L’ “Apostolado” di Ribera e la “Cattura di Cristo con l’episodio di Malco di Baburen”. Un filo rosso collega i Gavotti romani, Pietro Cussida e Roberto Longhi

di Rita RANDOLFI

L’attuale mostra Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi ospitata a Palazzo Caffarelli, mi fornisce l’occasione per sintetizzare in questa sede alcuni saggi già da me pubblicati in riviste scientifiche diverse, per documentare la storia rocambolesca di alcuni dipinti di autori caravaggeschi che furono acquistati proprio da Roberto Longhi a Roma, nel lontano 1916, dai baroni Gavotti-Verospi[1].

I Gavotti provenivano dalla Liguria, tra Genova e Savona,  alcuni suoi membri erano stati senatori ed appartennero al Sovrano Ordine di Malta[2]. Un ramo della casata scese da Genova a Roma nel XVI secolo e si imparentò con i Verospi, oriundi spagnoli. Tuttavia  Niccolò II Gavotti già dal 1550  aveva costituito  a Roma una società bancaria con Juan Enriquez de HerreraCristoforo Sauli[3]. Il legame dei Gavotti con la Spagna, dunque, risale ad anni ben precedenti rispetto ai matrimoni contratti con i Cussida prima e con i Verospi poi, e questa considerazione fornisce un’idea ben precisa di quali dovevano essere le frequentazioni della famiglia.

Altre testimonianze riguardanti la presenza dei Gavotti nell’Urbe provengono dai documenti della Confraternita di San Giovanni Battista dei Genovesi, sodalizio che, com’era logico ed ovvio, riuniva i liguri qui trasferitisi.

I primi ad essere ricordati come guardiani della pia associazione sono Gaspare, che rivestì tale carica nel luglio del 1583, e Giulio, guardiano nel luglio del 1584 e di nuovo nel mese di giugno dell’anno seguente. I due erano fratelli, figli di Vincenzo e di Bartolomea del Carretto di Dego, e si erano distinti nelle battaglie contro i Turchi, che tuttavia costarono al primo l’intero patrimonio, utilizzato per pagare il riscatto dagli Ottomani che lo avevano fatto prigioniero[4].

Nel 1597 si trova registrato il nome di Lorenzo, figlio di Niccolò II, sposato con Laura Pavese, di Niccolò dei baroni di Gervise e Casalnovo delle paludi Pontine e, nel 1601, e ancora nel 1618 e nel 1620, risultava rivestire tale incarico il fratello di questi, Giovanni Stefano, padre agostiniano[5]. Quest’ultimo fu un intellettuale ed un collezionista, ed inviò, da Roma a Savona, alcuni importanti quadri per arricchire i palazzi e le cappelle di proprietà[6].

Lorenzo[7] era il fratello di Girolamo I[8], sposato con Aurelia Pavese, sorella di Laura, e padre di Niccolò III, nato intorno al 1600, ascritto alla nobiltà genovese già dal I febbraio del 1626, guardiano laico della confraternita di San Giovanni Battista nel giugno del 1635 e del 1636, e ancora tra il 1653 ed il 1654. È questo un personaggio chiave per la nostra vicenda: quando Pietro Cussida, già dal 1596 cliente del banco Herrera e Costa, si spense, il 14 febbraio del 1622, tramandò i suoi beni all’unigenito maschio, Giovanni Francesco, unitosi in matrimonio con Maria Gavotti[9].

Giovanni Francesco seguì inaspettatamente il padre, il 23 agosto dell’anno successivo, lasciando come unica erede sua figlia Laura, che avendo soltanto un anno di età, venne affidata alla cura dello zio, eletto tutore della piccola, Niccolò III Gavotti.

Di fondamentale importanza si rivela, quindi, l’inventario dei beni di Laura Cussida, stilato l’8 marzo del 1624,  dove,  nonostante l’assenza  dei nomi degli autori, si rintraccia facilmente  «Un quadro di San Pietro quando tagliò l’orecchio a Malco» in cui è stato riconosciuto il dipinto di Dirck van Baburen[10]   e la serie dei Dodici Apostoli, di Ribera.

A seguito della nomina di Niccolò Gavotti a tutore di Laura Cussida, la casata genovese  divenne l’effettiva proprietaria sia del palazzo di via del Corso n. 300, sia della collezione, che rimase, inaspettatamente  quasi integra, in loro possesso fino alle prime decadi del Novecento[11].

