Jim Dine fuori dagli schemi; al Palaexpo, forme e linguaggi dell’ artista ‘più contermporaneo’ di oggi (fino al 2 giugno)

di Giulio de Martino

Sogni e incubi dell’America. Jim Dine al PALAEXPO

Una complessa e ricca mostra antologica di opere di Jim Dine (1935, Cincinnati, Ohio) – dal 1959 alle più recenti – attende gli appassionati della migliore arte contemporanea. Si vedono al Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 2 giugno 2020.

Merita attenzione il pensiero artistico di Jim Dine.

La sua radice «biografica» è illuminata dalla confessione:

«I cannot paint about nothing. I cannot make work about nothing. I would be lost if all I had was an empty room»

che  possiamo interpretare come l’ammissione che l’arte non nasce dal «vuoto» o dal «nulla», ma che c’è sempre qualcosa che preesiste all’intervento creativo dell’artista. Questo qualcosa può essere sia la storia dell’arte del passato (lo mostra l’interesse ripetuto di Dine per la «Venere di Milo» del Louvre o per altri capolavori dell’arte classica) sia, più umilmente, può essere il laboratorio e il lavoro di un artigiano, di un carpentiere o di un sarto. Ciò che segna la differenza tra il «lavoro» comunemente e utilitaristicamente inteso e il «lavoro paradossale» dell’artista è la sua libertà e anarchia mentale: la capacità di creare forme e linguaggi che eccedono il reale e il «valore d’uso» degli oggetti che si trasformano in segni e in simboli.

Nonostante la sua grande popolarità, Jim Dine è un artista di difficile classificazione.

Ciò deriva dal suo sistematico rifiuto di inquadrarsi nella fila di questo o di quel movimento: dall’Action Painting alla Pop Art, dall’Arte povera al Nouveau Realisme, al graffitismo. Anche se appaiono costanti i suoi attraversamenti dei mondi artistici di Pollock e di Arman, di Ensor e di Beuys, di Basquiat e di Kounellis, Jim Dine ha connotato la sua produzione artistica di un’intenzionalità fortemente personale e di una singolare volontà di comunicazione. Da artista del secondo Novecento è stato onnivoro, ma ha anche mostrato una capacità di taglio e di ambientamento delle opere che lo hanno reso un attraversatore libero e creativo della società.

Il nucleo importante della mostra al Palexpo è costituito dalle opere che Dine ha donato nel 2017 al “Musée national d’art moderne – Centre George Pompidou” di Parigi e che il direttore Bernard Blistène ha offerto per quest’occasione. Altre opere provengono dal Museo di Ca’ Pesaro di Venezia, dal MART di Trento e Rovereto, dal “Louisiana Museum of Modern Art” di Humlebaek in Danimarca e dal “Kunstmuseum Liechtenstein” di Vaduz. Filologicamente e culturalmente interessante è il materiale che proviene dagli Stati Uniti: abbiamo due famosi dipinti degli anni Sessanta A Black Shovel. Number 2 (1962)

e Long Island Landscape (1963), del Whitney Museum di New York, e Shoe del 1961 e The Studio (Landscape Painting) del 1963, che segnalano la presenza dell’artista alla decisiva Biennale di Venezia del 1964. Ma abbiamo anche materiale inedito – fotografico, filmato, sonoro e documentario – che rievoca le sue più remote esperienze in campi artistici diversi (anche nel teatro, nello happening e nella performance).

La mostra è stata impaginata dalla curatrice Daniela Lancioni in chiave cronologica e antologica, ma senza alcuna rigidità storicistica o interpretativa: piuttosto con la vivace intenzione di lasciare che fossero le opere stesse ad appropriarsi degli ampi spazi al piano terra del museo e a invitare gli spettatori a guardarle e a interrogarle.

Si comincia con gli inquietanti ritratti o autoritratti del 1959: teste multicolori e prive di corpo (Head). Si passa poi a opere in cui la pittura è contaminata con la materialità dei suoi stessi mezzi espressivi (tele, pennelli, colori), fino all’intrusione sulle tele di oggetti ad esse estranei con effetti di tridimensionalità di tipo scultoreo. Dine giunge a produrre vere e proprie installazioni in metallo o polimateriche con oggetti di uso comune (scarpe, vestiti, mobili, stoviglie) che si dispongono accanto e a ridosso delle tele.

 

Da un lato Dine sembra voler abbandonare la pittura – come con i «Cuori» realizzati con la paglia o con i montaggi ipercomplessi di tubi, fili, assi, gadget – da un altro sembra voler far ritorno nel bordo del quadro sia pure con intenzioni post-rappresentative. Si vedano al proposito – oltre alla serie dei «cuori» che sono immersi in sfondi e in misture cromatiche inconsuete e spiazzanti – le raffigurazioni di personaggi della pubblicità o dei fumetti che vengono mostrificati e deformati attraverso un disegno e un cromatismo allucinatori.

Il salone centrale e la grande sala in fondo sono dedicati alle sculture polimateriche e in legno di Jim Dine. Da un lato queste ultime rivelano il retaggio totemico del legno dipinto, da un altro riproducono la «Venere di Milo» trafitta da scuri, punteruoli, seghe e martelli o, addirittura, bruciata e combusta al limite dell’irriconoscibilità.

Ampio spazio è, in fine, dedicato alle raffigurazioni in legno dipinto di «Pinocchio». Abbiamo qui non soltanto l’animazione dell’inanimato, la concettualizzazione della materia, ma anche variazioni sul tema della libertà e del dolore, della rivolta e della persecuzione, in cui la raffigurazione del ragazzino ribelle e fuggiasco riproduce il personaggio di Collodi, ma ci ricorda Huckleberry Finn.

Giulio de MARTINO   Roma  16 febbraio 2020

JIM DINE

Palazzo delle Esposizioni – via Nazionale 194, Roma

a cura di Daniela Lancioni

Mostra promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale e da Azienda Speciale Palaexpo. Catalogo Quodlibet. 11 febbraio – 2 giugno 2020