di Claudio LISTANTI
La Carmen di George Bizet è stata recentemente rappresentata, con deciso successo, al Teatro dell’Opera di Roma utilizzando uno storico allestimento del teatro creato nel 1970 dal pittore Renato Guttuso con la direzione musicale di Omer Meir Wellber, la regia di Fabio Ceresa ed una valida compagnia di canto. L’iniziativa è risultata ancor più efficace per ricordare Carmen a per i 150 anni dalla prima assoluta e celebrare così un capolavoro tra i più rappresentati al mondo.
L’elemento principale di interesse di questa proposta del teatro lirico romano sta proprio nella scelta dell’allestimento che in quel ormai lontano 1970 fu fonte di polemiche e discussioni che crea, oggi a più di mezzo secolo di distanza, molteplici assonanze con quanto sta accadendo oggi.
Noi che scriviamo siamo molto legati a quella realizzazione scenica che influì sulle nostre prime esperienze di spettatore d’opera il cui risultato visivo produce un indelebile ricordo nella nostra mente che ne evidenzia il personale percorso nella sensibilità e nella maniera di fruire del teatro.

La Carmen di Guttuso, così è nominata nell’ambito degli appassionati d’opera romani, fu un evento che destò scandalo.
Questo perché il pittore siciliano riversò sulla produzione delle scene e dei costumi il suo stile pittorico fatto di colori ed elementi popolari che riverberavano la vita di tutti i giorni di una città come poteva essere Siviglia. Ma non era Siviglia perché il pennello di Guttuso immaginò una ambiente più affine alla sua Sicilia, quindi di carattere mediterraneo più che andaluso nell’ambientazione, soprattutto per la presenza sullo sfondo di uno squarcio di paesaggio marino. A questo va aggiunto il famoso caso delle ‘minigonne’ che Guttuso immaginò per il personaggio di Carmen con abiti molto colorati ed intonati al gusto estetico dell’insieme. Il pittore immaginò i costumi per l’interprete scelta per l’occasione, il mezzosoprano Grance Bambry, ideali per evidenziare la femminilità e la sensualità del personaggio la cui recitazione risultò travolgente.
Apriti cielo! I cosiddetti ben pensanti non digerirono questa visione.
Innanzitutto per l’ambientazione mediterranea giudicata lontana dall’architettura e dall’ambiente di Siviglia e, quindi fuorviante. Criticata fu pure la minigonna che, comunque era un segno dell’epoca molto presente nell’abbigliamento delle giovani ragazze di allora. Un richiamo quindi all’attualità se si considera anche che nel terzo atto Micaëla arrivava con uno splendido ‘maxicappotto’ nero, anch’esso specchio di quei tempi ed utilizzato a nostro giudizio per il contrasto tra le due protagoniste femminili, più sbarazzino, ribelle e contestatore quello di Carmen contrastante con la personalità di Micaëla più orientata verso la tradizione e le formalità.

A questo si deve aggiungere anche il fatto che Carmen fu allora presentata per la prima volta nell’edizione originale francese e, seppur ridotti all’osso, con i testi parlati. Il pubblico era abituato alla Carmen nella traduzione ritmica italiana, soluzione molto utilizzata anche per altre opere provenienti da repertori non italiani, per cui creò un certo disagio per l’ascoltatore tradizionale dell’epoca. Quello che ricordiamo con precisione è che le sette recite furono seguite da un pubblico molto numeroso che dimostrò di accettare di buon grado le ‘novità’ e il pregio dell’esecuzione che oltre alla Bambry prevedeva la presenza di un’altra stella assoluta dell’epoca, il tenore statunitense Richard Tucker nella parte di José. Ottennero entrambi un vistoso successo personale al quale si affiancarono anche la Micaëla di Mietta Sighele, l’Escamillo di Gian Giacomo Guelfi e, in special modo, il direttore Mario Rossi che dall’alto della sua esperienza diresse con precisione e semplicità la splendida partitura.
Il successo di queste recite portarono gli organizzatori del teatro a proporre una ripresa dello spettacolo nel 1973 con una programmazione molto più cospicua nel numero delle recite che raggiunsero un totale di dieci pur dovendo rinunciare all’edizione francese, purtroppo ancora non digerita a pieno, per riproporre l’opera nell’usuale versione ritmica italiana.
Queste brevi note, soprattutto in relazione alle ‘novità’ apportate dalla realizzazione scenica, ci fanno un po’ sorridere se solo pensiamo a ciò che avviene ai nostri giorni quanto a trasposizioni di epoca di ambienti e di alterazioni di trame e di azioni sceniche. Oggi lo stravolgimento è considerato da molti registi e, purtroppo anche da vari organizzatori, elemento essenziale per una realizzazione operistica, con il risultato di produrre messe in scena il più delle volte fuori del seminato e controproducenti rispetto al contenuto stesso dei capolavori rappresentati e, questo dispiace ancor di più, irrispettose delle intenzioni originarie degli autori