Niccolò, sposato con Caterina Raimondi Feo, figlia di Pietro, barone di Rocca Imperiale, si spense senza eredi e dispose, nel proprio testamento del 12 luglio del 1674[12], che i suoi beni andassero al fratello Carlo, barone di Porcigliano[13].

Chiesa di San Nicola da Tolentino

Nell’inventario di Niccolò, rinvenuto dal Leonardi nell’archivio Gavotti di Genova,  erano citati ben centottantatre quadri, ma tutti senza il nome dell’autore e la descrizione del soggetto[14], in quello di Carlo, invece, si ritrova: «Un S. Pietro, che taglia l’orecchio a Malco con cornice d’albuccio bianca»[15]. Carlo, tuttavia, lasciò i dipinti in deposito presso il nipote Angelo Domenico Maria, che li ereditò definitivamente alla sua morte,  nel rispetto delle volontà dello zio del primo,  Giovan Battista,  committente, tra l’altro,  dei lavori della cappella gentilizia nella chiesa romana di san Nicola da Tolentino[16].

È probabile che sia stato Angelo Domenico, come suppose la De Marchi,  ad aver prestato per la mostra di San Salvatore in Lauro del 1689 ben diciotto quadri, di cui, però, si ignorano, perché non trascritti nel documento, soggetti ed autori[17]. Due anni dopo lo stesso  si rese disponibile per tredici dipinti, nuovamente ricordati senza il nome degli autori e la descrizione dei soggetti[18].

Per la ricorrenza del 1700, invece, fu il marchese Ruspoli a fare da garante per i Gavotti[19]. Angelo Domenico, infatti, aveva sposato Ortensia Ruspoli Capizucchi, dalla quale aveva avuto Giovanni Agostino, Giovanni Stefano,  Raimondo, Carlo ed Alessandro[20]. Nel 1701 Angelo Domenico, questa volta menzionato esplicitamente nei documenti, avrebbe partecipato alla mostra con quindici opere[21].

Angelo Domenico  morì in duello il 4 settembre del 1703, ucciso da Scipione Santacroce nei pressi della chiesa di Santa Francesca Romana[22]. La vedova, Ortensia Ruspoli Capizucchi, richiese l’inventario dei beni[23], nel quale si rintracciano agevolmente, nel palazzo ad angolo tra via del Corso e vicolo Sciarra, più precisamente nella stanza accanto alla sala erano collocati  «Dodeci apostoli con Giuda e due altri apostoli, in tutto quindeci, tela di imperatore, cornice dorata».

L’ultimo figlio di Angelo Domenico, Alessandro, celebrò, nel 1775, le nozze con Virginia Verospi, della quale prenderà anche il cognome, essendo la donna l’unica erede di Girolamo III, sposato con Ippolita De Angelis Spada, e ultimo maschio della nobile casata oriunda della Spagna[24]. La coppia  diede alla luce Girolamo.

Da questo momento la situazione che è possibile ricostruire attraverso le carte d’archivio subisce una svolta, poiché gli inventari recano, per la prima volta, le attribuzioni delle opere.

Girolamo, divenuto un impresario molto noto nella Roma dell’Ottocento, con testamento rogato il 15 novembre del 1837, istituì un fidecommesso sui beni immobiliari in favore del figlio Luigi[25].

Girolamo, evidentemente, aveva fallito qualche operazione finanziaria che lo vedeva in società con il conte Antonio Spreca, il quale, pur di riprendersi i suoi soldi, si fece dare in pegno dal Gavotti alcuni quadri, sui quali vigeva anche un pignoramento da parte della ditta bancaria Spada-Flamini[26]. Tale contratto recava la data del 18 aprile del 1840. I dipinti in questione vennero fatti periziare dal Sessi e dal Prampolini tra il 1838 ed il 1840[27], i quali ascrissero la Cattura di Cristo di 6 palmi x 4 ½  di Baburen  a scuola bolognese.

Nel 1849 il barone Luigi passò a miglior vita, ed i figli Angelo, Girolamo, e Virginio, avuti dal primo matrimonio con Marianna Lante, incaricarono il legale Giovanni Francesco Niccolini di redigere l’inventario dei beni del padre[28]. Quest’ultimo dimorava nel palazzo di via del Corso al civico 300, ossia nell’edificio ereditato dai Cussida, mentre i figli abitavano a poca distanza, in alcuni appartamenti del fabbricato di via delle Muratte n. 78[29].

Niccolini incaricò il celebre pittore Tommaso Minardi della stima delle opere.

Dirk van Baburen, Cattura di Cristo con episodio di Malco, Firenze, Fondazione Longhi.

