di Francesco PETRUCCI
In memoria di Erich Schleier
Ho appreso la triste notizia della improvvisa scomparsa di Erich Schleier (Amburgo, 8 luglio 1934 – Berlino, 7 dicembre 2023) la mattina del 31 gennaio 2023 dall’amico Peter Glidewell, che a sua volta l’aveva avuta da conoscenti tedeschi.
Per un disegno imperscrutabile del destino, che anche altre volte replica situazioni analoghe, il luttuoso evento è avvenuto a soli quattro giorni dalla morte della moglie, alla quale Erich era molto unito, la famosa storica dell’arte americana Mary Newcome (28 gennaio 1936 – Berlino, 3 dicembre 2023).
Una grave perdita per la storia dell’arte italiana, dato il rilevante contributo che i due studiosi hanno fornito, soprattutto per la conoscenza della pittura romana (Erich) e genovese (Mary) del secolo XVII.
Si può affermare, senza tema di smentita, che Schleier, dotato di un occhio infallibile, sia stato per decenni il massimo conoscitore della pittura del ‘600 romano, tanto che la sua opinione risultava imprescindibile per istituzioni museali, collezionisti, case d’asta e antiquari.
Indubbiamente era uno degli ultimi grandi conoscitori, in considerazione della tendenza, ormai in voga da molti anni, alla desertificazione identificativa, dato il virare degli interessi accademici verso l’archivistica, l’iconografia, l’iconologia, l’erudizione bibliografica, discipline un tempo sussidiarie della storia dell’arte. Se non si sa collocare un’opera nel contesto storico e culturale che l’ha prodotta, il che avviene solo tramite l’esame stilistico e formale, tutto diventa sterile e fuorviante divagazione.
Per quanto mi riguarda, ho conosciuto Schleier attorno al 1990, grazie all’amicizia con Maurizio Fagiolo dell’Arco, che lo apprezzava molto per il maniacale scandaglio filologico indirizzato alla individuazione degli aspetti formali delle opere d’arte (restammo stupiti quando, entrato alle 10,00 di mattina alla mostra su Baciccio, inaugurata a Palazzo Chigi in Ariccia nel dicembre 1999, ne uscì alle 18,30 in chiusura).
Per molti anni, quando avevo qualche dubbio attributivo, mi sono consultato con lui, sempre generoso e puntuale nei giudizi, collaborativo e umile nell’approccio.
Ha partecipato a nostre iniziative, schedando alcuni dipinti esposti a mostre tenute presso Palazzo Chigi, mentre nel 2009 ha presentato qui il terzo fascicolo della collana “Quaderni del Barocco”, promossa in collaborazione con il compianto Ferdinando Peretti, fornendo uno studio su Giuseppe Bartolomeo Chiari che ad oggi costituisce il contributo più completo sul pittore.
Credo che il suo ultimo scritto sia stato l’ottimo saggio su Girolamo Troppa disegnatore nella monografia pubblicata a mia cura alla fine del 2021, edita da Ediart di Marcello Castrichini, suo caro amico. Ha fatto peraltro parte fino a ieri del comitato scientifico della rivista “Studi di Storia dell’Arte”, curata esemplarmente da Castrichini, ove sono confluiti numerosi suoi articoli.
Per quanto a mia conoscenza, posso testimoniare che è stato sempre generoso e prodigo di consigli con giovani studiosi, intrattenendo rapporti epistolari con molti valenti storici dell’arte di nuova generazione, come Giuseppe Porzio, Valeria Di Giuseppe Di Paolo, Massimo Francucci, Francesco Gatta e tanti altri.
Erich Schleier, dopo aver studiato storia dell’arte e archeologia alle università di Amburgo, Friburgo e Monaco di Baviera, si era laureato con una tesi su Giovanni Lanfranco, pittore cui ha dedicato innumerevoli studi, senza tuttavia approdare, prima per i suoi numerosi impegni e una mania di perfezionismo, poi per stanchezza, ad una monografia.
Credo che nel proprio intimo sia stato il maggior rammarico della sua vita di studioso, se nell’introduzione al catalogo dei disegni dell’artista del 1983 parlava di “monografia generale sul Lanfranco che spero di portare presto a termine”.