Ripensando a quella Carmen di tanti anni fa possiamo pensare che quello era il modo di innovare perché l’operazione non produceva un contrasto prorompente con la tradizione.
Quando si riprende uno spettacolo degli anni passati soprattutto per questa Carmen, riproposta a più di 50 anni dalla prima, si va incontro al problema della ricostruzione scenica. Non tutto quanto relativo all’originale è stato possibile reperire dai magazzini. Le scene sono state ricostruite da Alessandro Nico mentre i costumi ricostruiti da Anna Biagiotti. Entrambi hanno lavorato su più dei mille bozzetti prodotti per l’occasione da Guttuso. Dobbiamo dire che il lavoro intrapreso è stato soddisfacente anche se i nostri ricordi di allora ci fanno pensare ad una semplificazione della parte scenica soprattutto per quanto riguarda l’attrezzeria.
Poi c’è il problema della ripresa registica. Nel 1970 la Carmen fu rappresentata con la regia di Sandro Bolchi, artista noto soprattutto per le regie televisive, popolari e destinate ad un pubblico vasto anche se eterogeneo. Creò una regia rispettosa della trama rivolta a porre in evidenza il nocciolo del dramma che, pur se all’epoca non si usava il termine femminicidio, l’azione teatrale sviluppa un momento scellerato di questo tipo.

Per le rappresentazioni di oggi, anno 2025, il Teatro dell’Opera ha affidato l’onore di questa ripresa al giovane regista Fabio Ceresa, vincitore dell’International Opera Award come migliore giovane regista. In possesso di una esperienza teatrale a largo spettro che va dal teatro lirico con la messa in scena di opere appartenenti al barocco come al romanticismo e al verismo fino alla contemporaneità, abbinando diverse realizzazioni per il teatro di prosa che gli hanno valso l’assegnazione del premio poco prima citato.
Per questa Carmen ha optato per una rilettura attualizzata di quanto succede in scena, inserendo elementi che ricordano i fermenti degli anni ’70 dello scorso secolo, periodo nel quale fu concepito questo spettacolo, che Guttuso già intuì all’epoca con le scene e costumi. Queste novità, però risultano stridenti con l’impianto scenico, proponendoci elementi che non si sposano con la cornice scenica, come ad esempio il bruciare i reggiseni come le femministe fecero ad Amsterdam in quel lontano 1970 e qui totalmente intollerabili alla vista, come pure, purtroppo, la ormai consueta presenza di diversi mimi i cui movimenti sono stati affidati a Mattia Agatiello, che hanno il compito di rafforzare la percezione dell’azione risultando però fastidiosi e fuorvianti. Anche nella scena del terzo atto, in Bizet mirabile ed esplicativa per l’evoluzione della trama, il regista ha impoverito la cosiddetta scena delle carte togliendole dalle mani della protagonista provocando l’impoverimento dello spessore drammatico.
Insomma ci è sembrato che Ceresa abbia rincorso invano, e forzatamente, la novità non riuscendoci però a dare nuova linfa ad uno spettacolo che già di per sé possiede una completezza strutturale di grande presa.