La  Cattura di Cristo di Baburen, alta palmi 6  e larga palmi 4½,  fu valutata 30 scudi,  e riferita per la prima volta, alla scuola di Caravaggio. Nell’ultima stanza erano ricordati: «Tredici quadri rappresentanti uno Cristo e gli altri li 12  Apostoli dello Spagnoletto alti ognuno palmi 7 largo palmi 5 ciascuno scudi 30 in tutto scudi  390».

La notizia è rilevante per due motivi, il primo: Gianni Papi, nel catalogo  El joven Ribera del 2010[30], affermava di aver scoperto la fotografia di un Cristo redentore, di ubicazione sconosciuta, ma replicato da un seguace dello Spagnoletto nella versione di Palazzo Bianco di Genova, che lo studioso metteva in relazione con l’Apostolado. In effetti, come recitava la stima del Minardi, i quadri erano in tutto tredici, compreso quello rappresentante Cristo,  ma l’inventario del 1702, di proprietà di Angelo Domenico precisava che la serie era composta da quindici tele, in quanto il pittore aveva anche effigiato Giuda Iscariota  e san Paolo, che non era propriamente un apostolo, ma piuttosto un discepolo di Gesù in quanto non lo conobbe personalmente. Manca ancora un personaggio all’appello, a meno che il compilatore del documento settecentesco non abbia preso un abbaglio.

Il secondo: Andrea Leonardi  supponeva che una parte della serie degli Apostoli potesse essere riconosciuta nell’inventario genovese di Agostino Maria I Gavotti[31] del 1715. Nel documento venivano menzionate tre mezze figure con “Nostro Signore”, san Giovanni, san Pietro e san Paolo, ma lo stesso studioso ammetteva che le opere suddette erano registrate come di un allievo  di Spagnoletto e valutate in tutto 150 lire. Poco oltre nel medesimo inventario erano ricordati san Matteo con cornice dorata stimato 70 lire[32], e san Bartolomeo, san Filippo[33], san Tommasosan Giacomo[34], san Simone[35],  valutati 20 lire ciascuno.

Al di là della considerazione già avanzata dal Leonardi, riguardo alla non integrità della serie permangono anche altre perplessità. Perché i quadri in questione non erano esposti tutti insieme, e perché sono stimati con prezzi differenti?

I primi quattro dipinti, in effetti, come affermavano gli stessi compilatori dell’inventario,  i pittori Giacomo Grana e Giovanni Lorenzo Bertolotto, erano  “fatti  da un allievo dello Spagnoletto tali e quali”, e dotati di cornici dorate. Tommaso e Giacomo, invece, venivano detti “piccoli”, il san Simone era elencato tra i sopraporta. Dunque le dimensioni inferiori dei primi due e in orizzontale di quest’ultimo quadro non si conciliano con la serie Cussida. Si può supporre allora che i Gavotti di Genova  possedessero un’altra serie, che del resto riscosse un’enorme fortuna, o avessero fatto eseguire delle copie delle tele romane. I dipinti che si trovavano nell’Urbe, infatti, non lasciarono mai la città.

In una carta sciolta dal titolo:

Nota de’ quadri spettanti all’Ecc.mo Patrimonio Gavotti Verospi ed esistente fuori di Casa come appresso. I numeri indicano quelli corrispondenti all’inventario e stima fatta dal Professor Tommaso Minardi nel 1849”,

con data 27 agosto 1862 si ritrovano almeno due degli  Apostoli dello Spagnoletto depositati presso il signor Decio Zenniter[36].

Nella lista al  n. 14 compare la Cattura di Cristo di Baburen, ancora genericamente riferita a scuola caravaggesca e al n. 17 l’apostolo Mattia del Ribera[37].

Angelo e Girolamo Gavotti, figli di Luigi, dovettero proseguire l’attività intrapresa dal padre. Si sono, infatti,  rintracciati diversi contratti di acquisto,  locazione e  vendita di case a Roma. Si può aggiungere che entrambi risultavano membri della Società delle Corse, il cui presidente era Giulio Grazioli Lante, figlio di Pio e di Caterina Lante, con cui erano imparentati, e del prestigioso Circolo della Caccia, che ospitavano nel loro palazzo di via del Corso, e sembravano condurre un tenore di vita piuttosto  elevato, come si desume dalle uscite in favore di artigiani diversi, tra i quali vale la pena di ricordare gli orefici Castellani, e gli architetti Frezzolini e Vespignani.

Tuttavia qualcosa non andò per il verso giusto.

