straordinaria complessità di articolazioni spaziali, che alla fine si risolvono in composizioni armoniose e naturalissime. È quello che viene chiamato “sprezzatura”, cioè il far apparire facili anche le cose più difficili, con la superiore capacità di passare attraverso le più complesse fasi creative senza mai mostrare alcuna fatica o pesantezza, e men che meno nel risultato finale. Poi ancora, Raffaello è sempre originale, la sua capacità inventiva è così ricca che anche nel gruppo della Sacra Famiglia che tante volte dipinge, sperimenta di continuo nuove soluzioni, da due a cinque figure (la Madonna e il Bambino che sono il nucleo di base, e poi  San Giovannino, San Giuseppe e Sant’Anna o Santa Elisabetta) in diversi rapporti reciproci, senza che mai venga meno il senso armonico di equilibrio e proporzioni, e sempre mantenendo il forte legame emotivo dei personaggi fra loro e con l’ambiente circostante, perché Raffaello è anche un grande pittore di atmosfere. Una sua caratteristica peculiare è poi quella di essere uno dei più grandi sperimentatori di tutta la storia dell’arte, e non c’è novità o anche semplice fermento nel mondo figurativo che non riesca a cogliere e rielaborare, fino ad assimilarlo nel suo linguaggio. La sua curiosità intellettuale è inesauribile, espandendosi a larghissimo raggio su tutto quello che lo circonda, senza che questo però si trasformi mai in eclettismo. Se vede Michelangelo e ne guarda la potenza, se vede Leonardo e ne ammira lo sfumato, se conosce il colorismo veneto e i notturni giorgioneschi, riesce poi a trasformare tutto questo nel suo proprio linguaggio, dove da ognuno è assimilato e rimeditato tutto quello che contribuisce ad arricchire il suo personale mondo espressivo. Del resto, questa è una cifra che appartiene a tutti grandi artisti che siano veramente tali.

 

Emblematico è il caso del Perugino, la cui qualità pittorica è innegabile, ma ugualmente innegabile è il suo fermarsi ai risultati raggiunti senza il pungolo a andare oltre per raggiungere altri traguardi, come dimostra l’Assunta dell’Annunziata a Firenze, riproposta uguale a tante altre precedenti, e perciò giustamente criticata. Di segno totalmente opposto è la vicenda di Giovanni Bellini, che dominò la scena veneziana per circa un sessantennio, senza mai accontentarsi degli altissimi frutti già realizzati, ma sempre ricercando nuove forma espressive fino alla sua morte nel 1516, quando ormai ottuagenario dipinse la commovente pala di San Giovanni Crisostomo. È per questo che un Bellini, veneratissimo maestro già anziano, non ebbe remore a riconoscere l’eccezionale talento del più giovane Dürer in visita a Venezia, e a chiedergli addirittura consigli di pittura. Questo è il solco a cui appartiene Raffaello, incontentabile ricercatore di nuovi obbiettivi in una continua sfida prima di tutto con se stesso.

Alla base di tutto questo c’è in Raffaello un respiro monumentale che pochissimi prima di lui avevano raggiunto: Giotto che, sarà pure un abusato luogo comune, è realmente l’ “inventore della pittura moderna”; Masaccio, il Beato Angelico, e quel Piero della Francesca che così potente impronta di sé lasciò a Urbino, dove Raffaello nacque e visse la prima parte della sua vita. Raffaello è grandioso perché nel suo pensiero non c’è mai niente di piccolo: il suo pensiero è grande, e grande si trasmette alle sue opere. Se si percorrono le Stanze vaticane, l’evidenza della loro maestosità si impone anche allo spettatore più distratto. Magnifiche sono le singole figure, e ancor più lo è il loro esser vive in uno spazio la cui vastità è quasi per magia resa visibile e lucidamente comprensibile a chiunque lo guardi.

Di fronte a quadri come la Madonna di Foligno, la Madonna Sistina, la Trasfigurazione si viene ugualmente proiettati nella dimensione della loro assoluta spazialità. In tutti questi casi si tratta di opere la cui grandezza interiore si dispiega anche in grandi dimensioni fisiche, ma l’afflato di Raffaello è indipendente dai centimetri o dai metri dei suoi dipinti, e la visione diretta della Madonna Esterhazy (Budapest, Szépművészeti Múzeum), esposta a Palazzo Barberini fino all’8 aprile, costituisce un validissimo banco di prova per riconsiderare l’opera di questo gigante dall’insolito un punto di vista del molto piccolo.

La Madonna Esterhazy è piccolissima (29×21,5 cm), una caratteristica, questa, condivisa con tante altre opere che attraversano tutta la carriera di Raffaello, dalla Madonna Connestabile, un tondo il cui diametro arriva a malapena a 18 cm, alle due tavolette con il Sogno del cavaliere (Londra, National Gallery) e con le Tre Grazie (Chantilly, Musée Condé) che misurano entrambe 17×17 cm, ad altre opere di dimensioni appena appena maggiori, come la Madonna dei Garofani  (Londra, National Gallery, 27.9 x 22.4 cm), il San Giorgio e il drago (31x27cm) e il piccolo San Michele  (30×26 cm), entrambi al Louvre, l’altro San Giorgio e il drago (Washington, National Gallery, 28,5×21,5 cm).

