di Claudio LISTANTI
Lo scorso 20 novembre ha preso il via la Stagione Lirica 2021-2022 del Teatro dell’Opera di Roma con una inusuale serata inaugurale affidata ad una prima esecuzione assoluta, quella di Julius Caesar del compositore contemporaneo Giorgio Battistelli.
L’opera, appositamente commissionata dal teatro lirico romano, è basata su un libretto di Ian Burton ed stata affidata alla conduzione teatrale di uno dei registi e interpreti teatrali più in vista di oggi, Robert Carsen, ed alla direzione musicale di Daniele Gatti.
Prima di iniziare la disamina di quanto visto ed ascoltato vogliamo mettere in evidenza, con forza, la scelta coraggiosa del Teatro dell’Opera che ha deciso di affidare il momento più importante di una stagione lirica non ad un’opera del grande repertorio, come avviene spesso, ma ad una novità, quasi a voler dare a questo genere di spettacolo la necessaria continuità valorizzando il presente ed utilizzarlo come strumento per proiettare questa forma di arte musicale verso il futuro.
Nel corso della storia di poco meno di un secolo e mezzo, il Teatro Costanzi/Teatro dell’Opera non aveva mai inaugurato la stagione con un’opera contemporanea ad esclusione del 1901 quanto aprì con Le Maschere di Pietro Mascagni che, però, in quella occasione era al centro di una iniziativa che vide il lavoro del compositore livornese rappresentato, contemporaneamente, in altri cinque teatri oltre a quello romano.
La decisione di commissionare una nuova opera è nata, tra la dirigenza del Teatro dell’Opera, circa quattro anni fa quando, come riportato nel ricco ed esauriente programma di sala che ha accompagnato questa rappresentazione, emerse la necessità di una produzione che fosse espressamente dedicata a Roma ed alla sua più che bimillenaria storia. Fu scelto come argomento la vicenda della morte di Giulio Cesare, uno dei momenti più drammatici e significativi della storia di Roma, punto di passaggio fra il periodo repubblicano e quello imperiale che portò la città ad essere, per secoli, la dominatrice del mondo allora conosciuto. La decisione di affidare la composizione a Giorgio Battistelli è stata del tutto appropriata soprattutto perché il musicista, negli anni, ha prodotto diversi lavori per il teatro d’opera ottenendo costantemente consensi e successi.
Per la completa realizzazione dello spettacolo sono stati scelti due artisti che hanno collaborato insieme a Battistelli per altre occasioni, lo scrittore e drammaturgo Ian Burton per la stesura del libretto e il regista Robert Carsen per la conduzione di tutta la parte visiva. Di concerto hanno scelto di basare questa nuova opera sulla tragedia di Shakespeare Julius Caesar, seconda tappa di un ambizioso progetto finalizzato alla messa in scena di tre drammi di Shakespeare. La prima, nel 2007, con Riccardo III, quest’anno con Giulio Cesare e, per il futuro, un’ opera poco conosciuta del Bardo, Pericle. Hanno creato, così, una sorta di ‘trilogia’ costituita da drammi particolarmente rappresentativi di tre fasi della produzione teatrale shakesperiana, rispettivamente la prima, quella cosiddetta centrale e quella tarda.
Nello scrivere Julius Caesar, Shakespeare si basò su fatti storici che caratterizzarono gli anni a cavallo della morte di Cesare partendo dall’apice della gloria e della fama con l’uccisione da parte dei congiurati che ne assume la parte centrale per svilupparsi negli anni successivi che videro l’avvio della guerra civile e la nascita dell’impero. Le Vite di Plutarco furono la fonte principale per Shakespeare soprattutto per giungere a quella verità storica necessaria all’esposizione dei fatti.
Il libretto di Ian Burton mette in evidenza l’essenza della tragedia, utilizzando un procedimento messo in atto anche da altri musicisti che si sono ispirati ad opere del drammaturgo inglese, una scelta obbligata per mettere in relazione due diverse forme di spettacolo. Burton, infatti, ha provveduto ad una ‘semplificazione’ del libretto riducendo notevolmente il numero dei personaggi previsti nella tragedia di Shakespeare per puntare tutto sul significato politico degli avvenimenti che vede nell’episodio dell’uccisione di Cesare una rivoluzione ‘mancata’, un evento storico che ha trasformato la forma di governo della città per giungere ad una dominazione più completa da parte di chi gestisce il potere.