Rimangono in tal senso fondamentali i cataloghi delle impeccabili mostre da lui curate: Disegni di Giovanni Lanfranco (1582-1647), Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (1983); Giovanni Lanfranco. Un pittore barocco tra Parma, Roma e Napoli, nelle sedi di Parma, Napoli e Roma (2001); Dello stile naturale. Die Zeichnungen des Giovanni Lanfranco, con i disegni del Museum Kunst Palast di Düsseldorf (2006).
Stimato curatore per quasi trent’anni, dal 1971 al 1999, della pittura italiana della Gemäldegalerie di Berlino, si è occupato con profitto di pittura romana, emiliana, napoletana e veneziana.
Non a caso solo lui, per l’eclettismo che spaziava tra diverse scuole pittoriche, poteva curare, assieme a Mina Gregori, i due fondamentali volumi La Pittura in Italia. Il Seicento, editi da Electa nel 1988 e in seconda edizione nel 1989.
Per la pittura napoletana partecipò con un saggio al catalogo della mostra Paintings in Naples from Caravaggio to Giordano, tenuta nel 1982 presso la Royal Academy of Arts a Londra, evento che contribuì a far apprezzare internazionalmente quella scuola, e nel 1984 alla monumentale mostra Civiltà del Seicento a Napoli, chiamato da Raffaello Causa (“il quale mi ha sempre agevolato nello studio dei disegni lanfranchiani a Napoli”, scriveva nel 1983), a far parte del comitato scientifico e della gruppo di catalogazione.
Fu coinvolto nel 1999 anche da Nicola Spinosa nel comitato scientifico della mostra tenuta al Museo di Capodimonte, Mattia Preti tra Roma, Napoli e Malta.
In effetti ha scritto vari articoli in riviste scientifiche su pittori napoletani, come Francesco Guarino, Luca Giordano, Paolo de Matteis, Andrea e Nicola Vaccaro.
In ragione dei suoi meriti, compresi naturalmente gli studi fondamentali sul Lanfranco napoletano, il 28 giugno 2000 ha ricevuto dalla Seconda Università degli Studi di Napoli il conferimento della laurea honoris causa in conservazione del patrimonio (Vedi in proposito la nota della Preside della Facoltà di Lettere Prof.ssa Rosanna Cioffi e il saggio di Riccardo Lattuada che fu promotore dell’evento).
Per la pittura emiliana prese parte ai cataloghi delle mostre L’età di Correggio e dei Carracci, nelle sedi di Bologna, Washington e New York (1986-87), e Guido Reni tenuta a Bologna (1988), mentre ha curato con Sybille Ebert-Schifferer e Andrea Emiliani la mostra di Francoforte Guido Reni und Europa. Ruhm und Nachruhm (1988).
Ha pubblicato contributi innovativi, tra pittura e disegno, su Annibale e Ludovico Carracci, Bartolomeo Passerotti, Sisto Badalocchio, Innocenzo Tacconi, Antonio Carracci, Emilio Savonanzi, Guido Cagnacci, Domenichino, Carlo Bononi, aggiungendo nuove opere ai loro cataloghi.
Ma è stato soprattutto nell’ambito della pittura romana del Seicento che Schleier ha fornito i più rilevanti apporti, scrivendo, nei volumi da lui curati con Mina Gregori nel 1988-89, il monumentale saggio, ancora insuperato, La pittura a Roma nel Seicento.
Ha preso parte a comitati scientifici di varie mostre, come Pietro da Cortona (1997), a cura di Anna Lo Bianco, e Roma nell’età di Bellori, a cura di Evelina Borea (2000).
La perlustrazione a tappeto del territorio romano e laziale, avviata sin dagli anni ‘50, gli ha consentito di acquisire vaste conoscenze e approdare a una catalogazione di opere sconosciute e mai studiate.