Il 29 marzo del 1874 si riunì, infatti, una commissione incaricata dal marchese Angelo e dal barone Girolamo, di revisionare lo stato attivo e passivo del patrimonio. In tale relazione sono minuziosamente riportati tutti i movimenti finanziari promossi dai due fratelli, e tra i numerosi creditori vennero ricordati anche Alessandro Spada e Camillo Flamini, direttori del Banco del quale i due nobili da tempo si servivano[38].

A garanzia della restituzione del denaro ricevuto in prestito, il 23 aprile dello stesso anno la ditta bancaria citata ottenne il pignoramento di trentatré quadri. I due fratelli Gavotti a questo punto:

Per evitare la  pubblicità della subasta  e reputando più vantaggioso per i  creditori evitare spese giudiziali  propongono alla ditta […] di cedere e trasferire in loro la proprietà dei quadri anzidetti nel senso cioè di cedere pro solvendo e non già pro soluto il prezzo che fosse per ritrarsi dai quadri da imputarsi in un luogo in acconto o saldo  […] e si accorda ampia facoltà ai signori Spada e Flamini di asportare detti quadri ove avessero creduto opportuno. E quindi a loro arbitrio di venderli al miglior prezzo possibile[39].

I dipinti, dunque, vennero consegnati:

Dal signor Augusto Petrucci ai signori Spada e Flamini in conformità ed esecuzione della cessione fatta dai fratelli Gavotti ai medesimi Spada e Flamini in data 6 maggio 1874 registrata li 7 detto in Roma vol. 34 n. 9055 con dichiarazione del signor Petrucci […] e con dichiarazione dei suddetti Spada e Flamini  che accettano i nomi degli autori dei quadri sotto  riserva per la verifica e con ulteriore dichiarazione di esonerare il signor Petrucci da ogni responsabilità rispetto al signor conte Antonio Spreca. Tutti li suddetti trentatre quadri sono stati numerati a numero progressivo sopra cartolina munita di due sigilli in cera lacca che qui si riportano. In fede Roma 9 maggio 1874. Fatto in doppio originale[40].

In tale elenco si trova registrata  la serie degli Apostoli.

Il destino dei quadri Cussida-Gavotti sembrerebbe segnato, ma si verifica un vero e proprio colpo di scena.

Infatti il 24 maggio del 1881 gli avvocati della ditta Spada Flamini, Luigi Alessandri e Giulio Paolucci, denunciarono per inadempienze i fratelli Gavotti al Tribunale Civile di Roma. Con sentenza del 1 agosto 1881 i due nobili furono condannati ad estinguere il debito di 1.375 lire nei confronti della Ditta.

Tuttavia il primo settembre del medesimo anno i legali dei Gavotti presentarono la loro controffensiva, dalla quale risultava che i signori Spada e Flamini, nonostante avessero ricevuto in consegna i famosi trentatré quadri della raccolta, con facoltà di venderli, avevano preferito tenerli per abbellire i loro uffici e, ad ulteriore garanzia, avevano ottenuto un pagamento anticipato, riscosso già dal I gennaio del 1875, offerto dall’onorevole Tommaso Edoardo Davis, suocero del marchese Angelo ed uno dei loro più importanti correntisti[41].

All’epoca della crisi, come risulta da un atto di notorietà, datato 19 gennaio 1874,  la famiglia Gavotti era composta dal quarantenne Angelo e da Girolamo di trentotto anni. Angelo si era sposato con Elisa Davis – sorella di Matilde, dal 1866 moglie di Antonio Lante – dalla quale aveva avuto Luigi, di nove anni, Fabrizio di otto, Elisabetta di tre e Virginia di due[42].

Angelo e Girolamo, evidentemente in segno di gratitudine nei confronti del generoso parente, Tommaso, concessero a quest’ultimo l’appartamento situato al primo piano del palazzo, con i dipinti ivi contenuti.

Nella Galleria si trovavano nove dei dodici apostoli dello Spagnoletto, mentre gli altri tre erano ubicati nella successiva anticamera, dove era esposta anche la Cattura di Cristo, descritta più esattamente come Cattura ed episodio di san Pietro che taglia l’orecchio a Malco[43]. Il Redentore ed un san Pietro del Ribera erano collocati nella stanza da letto della signora Anna Power, moglie di Tommaso.

Il 22 maggio del 1881 la Corte d’Appello, accogliendo il ricorso dei Gavotti, condannò Alessandro Spada a pagare la metà delle spese giudiziali e a restituire i dipinti ai legittimi proprietari, i quali, ingannati abilmente, avevano estinto il loro debito due volte[44].

