La Cenerentola di Emma Dante, una storia di inganni e vessazioni in “un’opera di puro Teatro”

di Elena TAMBURINI

Emma Dante

L’interesse di Emma Dante per il tema di Cenerentola si può dire antico. E tutt’altro che banale è del resto la tradizione a cui si riferisce la favola; al punto che per Cenerentola si è potuto parlare di un mito. Basile a Napoli, Perrault nella Francia del re Sole, i Grimm nella Germania preromantica hanno infatti raccolto la favola da  tradizioni antichissime; delle quali è possibile rinvenire tracce fin nell’antica Bisanzio (il bando pubblico per la scelta della sposa dell’imperatore, la babbuccia purpurea simbolo del suo potere), fin nell’antica Cina (il canone di bellezza del piede piccolissimo) e fin nei miti pagani precristiani della nostra penisola (la “creatura di cenere” studiata da Lévi-Strauss, figura di riconciliazione tra la vita e la morte; la mezzanotte come ricordo di quel sabba magico e stregonesco che sancisce la diversità e la marginalità femminile; e anche quel monosandalismo che, secondo Ginzburg, era il contrassegno di chi aveva affrontato il viaggio nel mondo dei morti). La Gatta Cenerentola di Renato De Simone è, come è noto, la moderna testimonianza di una lettura antropologica napoletana che, sulla scorta di Basile, non ha escluso gli aspetti più tragici. Ma in tempi più recenti lo è anche stata anche una riduzione teatrale di Emma Dante, corredata da una pubblicazione non proprio per bambini, dal momento che la violenza subita da Cenerentola e il suo dolore vi hanno una parte preponderante, che è ambientata in un piccolo paese siciliano, che i dialoghi sono in dialetto siciliano (la Sicilia vista ovviamente come luogo privilegiato della sopraffazione maschile sulle donne), e soprattutto che la riconciliazione finale della favola vi è espunta.

Jacopo Ferretti

Anche nella versione del librettista dell’opera rossiniana (1817), Jacopo Ferretti, è possibile cogliere la volontà di leggere il tema in una dimensione reale,  eliminando il filtro fiabesco. Non c’è matrigna qui, ma un vero padre che ha rifiutato una figlia (il che è molto peggio), riducendola a una sorta di schiavitù; e c’è una situazione di colpevole disastro economico per uscire dal quale il padre non esita a ricorrere a ogni sotterfugio, pur di piazzare una delle due figlie (quelle avute dal secondo matrimonio) sul trono principesco: non a caso il libretto è stato definito un’“antifavola”. Ma è evidente che la preoccupazione predominante nella Roma papalina dell’Ottocento, dove era prevista la “prima” dell’opera, fosse quella moralistica: Cenerentola è  la bontà in trionfo, come recitava il sottotitolo dell’opera. Non c’è una fata infatti, ma un’equa ricompensa alla bontà; non c’è scarpetta, ma uno “smaniglio”, cioè un braccialetto, che consentiva di evitare pericolose esibizioni di caviglie; e c’è nella protagonista una spontanea dichiarazione di perdono che però non trova corrispondenza nel padre e nelle sorellastre.

 

Al di là di questi tre personaggi negativi, che, salvo questa desolante incapacità finale, appaiono risolti in chiave comica, anche quelli positivi hanno un’identità ambigua, tutta da scoprire: se la serva Cenerentola ha una vera (e più che rara) nobiltà nell’animo, il principe è travestito da cameriere, il cameriere da principe, il suo precettore Alidoro – filosofo e  saggio, vero motore positivo della favola – è travestito da mendicante: un vero gioco di inganni e di false apparenze. Questa Cenerentola rossiniana dunque si potrebbe leggere in una chiave non fiabesca e si offre anzi con non poche luci sinistre e “acide”; come a suo tempo ha dichiarato Luca Ronconi che in una delle sue famose regie (1998), pur puntando la sua attenzione sulle trasformazioni a vista, dal povero camino della protagonista a quelli sfarzosi del principe, non ha mancato di rilevare queste novità del libretto. Ma il vero filtro in un melodramma è la musica: e quella di Rossini, pur dando voce e arie bellissime anche ai tratti dolenti della protagonista, rimette in moto circolarità trascinanti e gioiose, “nodi avviluppati” e lieto fine della fiaba.

Appena reduce dal grande successo ottenuto con il recente Uccello di fuoco di Prokofiev, in cui Emma Dante ha saputo dare spazio all’unica, disperata e legittima ricerca d’amore che, il più delle volte condannata e repressa come deviata, appare la motivazione più profonda  della natura femminile, la regista ritorna a questo suo antico tema, con la ripresa di una messinscena romana di tre anni fa: una ripresa che è con evidenza una conferma della sua costante ispirazione a difesa delle donne, ancor oggi spesso maltrattate fino alla negazione dei loro diritti più elementari. Ma questa regia sembra anche voler ricomporre in unità i più autentici intenti di attualizzazione del libretto accettato da Rossini con la sua musica che, come dice la stessa Dante, essendo ritmo puro e offrendo inedita forza ad ogni contenuto, rischia di far dimenticare l’originalità di questa versione del mito.

I collaboratori sono ovviamente gli stessi della versione di tre anni fa: lo scenografo napoletano Carmine Maringola, la costumista Vanessa Sannino, la coreografa Manuela Lo Sicco, il light designer Cristian Zucaro. E va osservato che è proprio valendosi di questi e altri suoi collaboratori tradizionali, Emma Dante, pur venendo da teatri e da spettacoli diversi, non ha mancato di dire una sua parola importante anche nel campo della lirica: e ricordiamo, oltre al recentissimo Angelo di fuoco, Carmen (2009), Macbeth e Cavalleria rusticana (2017).

In questa Cenerentola nessun facile camino, nessun castello principesco; ma una scena fissa, un generico appiattito sfondo a due piani, appena segnato da due file di cornici apribili a finestre e di volta in volta animato da paraventi, poltrone, tende, lampadari, sipari di tulle più o meno trasparenti e luci, molte luci diverse a cui è principalmente demandata la funzione di segnare i cambiamenti di scena.

In realtà Emma Dante ha in questa regia un riferimento stilistico dichiarato: il surrealismo pop, un movimento americano degli anni ‘70, che ha le sue radici culturali nelle arti popolari e di strada, nelle “basse” culture del fumetto e del giocattolo. Un’ispirazione evidente specie nei costumi e nelle  acconciature e anche nella concezione di alcuni personaggi di contorno che sono caricati come giocattoli per mezzo di chiavi sulla schiena e come giocattoli meccanici si muovono e danzano. Sono personaggi che aiutano Cenerentola, come le colombe della favola dei Grimm, come i topolini della versione Disney. Come a dire qui però che le persone buone sono sole, senza una possibilità di una vera comunicazione, mentre il mondo intorno a loro è perfido e violento. Il lieto fine è reso possibile solo perché il padre e le sorellastre e perfino i protagonisti innamorati diventano anche loro figure meccaniche, caricate da una chiavetta; un lieto fine che, come ha fatto rilevare la stessa regista, è evidentemente solo “parziale”.

Il grande successo di questo spettacolo è stato ottenuto anche grazie a una direzione musicale di grande livello (Stefano Montanari), come di grande livello appare il cast delle principali voci impegnate: Ramiro (Maxim Mironov), Cenerentola (Teresa Iervolino), Magnifico (Carlo Lepore), Alidoro (Adrian Sanpetrean), Dandini (Vito Priante).

ELena TAMBURINI   Roma giugno 2019