Si è occupato di artisti come Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, il Cavalier d’Arpino, François Perrier, Alessandro Turchi detto l’Orbetto, Francesco Cozza, ma, nella molteplicità di interessi che lo caratterizzava, ha toccato anche il caravaggismo, non solo partecipando al catalogo della mostra The Age of Caravaggio, tra New York e Napoli (1985), ma scrivendo su Antiveduto Grammatica, Orazio Gentileschi, Giovanni Baglione, Simon Vouet e altri.
Fondamentali i suoi apporti alla pittura barocca romana, che lo hanno portato, da grande conoscitore quale era, a riscoprire artisti praticamente dimenticati, come Giuseppe Puglia detto il Bastaro – ha redatto nel 2014 anche la presentazione della monografia sul pittore di Massimo Francucci -, Giovanni Maria Morandi, Giovan Battista Pace, Giovan Battista Boncori.
Ha ricostruito quasi dal nulla in numerosi articoli il catalogo da quadreria di Girolamo Troppa, pittore e disegnatore, partecipando nel 2016 a una mostra di suoi disegni tenuta a Colonia e scrivendo un saggio sulla grafica nella monografia del 2021.
Ha ampliato i cataloghi, con illuminanti aperture estese anche al disegno, di Pietro da Cortona, Charles Mellin, Gaspard Dughet, Antonio Gherardi, Johann Heinrich Schönfeld, Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Luigi Garzi, Daniel Seiter.
Innovativi i suoi contributi del 1972-73 su Guglielmo Cortese detto il Borgognone, lavorando anche in collaborazione con Dieter Graf per i disegni.
Tra gli artisti più amati Pier Francesco Mola, di cui è stato massimo conoscitore, attribuendogli varie opere, a partire dagli affreschi giovanili del chiostro di Santa Maria della Quercia presso Viterbo, scrivendo l’ottimo saggio Pier Francesco Mola e la pittura a Roma, nel catalogo della mostra Pier Francesco Mola 1612 – 1666, tra Lugano e Roma (1989).
Ha toccato anche il Settecento romano, con novità su Pier Leone Ghezzi, Giuseppe Bartolomeo Chiari, Sebastiano Conca, Gian Domenico Piastrini, ma soprattutto sul pittore polacco Taddeo Kuntze, un maestro dimenticato, ritrovando numerose sue opere sconosciute sparse per il Lazio.
Erich Schleier era un grande conoscitore e la pratica del riconoscimento, basata su un esercizio mnemonico e classificatorio che lo entusiasmava, era la sua specialità, come lo era stato per maestri dell’occhio indagatore quali Giuliano Briganti e Federico Zeri.
La sua scrittura, ove adottava un lessico e un periodare asciutto ed essenziale, talora schematico, era finalizzata alla individuazione dei rapporti stilistici, andando alla radice del linguaggio degli artisti.
Per molti di essi ha contribuito ad ampliare notevolmente il catalogo, fornendo la base per successivi approfondimenti monografici, come talora è avvenuto.
Il più semplice, per chi intenderà portare a compimento il suo lavoro di una vita, sarà proprio quello sull’artista che ha più amato.
Francesco PETRUCCI Ariccia, 3 gennaio 2024
Sono rimasta molto addolorata per la scomparsa di Erich Schleier: ho un bellissimo ricordo di lui, persona gentile e affabile, studioso rigoroso e appassionato, ricercatore indefesso ed entusiasta, mi mancherà un amico, e la sua scomparsa a pochi giorni dalla morte della moglie testimonia la profondità dei suoi sentimenti. D’altronde, aveva condiviso con lei una lunga vita in comune, un sodalizio intellettuale e spirituale che li aveva portati a scrivere a quattro mani alcuni studi in particolare sull’arte genovese.
Ho avuto modo di conoscere e frequentare Erich perché i suoi studi collimavano con i miei: anch’io ho dedicato molte mie ricerche all’arte del primo Seicento, romano e bolognese, e pertanto non potevo non avere presente gli studi di Schleier. La sua conoscenza dell’arte italiana di quegli anni era sorprendente: conosceva a fondo gli artisti, le loro opere, i committenti, il clima culturale, le dinamiche del collezionismo e del mercato e le sue ricerche lo portavano spesso ad individuare nuovi dipinti nascosti tra collezionisti e edifici religiosi. I suoi saggi erano e sono ancora imprescindibili per chi, come me, voleva approfondire quegli argomenti.
