di Maurizio BERRI & Aldo SERAFINELLI
Alcuni anni fa lo storico londinese Donald Sassoon ha voluto raccogliere, in un libro brillantissimo [1], tutte le più strampalate ed assurde teorie che, nel corso dell’ultimo secolo, sono state scritte sul misterioso quadro muliebre del Rinascimento italiano, dipinto da Leonardo da Vinci che risponde al nome della Gioconda, trasformatosi durante questi ultimi cento anni nel più debordante mito dell’età moderna.

Non passa praticamente giorno senza che qualcuno annunci alla redazione di un qualche giornale – come scriveva argutamente Marco Carminati[2] in un articolo di commento al libro – di aver scoperto “il segreto” della Gioconda. Così accade di leggere che la Gioconda è un uomo; la G. è un autoritratto di Leonardo; la G. è un travestito; la G. assomiglia a Michael Douglas. Anche i medici sono molto fantasiosi: all’oculista che dice che la Gioconda è strabica risponde un luminare che sostiene che sorride così perché colpita da emiparesi oppure da paralisi di Bell, mentre per un dentista le mancherebbero due incisivi, caduti probabilmente a causa di un colpo violento.
Come si è potuto leggere su di un articolo pubblicato da “la Repubblica” il 30 ottobre 2009, due studiosi spagnoli hanno sostenuto che il misterioso sorriso della Gioconda dipenda dalla retina degli occhi di chi guarda, che reagisce in modo diverso, cambiando la percezione del dipinto.
“Sembra incredibile, prosegue Carminati, ma quanto detto sin qui è stato scritto e sostenuto davvero, per giunta con molta serietà”.
In realtà nessuno sa rispondere ai cinque quesiti fondamentali che riguardano il quadro:
- Dove e quando la Gioconda è stata realizzata?
- Chi è la donna ritratta?
- Chi è il committente del dipinto?
- Perché Leonardo conservò il ritratto presso di sé sino quasi alla morte?
- Come e perché il quadro finì nelle mani di Francesco I° ?
Solo cento anni fa nessuno conosceva la Gioconda ed il suo enigmatico sorriso. Sino al 1911 era una sparuta cerchia di studiosi ed amatori a sostare estasiati davanti al celebre dipinto. L’episodio che scatenò l’evento mediatico accadde il 21 agosto 1911 quando la Gioconda viene rubata. L’imbianchino italiano Vincenzo Peruggia, spinto da malinteso senso di rivalsa nazionalistica (in questo caso ingiustificata) ed approfittando del giorno di chiusura del Museo, entrò nel Louvre, staccò il quadro dalla cornice, lo avvolse nella giacca ed uscì indisturbato dalla porta principale.
“Il clamore per il furto – ricorda Marco Carminati – fu enorme. All’evento impossibile dedicarono moltissimo spazio soprattutto i giornali popolari e i supplementi illustrati a larga diffusione. La notizia tenne campo per mesi e mesi, vennero vendute milioni di copie e alcune testate ebbero la geniale intuizione di regalare ai lettori il poster a colori del quadro sparito”.
Solo a fine 1913 la vicenda troverà la sua conclusione, quando il Peruggia, dopo aver tenuto il dipinto per ventiquattro mesi sotto il letto, deciderà di riportare il quadro in Italia, contattando all’uopo un noto antiquario fiorentino, Alessandro Geri. Una volta a Firenze, l’imbianchino verrà arrestato ed il quadro, dopo due temporanee esposizioni a Roma e Milano, verrà riportato al Louvre circonfuso da una fama interplanetaria.

Le fonti
Sin qui le notizie di cronaca attinenti l’ultimo secolo di vita del nostro quadro; ma se vogliamo tentare di dare una sensata risposta ai cinque quesiti sopra richiamati bisogna partire dalle fonti storiche a nostra disposizione.