Jusepe de Ribera, san Tommaso, Firenze, Fondazione Longhi.

A questo punto accade un altro fatto imprevedibile: verrebbe, infatti, spontaneo pensare che finalmente la famiglia, riappropriandosi dei quadri, li esponesse in maniera consona al loro valore. E invece, soltanto quattro anni dopo la sentenza le opere, ormai considerate meramente merce di scambio, vennero vincolate presso il duca di Fiano Marco Ottoboni Boncompagni, direttore della Cassa di Risparmio di Roma, come cauzione di un nuovo debito contratto, dunque lo stesso motivo che precedentemente le aveva rese protagoniste dell’imbroglio Spada-Flamini.

All’inizio di questa lista è precisato che i quadri appartenevano ai due fratelli Gavotti, che erano numerati a tergo e dotati dello stemma della famiglia in ceralacca. Il duca Ottoboni Boncompagni, inoltre, dichiarava di custodire tali opere nel suo appartamento.

In una lettera del 27 marzo del 1886, il marchese Angelo si rivolse con tono estremamente confidenziale all’amico Marco, pregandolo di trattenere ancora  i dipinti presso di sé, in quanto, al momento, non sapeva dove altro collocarli[45].

Ma evidentemente la situazione finanziaria dei Gavotti si era aggravata, tanto da costringere Angelo a redigere inventari da sottoporre a personaggi facoltosi in grado di acquistare.

Al duca di Fiano vennero proposti  ben quattordici quadri del valore di 180.500 lire ma cedibili al prezzo più favorevole di 160.000, se comprati tutti insieme. L’Apostolado, valutato complessivamente 28.000 lire e riconosciuto come dello Spagnoletto, e i Cinque Sensi, prezzati 15.000 lire,  ma questa volta assegnati a sorpresa a Pietro Paolo Rubens, erano presenti in un elenco di opere ancora in casa del marchese Angelo, che desiderava metterle sul mercato ad un costo inferiore rispetto al loro effettivo valore.

Nel 1916 Roberto Longhi comprò dal barone Gavotti sia la Cattura di Cristo con l’episodio di Malco di Baburen, sia cinque apostoli di Ribera.

Ma dopo aver ricostruito le vicende di alcune delle opere presenti negli inventari, e dei membri della famiglia che ne furono possessori, facendo un po’ di chiarezza su quello che la Terzaghi[46] definiva, giustamente, il complicatissimo albero genealogico del ramo romano dei Gavotti, i quali  mantennero sempre contatti  con quelli liguri, si possono avanzare alcune considerazioni di carattere più generale.

Nei documenti ciò che viene attribuito con certezza e costanza a Ribera sono un Filosofo e la serie dei dodici Apostoli più il Cristo Redentore[47]. La Cattura di Cristo con l’episodio di Malco viene considerata prima di scuola bolognese poi di ambito caravaggesco, ma mai relazionata al semisconosciuto, (parlo dei i secoli XVIII e XIX), Baburen.

Le dimensioni dei dipinti registrate negli inventari non coincidono con quelle attuali. Ma bisogna tener conto delle diverse modalità di trascrizione, molto dipendeva dalla grandezza del palmo della mano del perito estimatore, ma anche dal fatto che alcuni includevano le cornici, altri no. Inoltre non tutti si dimostravano scrupolosi e se i quadri erano appesi in alto, non venivano spostati, ma si procedeva “ad occhio”.

Come già rilevato per i Lante, occorre tener presente che ogni inventario rispondeva ad esigenze ben precise: i dipinti erano soggetti a mutazioni di valutazione e di attribuzione in relazione alla moda del tempo, che vedeva un artista più quotato di un altro, e di conseguenza alle intervenute necessità dei proprietari, soprattutto nel momento in cui l’opera d’arte diventava oggetto di scambio commerciale.

Gli esperti affaristi Gavotti dimostrarono di sapersi destreggiare alla perfezione tra banche, casse di risparmio e collezionisti per ricavare liquidi dal proprio patrimonio culturale.

Jusepe de Ribera, San Filippo, Fondazione Roberto Longhi

Dunque, i quadri che Pietro Cussida aveva  desiderato e collezionato con passione, che i Gavotti ereditarono ed utilizzarono per arredare le loro dimore[48] e che verranno sfruttati da due disonesti bancari, sempre per abbellire le sale dei loro uffici, ostentando una ricchezza che significava anche prestigio sociale, vennero, con il tempo, sviliti del loro significato più profondo ed impiegati come bene di mercato. Questo cambiamento di mentalità, che accomunò l’atteggiamento di molti nobili, costretti dalla crisi economica che investì tutta l’Italia a smembrare le loro collezioni, fu anche uno dei motivi per cui Roma e la nazione intera persero, purtroppo, quel ruolo di centro culturale che le avevano viste protagoniste per secoli. Una microstoria, quella dei Gavotti, che si inserisce perfettamente nella macrostoria[49].