L’esordio nella pittura grande di Raffaello risale alla sua primissima giovinezza con la pala di San Nicola da Tolentino di Città di Castello, eseguita nel 1501, che doveva misurare secondo le ricostruzioni circa 390×230 cm (ne sopravvivono solo dei frammenti sparsi in vari musei), ma in data ugualmente precoce compaiono le sue composizioni molto piccole come la già ricordata Madonna Connestabile che risale agli anni 1503/4. Si potrebbe quindi pensare che egli avesse anche la mentalità di un miniatore che intenzionalmente si dedica a raffigurare figure e scene in formato molto ridotto. Per far questo e rendere ugualmente leggibile l’immagine, i miniatori spesso ricorrono ad artifici, come ad esempio raffigurare i personaggi quasi delle stesse dimensioni degli edifici che li ospitano, in quanto se fossero mantenute le proporzioni effettive, i personaggi stessi non sarebbero più nemmeno visibili. Non si vuole certo con questo dare un giudizio riduttivo, ché anzi la miniatura ha prodotto capolavori altissimi, ma solo dire che la pittura di cavalletto, e ancor più l’affresco, nascono da esigenze diverse e si esplicano in forme diverse, e con diversa mentalità, anche da parte di sommi artisti che hanno praticato entrambe le vie, come il già ricordato Beato Angelico, che modifica la sua disposizione mentale a seconda che dipinga una grande pala, o che si dedichi alla miniatura di un codice liturgico. Ecco, per Raffaello non è così, la sua mente è sempre rivolta alla più ampia delle visioni, indipendentemente dalle misure di quello che dipinge. La Madonna Esterhazy costituisce appunto un’occasione privilegiata per rendersene conto. Intanto quest’opera tascabile arriva ad una perfezione di disegno quasi incredibile in dimensioni così minute, e direi che anche la sua condizione di non finito, con la pittura di entrambi i bambini appena accennata, e la conseguente  perfetta visibilità del disegno, anziché essere uno svantaggio, aiuta a valutarne l’altissima qualità e l’ineguagliabile raffinatezza. Tanta era la cura dedicata a questa opera così piccola che Raffaello ne fece un vero e proprio cartone, ancora esistente con i suoi contorni traforati per il trasporto sulla tavola da dipingere. Un’opera perfetta, dunque, pensata e realizzata, anche se non finita, con la stessa cura di qualunque altro dipinto di ben maggiori ambizioni. Perfetti sono tutti i dettagli, anche quelli che per rispettare le proporzioni, risultano alla fine realmente minuscoli, come le architetture sullo sfondo, che pur conservano una perfetta leggibilità, e mirabile è l’ariosità del paesaggio che accoglie le figure, un paesaggio che si estende così vasto nell’indefinita lontananza di un orizzonte azzurrino. In conclusione, la Madonna Esterhazy è esemplare di una concezione artistica nella quale il “piccolo” non esiste., esiste il “grande” che viene raffigurato in piccole dimensioni fisiche. 

Vorrei concludere ricordando l’opera in cui questa superiore capacità di Raffaello raggiunge il suo massimo culmine, uno dei suoi estremi capolavori, la Visione di Ezechiele (Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti, 30×40 cm, 1518 ca.), concepita ed eseguita contemporaneamente alla Trasfigurazione (Musei Vaticani, 410×279 cm), e non sembri un paradosso che il più grande dei suoi dipinti abbia tanti punti di contatto con uno dei più piccoli, essendo entrambi permeati dalla medesima grandiosità visionaria, tanto che la Visione, , poté essere proiettata in un arazzo dieci volte più grande senza perdere niente della vastità del suo afflato (Madrid, Museo Nacional de Artes Decorativas, 425×347 cm, 1520-1521). A questo dipinto è affidata la più allucinata delle visioni, con il profeta che la riceve minuscolo in un angolo, mentre la visione stessa dell’Eterno sul suo carro composto dai Quattro Viventi, balza incontro allo spettatore come se fosse la sua propria visione, con una indescrivibile resa della sua infuocata atmosfera. Come nella Trasfigurazione, il motivo dominante è qui ancora quello dell’accecante luce della gloria del Signore: pochi dipinti in tutta la storia dell’arte possono ambire ad una simile intrinseca grandiosità. Ancora una volta, nel dipingere la Visione, l’artista pensa in grande, e in effetti più che progettare di ingrandire successivamente di dieci volte l’apparizione del quadro per trasferirlo nell’arazzo voluto da papa Leone X, sembra vero l’inverso, cioè che la composizione sia stata concepita in tutta la sua ampiezza, per poi comprimerne in dimensioni tanto piccole la straordinaria potenza pronta ad esplodere. In tutto questo c’è la prova che l’orizzonte mentale di Raffaello non conosce confini: non possiamo sapere come si sarebbe evoluta la sua pittura se non fosse morto così giovane, quello che sappiamo però è che proprio la sua pittura, e anche un dipinto piccolissimo come la Visione di Ezechiele, apre la porta a nuove visioni, che condurranno lontanissimo, fino alle più intrepide estasi barocche.

Stefania PASTI      Roma febbraio 2018