Andiamo con ordine. Quando fu dipinto il quadro? I critici sono concordi solo sul fatto che fu dipinto durante uno dei soggiorni fiorentini di Leonardo. Chi lo colloca attorno al 1503, al tempo del primo soggiorno del pittore a Firenze e questa, come vedremo appare la tesi preferibile (accolta anche dai curatori del Louvre), e chi lo riconduce alla seconda breve sosta di Leonardo a Firenze (intorno al 1513), quando era la servizio di Giuliano de’ Medici. Tutti sono invece concordi a ritenere che Leonardo procedesse con molta lentezza impiegando qualche anno per finire l’opera. Quello che è certo è che Leonardo non si separò mai dalla sua Gioconda, portandola con sé in Francia (1517), quando venne chiamato da Francesco I°, continuando probabilmente ad apportarvi piccoli ritocchi sino agli ultimi giorni di vita (1519).
Il 10 ottobre 1517 avviene un fatto molto importante, che dovremo ricordare anche in seguito, perché quel giorno due attendibili ed illustri testimoni italiani ricevono di prima mano, dalla viva voce di Leonardo, informazioni basilari sul nostro dipinto.
I due personaggi sono il cardinale Luigi d’Aragona, zio della duchessa di Milano Isabella, ed il suo segretario Antonio de Beatis, che, nell’arco di più di un secolo, saranno gli unici italiani a poter dire di avere visto con i propri occhi il quadro, sino a quando cioè Cassiano dal Pozzo, nel 1625, riconoscerà la tavola nella reggia di Fontainebleau. In particolare Antonio De Beatis prende scrupolosamente nota di quanto Leonardo “pictore in la età nostra excellentissimo” aveva mostrato all’illustre ospite, cominciando da tre dipinti ad olio:
“uno di certa donna Firentina facta di naturale ad instantia del quondam Magnifico Juliano de Medici, l’altro di San Joane Baptista giovane et uno de la Madona et del figliolo che stan posti in grembo di S.ta Anna, tucti perfectissimi”.
Perfectisimi
“ma non finiti – dice Carlo Pedretti[3] –, come si può essere certi almeno dalla Sant’Anna, che fu lasciata infatti senza l’ultimo modellato nel drappeggio della Vergine”.
E il ritratto di “certa donna Firentina”?
“Non c’è ragione di dubitare- prosegue Pedretti[4] – che la cosiddetta Gioconda oggi al Louvre fosse il ritratto al quale Leonardo stava ancora lavorando poco prima di morire”.
I nomi di Gioconda o Monna Lisa con i quali il dipinto è universalmente conosciuto, sono dunque quelli che gli attribuisce il Vasari nel 1547 (ritratto fatto a Lisa Gherardini moglie del facoltoso mercante fiorentino Francesco del Giocondo), parlando di una tavola di Leonardo in Francia, che egli, pur non avendo mai visto, ha la pretesa di descrivere in modo dettagliato. Si spiega così come mai passi sotto silenzio il mitico sorriso, mentre si descrivono le “folte sopracciglia”, del tutto assenti nel quadro. Non si sa dove Vasari ricavasse le circostanziate informazioni, ma si sa che una delle sue fonti, l’Anonimo biografo che scriveva intorno al 1540, afferma in realtà che Leonardo “ritrasse dal naturale Piero Francesco del Giocondo” e non sua moglie.
Si deve arrivare al 1625 perché, come detto, un altro italiano possa vedere con i propri occhi la tavola leonardesca a Fontanebleau. Si tratta di Cassiano dal Pozzo che accompagnava la legazione pontificia inviata ufficialmente dal Papa Urbano VIII presso la corte di Francia sotto la guida del cardinale nipote Francesco Barberini. Qui, tra i dipinti leonardeschi, Cassiano riconosce nel ritratto della dama misteriosa la tavola a suo tempo descritta dal Vasari come Monna Lisa. L’attribuzione dell’erudito italiano non divenne subito operativa, come dimostra il fatto che ancora nel 1692 il dipinto figurava negli inventari reali come “une courtizene in voil de gauze[5]”.
Osservazione diretta del quadro
Vediamo ora cosa si evince da un esame diretto del dipinto.