Roberto Longhi, invece, con la sua scelta di acquistare le opere degli allora “snobbati” caravaggeschi, che proprio i suoi studi riporteranno alla ribalta, dimostra incredibilmente punti di tangenza con la personalità altrettanto audace di Pietro Cussida, che agli inizi del secolo XVII, si dimostra all’avanguardia proteggendo due artisti sconosciuti e alle prime armi  a Roma come lo spagnolo Ribera e l’olandese Dirck van Baburen.

Nella scelta di comprare dipinti in cui gli apostoli sono persone umili, povere, lavoratori dalle mani rugose e dalle menti semplici,  e un quadro in cui Pietro, il suo santo eponimo, è ritratto in un gesto che denota tutta la sua umana fragilità, succube dell’istinto, Cussida rivela un’intima spiritualità, aderente al messaggio evangelico proclamato da Gesù e ripreso con vigore da Paolo di Tarso nella nella seconda lettera ai Corinzi:

«Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (Cor. 12, 9-10).

E forse in un tempo come quello del Corona virus, in cui tutti ci siamo scoperti terribilmente fragili, il messaggio di Cussida, compreso da Longhi, si dimostra di grande attualità, caricandosi delle meravigliose sfumature della speranza.

Rita RANDOLFI   Roma 28 giugno 2020

Didascalie fotografiche:

  • van Baburen, Cattura di Cristo con episodio di Malco, Firenze, Fondazione Longhi.
  • de Ribera, san Paolo, Firenze, Fondazione Longhi.
  • de Ribera, san Tommaso, Firenze, Fondazione Longhi.