Dei personaggi femminili è rimasto solo Calpurnia con i suoi presentimenti circa l’incolumità del marito Cesare che però non ottengono il risultato previsto mentre l’altro importante ruolo femminile, Porzia, moglie di Bruto, è stato eliminato; una scelta dolorosa, come lo stesso Burton ha dichiarato nelle note esplicative contenute nel programma di sala, ma evidentemente necessaria per la semplificazione attuata.
Nel libretto, invece, la parte destinata al coro assume un ruolo rilevante, necessario per sottolineare diverse scene d’insieme come quella iniziale che descrive il ritorno trionfante di Cesare dopo la vittoria, così come la parte finale che, come nell’originale shakesperiano, si volge a Filippi e vede la sconfitta delle forze repubblicane di Bruto e Cassio e il trionfo del triunvirato di Antonio, Ottaviano e Lepido. Risulta però ampliato il ruolo del fantasma di Cesare che dona al personaggio una maggiore centralità conseguente al compimento della vendetta del condottiero verso gli autori della congiura ma che risulta, forse, un po’ stridente con il fatto che lo spettro di Cesare diviene, in un certo senso, parte attiva del suicidio di Bruto e Cassio.
La partitura concepita di Giorgio Battistelli è risultata del tutto funzionale a questa impostazione teatrale. Innanzi tutto ci ha colpito molto la parte vocale, realizzata come un continuo recitativo che aveva le caratteristiche di un moderno ‘recitar cantando’ quasi del tutto privo di melodia per una linea vocale interamente dedicata alla comprensione del testo, piacevolmente libera dagli estremi atletismi vocali che, spesso, contraddistinguono le produzioni contemporanee a scapito della comprensione del testo cantato che qui, invece, è risultato piuttosto comprensibile anche se l’originale inglese adottato risulta ostico per molti spettatori italiani.
Un modo di cantare che in principio ha dato un senso di monotonia che svaniva con il procedere dell’azione divenendo sempre più incisivo, avvincente e coinvolgente per l’ascoltatore, raggiungendo grande spessore drammatico in un momento cardine della tragedia, l’orazione funebre di Antonio al funerale di Cesare. Molto incisivi musicalmente gli interventi del coro che a tutti gli effetti è uno dei protagonisti dell’opera, che consente allo spettacolo di prendere progressivamente quota. Questo grazie anche ad una orchestrazione di primo piano, ricca di suoni e di colori, che ha sottolineato con efficacia tutto lo svolgimento della trama, imprimendo solennità ai momenti fondamentali dello svolgimento del dramma come l’uccisione di Cesare e tutto il coinvolgente finale.
Nella parte orchestrale sono evidenti all’ascolto alcuni richiami al ‘900 musicale, in special modo l’espressionismo e Stravinskji così come alcune reminiscenze verdiane e pucciniane grazie ad una orchestra composta oltre che dagli archi e da una nutrita presenza degli legni e degli ottoni anche di una cospicua quantità di percussioni la cui numerosità ha costretto i realizzatori dello spettacolo a collocare tutti gli strumenti percussivi all’interno di sei palchi, tre a destra e tre a sinistra, in corrispondenza con la platea.
Per quanto riguarda la messa in scena Robert Carsen ha concepito una ambientazione diversa da quella contenuta nel libretto di Burton che prevede lo svolgimento del dramma nella Roma di Cesare. Una operazione quasi usuale nel teatro d’opera di oggi che ormai non fa nemmeno più notizia. Il regista canadese, in questa occasione stabilisce, forse, una sorta di primato, quello di cambiare ambientazione già dal giorno della prima assoluta. Intendiamoci però, l’operazione è comunque risultata valida perché nel Dna delle tragedie di Shakespeare c’è sicuramente l’universalità del dramma rappresentato, il cui spirito va al di là delle peculiarità dell’epoca in cui è ambientata la storia e delle caratteristiche di quel tempo. Per questa occasione Carsen ha scelto come sfondo la Roma di oggi, non semplicemente come città, ma come simbolo e paradigma del mondo e della politica italiana che, poi, può essere un modello nel quale si può riconoscere quanto avviene nel resto del mondo in termini di smania per il potere e della sopraffazione degli avversari e oppositori, rendendo così un chiaro omaggio a quella universalità della quale abbiamo parlato prima.