La prima cosa che balza evidente agli occhi è che la figura ritratta non indossa alcun tipo di monile, al contrario di quanto avviene negli altri ritratti muliebri, sino ad oggi conosciuti, dipinti da Leonardo (La Dama dell’Ermellino di Cracovia, La Fanciulla di Profilo dell’Ambrosiana, La Belle Ferroniere del Louvre) e, quel che più conta, non v’è traccia di anelli o fedi nuziali.
Un’altra cosa che colpisce è la semplicità e la modestia del vestito. Solo recentemente Bruno Nottin, specialista del centro di Ricerca dei Musei Francesi[6] ha spiegato che si tratterebbe del vestito di una puerpera. La scoperta è stata resa possibile grazie alle indagini eseguite all’interno del Louvre nell’ottobre 2004 dai ricercatori del centro Nazionale di Ricerche Canadesi (Cnrc) che, con un avveniristico macchinario, hanno potuto vedere che la donna è rivestita da un fine velo di mussolina, portato all’epoca dalle donne incinta o dalle neopartorienti.
La terza particolarità, anche questa un “unicum” nei quadri di Leonardo, è che nel panorama dipinto dietro il ritratto non c’è traccia di alcun tipo di vegetazione, ma solo esclusivamente acqua e rocce (cosa assai curiosa, poiché nella stessa Vergine delle Rocce la vegetazione è sempre presente).

La rappresentazione è dunque voluta. Teniamo bene a mente questo particolare, come pura la strada che si vede partire sulla destra della figura ed il ponte che appare sulla sinistra della stessa.
Le conclusioni
Forti delle notizie documentali e da quanto traspare dalla visione diretta della tavola, proviamo, attraverso un ragionamento logico, a trarre qualche conclusione.
Innanzitutto, sulla base di quanto affermato dal De Beatis che parla di una “dona Firentina”, è indubitabile che il ritratto sia stato eseguito durante uno dei soggiorni fiorentini di Leonardo e, segnatamente, come ritiene la critica più accreditata, pare corretto attribuirlo agli anni intorno al 1503, corroborando la tesi dell’influenza esercitata da Leonardo sui ritratti eseguiti da Raffaello a partire dal 1505.
Per quanto riguarda la seconda domanda, possiamo tranquillamente affermare che la donna raffigurata da Leonardo non è certamente Monna Lisa del Giocondo. Non sarebbe altrimenti spiegabile il morboso attaccamento del pittore a questo dipinto, che porterà sempre con sé nei suoi trasferimenti, separandosene solo in punto di morte. Che senso avrebbe avuto portarsi dietro il ritratto della moglie di un commerciante, che certamente non era neanche la sua amante, conoscendo in campo sessuale le preferenze di Leonardo. Anzi deve far riflettere il fatto che, sentendo arrivare la fine dei suoi giorni, il pittore non voglia lasciare la Gioconda ai giovani discepoli che lo avevano seguito nell’avventura francese (Melzi e Gian Giacomo Caprotti detto “Salai”), come avviene per tutte le altre opere che ancora si trovavano nel suo studio, ma preferisca donarla al re di Francia, Francesco I°, quasi volesse assicurarle vita imperitura. In altri termini Leonardo era talmente attaccato a questo dipinto da voler preservarlo dal rischio della sua distruzione, donandolo al personaggio che in quel momento era l’uomo più potente della terra. Il ragionamento del pittore si è rivelato esatto: a distanza di cinquecento anni, la Gioconda è conservata nel più famoso museo del mondo. Abbiamo così risposto alla quinta domanda, ma non ancora alla seconda ed alla quarta: Chi è allora la donna ritratta e perché Leonardo volle conservare il quadro presso di sé sino all’ultimo?
Forse il modo più corretto di porre il quesito è quello di domandarsi perché Leonardo considerava questo ritratto il suo capolavoro e perché, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, si continua a ritenere la Gioconda il quadro più famoso del mondo, quando, francamente, la storia dell’Arte è piena di ritratti emblematici, eseguiti da maestri di grandissima fama. Pensiamo a nomi come Antonello da Messina, Piero della Francesca, Raffaello, Tiziano tanto per rimanere in Italia, oppure Van Eyck, Holbein, Cranach, Durer sino a Rembrandt, Velazquez, Vermeer… e la lista si potrebbe allungare.