Per quanto riguarda la parte musicale alternava luci e ombre. Il ruolo della protagonista è stato affidato al mezzosoprano francese Gaëlle Arquez che si è giovata del recitare il testo che Henri Meilhac e Ludovic Halévy trassero da Prosper Mérimée, mettendo in evidenza una discreta e più che accettabile presenza scenica per uno spettacolo creato, come poco prima citato, per una cantante dalle spiccate doti sceniche che la francese ha ben interpretato. Anche la sua vocalità ci è sembrata in linea con il personaggio creato da Bizet, che necessità di una voce estesa e idonea a frequentare il registro acuto come quello grave nel quale la Arquez si è inserita con una certa naturalezza. Per lei trionfo personale di grandi dimensioni.
Nella parte di Don José il tenore di origini messicane Joshua Guerrero, anch’egli in possesso di un repertorio molto vasto che comprende anche ruoli di tenore molto impegnativi. Qui però ci ha offerto un José spento e quasi fuori ruolo per i primi tre anni risorgendo però nel quarto con un finale trascinante e musicalmente intenso. Il torero Escamillo era il baritono uruguaiano Erwin Schrott che possiede una voce di basso-baritono molto adatta per questo ruolo per il quale Bizet produce impegnativi passaggi di registro. Una interpretazione la sua valida scenicamente e vocalmente anche se priva, forse, di quello slancio necessario per renderlo alla perfezione. Infine per riferire dei personaggi principali la Micaëla di Mariangela Sicilia parte molto adatta per un soprano come lei soprattutto per la delicatezza dei toni e la qualità del ruolo scenico affidato al personaggio che dimostra di essere per lei congegnale anche se a volte ha mostrato qualche asprezza negli acuti, solitamente in lei perfetti, fatto dovuto molto probabilmente alle sonorità troppo accese dell’orchestra.
Negli altri ruoli Frasquita era Meghan Picerno, Mercedes Anna Pennisi, Dancairo Alessio Verna, Remendado Blagoj Nacoski, Zuniga Nicolas Brooymans e Morales Matteo Torcaso tutti in linea con l’impostazione registica e con le parti vocali a loro affidate.

Convincente la prova Coro del Teatro dell’Opera di Roma diretto da Ciro Visco e del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma diretto da Alberto de Sanctis che hanno ben eseguito la parte corale che per la realizzazione di Carmen è molto importante ottenendo alla fine lunghi e calorosi applausi a loro specificatamente dedicati.
Il direttore d’orchestra Omer Meir Wellber che ha optato per una semplificazione della parte recitata espungendo buona parte dei parlati cha ha tolto all’insieme quelle caratteristiche di opéra-comique, genere al quale Camen apaprtiene, ha guidato l’Orchestra del Teatro dell’Opera offrendo però una prestazione discontinua soprattutto per l’adozione di tempi spesso troppo lenti, spesso troppo veloci, come nell’ouverture, affiancando anche particolari dinamiche dei suoni spesso in contrasto con l’andamento scenico come ad esempio nel terzo atto, fulcro dell’opera, che è risultato un po’ sbiadito. Più convincente nelle grandi scene di insieme come il primo atto e il finale.
La recita (24 giugno) è stata seguita da un vastissimo pubblico che ha dimostrato di apprezzare queste riproposte di allestimenti tradizionali, come del resto è capitato qualche giorno fa nella stessa sala con la riproposta de L’italiana in Algeri di Rossini utilizzando le scene di Emanuele Luzzati. Elemento questo che nel nostro intimo ci fa sperare in una inversione di marcia per la scelta degli allestimenti scenici nell’ambito del teatro d’opera.
Molti applausi alla fine, entusiastici, corposi e convinti a dimostrazione di una piacevole serata d’opera.

Al Teatro dell’Opera di Roma il ritratto di Giuseppe Verdi di Guttuso donato dall’Archivio Storico Bocchi
A margine della nostra recensione ci fa piacere segnalare il fatto che per questa riproposta dell’allestimento di Carmen prodotta da Guttuso l’Archivio Storico Bocchi di Parma ha donato al Teatro dell’Opera di Roma, in memoria di Mario Bocchi (Parma, 1924 – 1997), intellettuale, collezionista e amico personale di Guttuso, l’unico dipinto del pittore siciliano dedicato a un musicista, il famoso Omaggio a Giuseppe Verdi risalente agli anni ’60 dello scorso secolo.
Il primo incontro tra Guttuso e la musica di Verdi avvenne a Parma nel 1963 quando fu rappresentato Macbeth per le celebrazioni per il 150° anniversario della nascita del compositore. Molto probabilmente Guttuso realizzò per l’occasione il ritratto oggetto della donazione.
Il ritratto sarà esposto nel Salone Presidenziale al Teatro dell’Opera a testimonianza del profondo dialogo tra arti visive e musica che attraversa il Novecento, di cui l’Opera di Roma si è sempre fatta promotrice.
Claudio LISTANTI Roma 29 Giugno 2025