NOTE

[1] Per tutti i dettagli della vicenda si rinvia a R. Randolfi, Dai Cussida ai Gavotti a Roberto Longhi: storia “rocambolesca” di una quadreria di caravaggeschi. Ribera,  Baburen  ed altri, negli inventari dal XVII al XIX secolo, in E. Debenedetti (a cura di), Palazzi, chiese, arredi e scultura II, (Studi sul Settecento  Romano, 28), Roma 2012,  pp. 223-236; Ead., La Cattura di Cristo con San Pietro che recide l’orecchio di Malco di Dirk van Baburen: dagli inventari dei  Gavotti “romani” a  Roberto Longhi, in “Storia dell’Arte”, 137/138, nuova serie 37, 38, 2014, pp. 117- 122. Si veda anche A.  Revoallan, La collection romaine Cussida-Gavotti: hypothèses d’un goȗt hispano-ligurien pour la «Schola del Caravaggio», in  Bullettin de l’association des historians de l’art italiens, 18, 2012, pp. 51-60. Sui Gavotti liguri si rinvia a: A. Leonardi, Dipinti per i Gavotti. Da Reni a Lanfranco a Pietro da Cortona. Una collezione fra Roma, Savona e Genova,  Quaderni Franzoniani, Genova 2006; Idem, Feudi, ville, palazzi e quadrerie, committenze Costa, Gavotti e Siri tra Liguria e Roma nel Cinquecento e Seicento, Genova 2008.
[2] V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare italiana, Milano 1932, p. 382. Riguardo all’appartenenza al Sacro Ordine di Malta,  Silvagni sottolineava come alcuni Gavotti ne fossero ancora membri nel 1873. Cfr. D. Silvagni, La corte pontificia  … cit.,  II, p. 260.
[3] Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit., p. 179. Nel 1568 Bosco Gavotti  ospitò in casa sua nella città papalina Juan Enriquez de Herrera. M.C. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa, Roma 2007, pp. 44-45.
[4] M. Mombelli Castracane, La Confraternita di S. Giovanni Battista de’ Genovesi in Roma, Firenze 1971, p. 204, note 4 e 5; Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit., p. 179.
[5] Mombelli Castracane, La Confraternita di S. Giovanni Battista de’ Genovesi … cit., p. 207, nota 7; p. 208, nota 3; Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit.,  p. 179.
[6] Id. in Ivi  p. 8 affermava che la stessa attività fu svolta anche dall’abate Giovanni Carlo (1590-1667) e dal vescovo Lorenzo Cesare (ante 1617-1679).
[7] Lorenzo, il cui nome integrale è Giovanni Lorenzo, il 27 giugno del 1614, acquistò dalle sorelle Angelica e Margherita Laghi, la villa di Grottaferrata. Cfr. Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit.,  p. 54.
[8] Girolamo morì il 14 giugno del 1645 e la moglie, Aurelia, decise di intestare tutti i beni direttamente ai suoi figli. Cfr. Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR.), Miscellanea Famiglie, b. 82, fascicolo 9, parti 1, 2, 3.
[9] Grilli, Il committente della cappella della Pietà … cit., p. 163, nota 22. Maria Gavotti era figlia di Giovanni Lorenzo, e dunque sorella di Niccolò e di Carlo. Cfr.  Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit.,   p. 50. Le vicende dei Cussida si intrecciarono con quelle dei Gavotti per due motivi: le residenze degli uni e degli altri si trovavano nella stessa zona, inoltre Ambrogio Pozzobonelli, socio di Lorenzo Gavotti,  era stato cassiere del banco Herrera e fu esplicitamente menzionato dal Bricci tra gli invitati al matrimonio tra Laura Costa e Pietro Herrera celebrato nel 1615. Ambrogio, inoltre, era sposato con Livia Pavese, sorella di Laura, moglie di Lorenzo Gavotti. Quest’ultima presenziò alle nozze Costa Herrera insieme alla figlia Lavinia, cfr. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci … cit.,   pp. 42-45.
[10] C. Grilli, Il committente della cappella della Pietà in San Pietro in Montorio,  in “Bollettino d’arte”,  84-85, 1994,  p. 163, nota 22..
[11] C. Grilli, David de Haen pittore olandese a Roma, in “Paragone”, 563, 1997, p. 42.
[12] ASR, Notai Auditor Camerae,  Nicola Fecchia, vol. 2727, 12 luglio 1674.
[13] Leonardi,  Dipinti per i Gavotti … cit.,  pp. 42-43, 281; Id., Feudi, ville … cit., pp.  109-110.
[14] Leonardi,  Dipinti per i Gavotti cit.  pp. 50-52, 281-286. Lo studioso evidenziava come tra i firmatari delle lettere di cambio erano menzionati Antonio Barberini junior, Alessandro Colonna ed il cardinale Bonaccorsi, a ricomporre un ritratto delle attività bancarie del Gavotti che aveva anche stretto società con gli Herrera, i Sauli ed i Costa.
[15] Revoallan, cit.  nota 12 p. 58.
[16] Cfr. A. Roca de Amicis, C. Varagnoli, Cappella Gavotti in San Nicola da Tolentino,  in S. Benedetti, A. Roca de Amicis (a cura di), Pietro da Cortona. Piccole e grandi architetture. Modelli, rilievi, celebrazioni, Roma 2006, pp. 132-153; J.M. Mertz, Pietro da Cortona and Roman Baroque Architecture, New Haven and London 2008, pp. 217-222;  J. Curzietti, Cosimo Fancelli, Ercole Ferrata, Andrea Fucigna e Antonio Raggi. La decorazione scultorea della cappella Gavotti in S. Nicola da Tolentino a Roma, in “Studi di Storia dell’Arte”, 21, 2010, pp. 199-210, con bibl. prec. Cfr. ASR., Miscellanea Famiglie b. 82, fascicolo 25. La notizia si desume dal testamento di Giovanni Battista Gavotti del 3 gennaio 1659.  Angelo Domenico era figlio di  Agostino e Giustina Ricci.  Agostino era, a sua volta, figlio di Giovanni Angelo, fratello di Lorenzo, Niccolò e Carlo.