Il suo scritto La pittura dei Seicento a Roma, apparso nel 1989 nella collana La pittura in Italia (edizione Electa, Milano) ne conferma la profonda conoscenza dell’arte a Roma nel primo Seicento: è un saggio di grande cultura e offre un panorama artistico davvero unico.
Il momento di maggior collaborazione con lui fu durante la mostra di Giovanni Lanfranco, che si tenne a Roma, nel Museo Nazionale di Palazzo di Venezia, nella primavera del 2002.
Da tempo Erich aveva iniziato ad approfondire l’arte di Lanfranco: era stato argomento della sua tesi di laurea e nel 1983 aveva pubblicato con L.S. Olschki Disegni di Giovanni Lanfranco, dando così rilievo per la prima volta ad un artista importante ma ancora poco conosciuto. I suoi studi su Lanfranco andarono via via ampliandosi, approfondendo alcune tematiche e pubblicando nuove opere. Io stessa iniziai a studiare l’artista in occasione del restauro della Loggia della Galleria Borghese con il Concilio degli dei, che Lanfranco eseguì tra i 1624 e il 1625. Cominciai ad apprezzare la sua pennellata intensa, i suoi tocchi di luce che facevano vibrare la sua pittura, il ritmo ondulato dei suoi modi stilistici che ricordavano l’arte di Jacopo Bertoja, come si può ammirare ad esempio nella Vergine che soccorre san Guglielmo, nella Cappella Bongiovanni nella chiesa di Sant’Agostino a Roma. Così in quella occasione strinsi i mei rapporti con Erich Schleier, che mi sostenne e mi aiutò con grande generosità.
Nel 2002, con il sostegno di Claudio Strinati, Schleier organizzò una mostra sul Lanfranco, esposta in tre sedi, a Parma, a Napoli e a Roma (e ha continuato a studiare Lanfranco anche negli anni successivi scoprendo altre inedite opere) ed io collaborai con lui nella sede romana. Con grande rigore scientifico e grazie alla vasta conoscenza dell’artista, Erich delineò una mostra di grande rilevanza, rappresentando attraverso i numerosi dipinti il completo percorso artistico, dagli inizi fino alla fine della sua carriera artistica, esaltandone le peculiarità. Debitore certamente dei suoi maestri, tra i primi Annibale Carracci e Guido Reni, Lanfranco aveva sviluppato un linguaggio particolare, complesso, sfaccettato, riflesso delle istanze culturali e religiose di quegli anni, esplorando i vari campi della pittura, dal ritratto al paesaggio, dai temi religiosi a quelli profani. Erich Schleier ha dato all’artista il giusto ruolo nell’elaborazione dell’estetica barocca.
In quei mesi frenetici della preparazione della mostra, nelle difficoltà da superare in tutti i vari aspetti nell’organizzazione di una esposizione così vasta, Erich ha sempre mantenuto la sua calma, la sua affabilità, è stato un piacere e un privilegio lavorare con lui, apprendere metodo e rigore, entusiasmo e imperturbabilità, impegno e leggerezza.
Maria Grazia BERNARDINI Roma 10 Gennaio 2024
Ho conosciuto Erich Schleier nel 1980 a Napoli, nel corso di una sua visita alla mostra Civiltà del ‘700 a Napoli, allora aperta a Capodimonte. Fu Raffaello Causa, che era a conoscenza del mio lavoro di tesi su Francesco Guarino, a favorire questo primo contatto.
All’epoca Schleier era al culmine della sua traiettoria di studioso. i suoi contributi avevano già esplorato a fondo aree molto disparate del Barocco pittorico italiano. Il perno delle sue ricerche era stata Roma, ma proprio per questo era stato naturale guardare all’Emilia e a Napoli per comprendere i termini di una relazione strutturale fra i tre centri, e non solo in rapporto a Lanfranco, il fulcro ma non la sola corda delle sue antenne di conoscitore.