L’impianto scenico è risultato nel complesso piuttosto semplice; dominante era la raffigurazione dell’aula che ricorda il nostro parlamento e alcune scene che si svolgevano nell’appartamento privato di Cesare mentre nel finale sono evocati i campi di battaglia dove si svolge l’epilogo della tragedia. Costumi ed elementi scenici erano completamente attuali. Diversi i cambi a vista che con rapidità riuscivano a mutare la cornice scenica che conteneva i movimenti i registici, tutti molto curati nell’insieme, che accompagnavano con efficacia il progredire dell’azione. Per quest’ultima parte c’è da ricordare il contributo determinante di Radu Boruzescu per le scene, di Luis F. Carvalho per costumi e di Peter Van Praet per le luci, il tutto realizzato in piena sintonia con lo Robert Carsen.
Lo spettacolo ha mostrato senza ombra di dubbio la piena affinità di vedute tra i tre principali artefici della sua realizzazione, Burton, Carsen e Battistelli, tre artisti che hanno consolidato la loro fruttuosa collaborazione di lungo periodo, una reciproca conoscenza dello stile e delle qualità artistiche di ognuno, dimostrando una intesa che ci sembra molto ben evidente.
Per quanto riguarda la compagnia di canto possiamo dire che è risultata, nell’insieme, del tutto omogena, considerando soprattutto che la parte vocale, anche se quantitativamente differente per ognuno dei personaggi, presentava comunque delle caratteristiche e delle difficoltà comuni a tutti i personaggi. Composta da 13 cantanti alcuni dei quali con doppia parte. Diversi suoi componenti hanno ottenuto veri e propri successi personali a partire da Clive Bayley come Julius Caesar, Ruxandra Donose come Calpurnia, Dominic Sedgwick come Antony e Elliot Madore come Brutus, soprattutto per l’importanza di ognuno di questi personaggi nell’ambito dell’azione.
Il resto della compagnia è stata comunque apprezzabile e formata da: Julian Hubbard Cassius, Michael J. Scott Casca, Hugo Hymas Lucius, Alexander Sprague Octavius, Christopher Lemmings Marullus e Cinna, Christopher Gillett Indovino e I Plebeo, Allen Boxer Flavius, Metellus e II Plebeo, Scott Wilde Decius e III Plebeo e Alessio Verna Servo di Cesare, Titinius e IV Plebeo.
Una menzione speciale per il Coro del Teatro dell’Opera diretto da Roberto Gabbiani che ha realizzato la difficile parte corale con personalità e professionalità abbinando alla parte vocale anche una efficace parte recitata.
L’esecuzione è risultata nel complesso pregevole grazie alla bacchetta di Daniele Gatti che ha guidato l’Orchestra del Teatro dell’Opera che, ancora una volta, ha messo in mostra le indiscusse qualità individuali di ogni singolo strumentista. É stata questa l’ultima opera diretta qui all’Opera da Daniele Gatti, giunto al termine del suo mandato di Direttore Musicale durato tre anni. Un periodo caratterizzato da pregevoli interpretazioni che hanno reso questo lasso di tempo particolarmente felice per gli appassionati anche se caratterizzato dalle oggettive difficoltà introdotte dalla pandemia che hanno penalizzato severamente una forma di spettacolo come questa impedendo così a Gatti di esprimere appieno le sue potenzialità di esecutore.
La recita alla quale abbiamo assistito (27 novembre) è stata applaudita a lungo al termine, dimostrazione di un confortante gradimento da parte del pubblico che ha mostrato (per noi) un inaspettato interesse per una produzione contemporanea ed un incondizionato apprezzamento per tutti gli esecutori. Un comportamento che ci fa sperare che questa opera non cada, poi, nel dimenticatoio come molte produzioni contemporanee, anche valide, come è senza dubbio questa e che siano davvero maturi i tempi per uno sviluppo futuro, moderno, del teatro d’opera che è uno dei vanti della nostra cultura nazionale
Claudio LISTANTI Roma 5 dicembre 2021