[17] G. De Marchi, Mostre di quadri a S. Salvatore in Lauro (1682-1725). Stime di collezioni Romane. Note e Appunti di Giuseppe Ghezzi, in “Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, XXVII, 1987 (numero intero), pp. 26, 31, nota 12.
[18] Id. in Ivi, p. 33.
[19] Ibidem, p. 118.
[20] Ibid., p. 148, nota 124.
[21] Ibid., p. 161.
[22] De Marchi, Mostre di quadri … cit.,  p. 31, nota 12, p. 339, nota 1. Il duello era stato scatenato da un futile motivo, una precedenza negata su una strada nei pressi di Trinità dei Monti da parte del Gavotti nei confronti del figlio del marchese Santacroce.
[23] ASR, Notai Auditor Camerae, Marco Giuseppe Palosi,  ufficio 8,  vol. 5645, 23 dicembre 1703, cc. 333 e sgg.
[24] ASR, Miscellanea Famiglie, b. 82. Cfr. S. Brevaglieri, Palazzo Verospi al Corso, Milano 2001, pp. 25, 164.
[25] ASR, Archivio Lante, b. 193, Relazione  della commissione incaricata  della revisione dello stato attivo e passivo del Patrimonio Gavotti e progetto di sistemazione, 29 marzo 1874.
[26] Il banco Spada Flamini apparteneva, in origine, al principe Torlonia.
[27] ASR, Archivio Lante, b. 193, Relazione a stampa della commissione incaricata  della revisione dello stato attivo e passivo del Patrimonio Gavotti e progetto di sistemazione, 29 marzo 1874,  p. 38 Allegato F Quadri. Perizia fatta negli anni 1838-40 da Nicola Sessi e Giuseppe Prampolini.
[28] ASR., Trenta Notai Capitolini, Vittore Valentini, ufficio 4,  10 gennaio 1849. L’inventario dei dipinti inizia in data 8 marzo.
[29] Nel fidecommesso rientravano soltanto le case di via delle Muratte n.  78 e di via Condotti n. 48. Cfr., ASR., Archivio Lante, b. 193.
[30] Papi, Apostolado Cosida … cit., p. 106, figg. 57, 58, a p. 107.
[31] Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit.,   pp. 293-317, in particolare, p. 311, numeri 9-12. Agostino Maria era  figlio di Giovanni Angelo Gavotti, aveva sposato Giovanna Pavese, da cui aveva avuto Giulio Deodato Maria, committente dell’inventario del padre. Cfr. Papi, Apostolado Cosida … cit., p. 109.
[32] Ibidem, n. 55, p. 312.
[33] Ibid., nn. 44, 45, p. 312.
[34] Ibid., nn. 58, 59, p. 312.
[35] Ibid., n. 66, p. 314.
[36] ASR, Archivio Lante, b. 194, carta sciolta. La notizia riveste un certo interesse in quanto testimonia anche di un restauro ottocentesco subito dal quadro.
[37] Ibidem.
[38] ASR, Archivio Lante, b. 193, fascicolo “Cause”.
[39] Ivi, b. 194, fascicolo “Spada-Flamini”. Agostino Petrucci era l’amministratore del patrimonio Gavotti.
[40] Ivi, b. 194, fascicolo “Consegne”.
[41] Ivi, b. 193, fascicolo “Cause”.
[42] Ibidem; Randolfi, Palazzo Lante in piazza dei Caprettari, Roma 2010, p. 222.
[43] ASR, Archivio Lante, b. 194, fascicolo “America”. La White, in R. Vodret (a cura di), Roma al tempo di Caravaggio … cit., p. 129, giustamente sottolineava come il committente del quadro fosse Pietro Cussida e questo giustifica la presenza del santo nel dipinto e la sua menzione negli inventari del Seicento come il vero protagonista dell’opera.
[44] ASR, Archivio Lante, b. 193, fascicolo “Cause”.
[45] Ibidem. Il duca aveva anche ottenuto dai Gavotti un canone sui territori di Telissano e Nepi.
[46] Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci … cit.,  pp. 42-45.
[47] Riguardo al problema dell’identificazione della serie e degli attributi iconografici degli Apostoli si rinvia a: Gallo, Il Maestro del Giudizio di Salomone … cit.,  pp. 483-487; Papi, Apostolado Cosida … cit., pp. 104-108.
[48] Occorre precisare che i Gavotti del Seicento erano già collezionisti di quadri caravaggeschi, come dimostra la raccolta savonese di Giovanni Carlo, dove erano presenti dipinti creduti di Manfredi e di Borgianni, quest’ultimo in contatto con la committenza spagnola e autore  della  grande pala con la Nascita della Vergine, per il santuario di Nostra Signora della Misericordia  di Savona, commissionata, per l’appunto, dagli stessi  Gavotti. Si veda: Leonardi, Dipinti per i Gavotti … cit.,  pp.  46, 90-93, 246-251, 378-379; M. Gallo, Orazio Borgianni (Roma 1574-1616) in A. Zuccari, (a cura di), I Caravaggeschi. Percorsi e protagonisti,   p. 341, con bibl. prec.
[49] R. Randolfi, Tintoretto tra arte e mercato, la strana vicenda del “bozzetto” del Paradiso https://www.aboutartonline.com/tintoretto-tra-arte-e-mercato-la-strana-vicenda-del-bozzetto-del-paradiso/ 10 maggio 2020;