La risposta richiede al lettore di armarsi di pazienza: bisogna fare un salto indietro nel tempo.
Nell’antica Grecia non v’era un modello unico per rappresentare tutte le qualità che rendevano perfetta una donna. Così nel mondo degli dei, Afrodite rappresentava la Bellezza, Athena la Sapienza, etc., mentre ad un livello più vicino agli uomini avevamo le Cariti (figlie di Zeus ed Eurinome), tra le quali si distinguevano Aglaia, che rappresentava l’Ornamento e quindi la Bellezza, Eufrosine, che rappresentava la Gioia e Talia, simbolo della Fertilità.
Sull’esempio dei Greci anche i Romani per indicare, nelle arti figurative, tutti gli attributi di una donna dovevano ricorrere alla raffigurazione delle Tre Grazie e la cosa continuò sino al Rinascimento.
Leonardo si era arrovellato per trovare la soluzione ad un quesito apparentemente insolubile per l’Arte: quello di riuscire con un unico dipinto a rappresentare la Donna ideale, o per meglio dire la donna nella pienezza delle sue Virtù, così come era riuscito a fare in poesia un suo geniale conterraneo, quasi due secoli prima:
“Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile ed alta più che creatura…”
Le parole del divino poeta dovevano rimbombare nella mente di Leonardo, tutto teso alla realizzazione di un sogno… quando ecco, forse la visione di una sua bella conterranea incinta gli svela l’enigma.
“termine fisso d’eterno consiglio,/ tu sei colei che l’umana natura…”
Nasce così la Gioconda nella testa del maestro, ancor prima di aver preso in mano il pennello. Una donna giovane, da poco incinta, oppure meglio ancora neopuerpera, che posa serena, con le mani vicino al grembo ed un sorriso di consapevolezza stampato sul volto. Lei ora sa la sua salvifica funzione: quella di trasmettere la vita. Ora, dopo averlo sperimentato direttamente sul suo corpo, ne ha piena consapevolezza. E’ lei chiamata alla realizzazione del disegno divino. “Crescete e moltiplicatevi” dice il precetto, ma è solo lei che dona la vita; è lei la strada attraverso la quale la vita si propaga (e Leonardo fa partire la strada dalla sua spalla destra); è lei il ponte che fa da tramite tra la volontà divina e la sua attuazione (ed ecco che Leonardo fa arrivare un ponte alla sua spalla sinistra). Ma soprattutto, se scompare lei non rimane che un paesaggio di desolazione e morte, come quello che sta alle sue spalle, privo com’è di ogni forma di vita. E’una visione che sconfina nella lirica; d’altra parte era stato proprio Leonardo nel mirabile “Trattato della Pittura” a dirci: “La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura cieca e l’una e l’altra vanno imitando la natura…” sostenendo così la stretta complementarietà tra le due arti.
La sfida di Dante Alighieri è stata raccolta e forse superata, perché se Dante riesce a descrivere in modo sublime una donna che è già sovrumana, in quanto partecipe come Madre di Dio della natura divina, Leonardo riesce a sollevare alle stesse vette la figura di una semplice ragazza fiorentina del suo tempo, dando con il suo pennello alla figura della “Donna” la rappresentazione più poetica che mente umana sia mai riuscita concepire. Ma Leonardo, si sa, era veramente un genio anticipatore dei tempi.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedere: “ E allora, il committente?”. Anche i geni possono talvolta ricorrere ad una piccola bugia. Sarebbe stato troppo complicato e forse addirittura blasfemo spiegare al cardinale d’Aragona quello che la mente di Leonardo aveva concepito, in un mondo dove la donna era ancora considerata in posizione subordinata rispetto all’uomo.
Meglio tenere un basso profilo e parlare di un ritratto commissionatogli da Giuliano de Medici, piuttosto che di un concetto ideale così ardito, che nessuno oltretutto gli aveva mai richiesto… .
Tanto, prima o poi, qualcuno nel futuro avrebbe certamente capito… .
Maurizio BERRI % Aldo SERAFINELLI
NOTE