A Napoli credo fossimo davvero pochi, nella mia generazione, a conoscere Schleier. Il mio maestro, Ferdinando Bologna, lo aveva incontrato più volte soprattutto a Roma, dove credo che Schleier abbia maturato le relazioni italiane più durature sin dai primi anni Sessanta. E’ da quella fase che scaturirono i pionieristici saggi di quel decennio pubblicati soprattutto nel ‘Burlington Magazine’, in quella che al tempo la visione di Benedict Nicolson aveva reso una fucina di giovani talenti.
Del lavoro di Schleier alla Gemaeldegalerie di Berlino so poco, ma ricordo che si lamentava spesso della difficoltà che aveva incontrato nelle sue proposte di acquisti. Dalla frequentazione dipanatasi nei decenni non ricordo di essere mai riuscito a discutere con Schleier di grandi temi storiografici, di dibattiti sulla definizione della posizione di un artista entro una tendenza figurativa, etc., ma dubito che si trattasse di ignoranza, bensì della mancanza di un interesse scientifico reale.
Schleier era un esploratore che attivava le sue straordinarie abilità critiche e mnemoniche di fronte alle opere. Non gli interessavano le grandi sintesi, e c’è anche stato chi con una certa malignità gli ha imputato il fatto di essere stato ‘sconfitto’ da Lanfranco, e cioè di non essere riuscito a richiudere il suo pittore in una sintesi monografica. In realtà Schleier aveva fatto molto di più di questo: aveva esplorato le titaniche imprese di Lanfranco in un flusso inesausto di saggi, per non parlare poi del catalogo dei disegni del pittore (1983), due poderosi volumi che altro non sono se non una monografia scientifica.
Siamo stati insieme nel vetting del TEFAF per circa un decennio, e in quell’incontro annuale si vedeva al meglio ciò di cui era capace Erich: silente davanti a problemi sui quali non riteneva di aver competenze, quando interveniva era sempre decisivo. Prudenza, equilibrio, meticolosità nel reperimento e nell’esame dei dati, ossessione per la completezza bibliografica, rispetto delle opere d’arte soprattutto davanti alla loro essenza visiva, restano esemplari. Schleier era un conoscitore che non solo io ho paragonato a Hermann Voss. La sua però era una generazione diversa: era un tedesco cresciuto nella Germania della ricostruzione postbellica, e il basso profilo di molti intellettuali non politicamente schierati di quella fase storica dev’essere stato un imprinting fondamentale anche nel suo modo di costruire i suoi saggi sempre così asciutti, sempre così diretti al punto.
Il carattere di Erich, che da giovane era stato abbastanza sorridente e ironico, era divenuto non sempre facile specialmente nel tratto finale del suo straordinario percorso. Non sono mancate le frizioni, ma credo che una spiegazione di questa trasformazione vada cercata nell’evoluzione che la connoisseurship ha vissuto negli ultimi trent’anni. Ricordo le sue difficoltà a confrontarsi con il digitale; lo prendevamo un po’ in giro per il fatto che andava in copisteria a farsi stampare le foto che gli inviavano via email, e ricordo l’affanno con cui non solo lui combatteva con l’attuale ipertrofia bibliografica che non è sempre frutto di intensificazione delle ricerche di qualità. Schleier era un artigiano estremamente individualista ed era nel suo studio, tra i suoi libri, che dava il meglio di sé. E ora più che mai non va dimenticato il suo lascito.
In Italia è stato rispettato e apprezzato da molti tra i migliori, a cominciare da Longhi. Io ho il non piccolo orgoglio di essere stato il solo ad accorgersi del suo pensionamento, esortando la mia Università a conferirgli quella che a mia conoscenza è l’unica onorificenza tributatagli nel nostro Paese (non so di altri riconoscimenti in Germania o altrove). La sua Lectio magistralis, pubblicata nel 2000, è la splendida pubblicazione di un vasto e sconosciuto dipinto di Andrea Vaccaro oggi al Bode Museum di Berlino (nota a pié pagina: cf. Laurea Honoriss Causa in Conservazione dei Beni Culturali di Eric Schleier, Avellino, Sellino Editore, 2000, 54 pagine, in cui lo studioso pubblicò Una “Crocifissione” della fase tarda di Andrea Vaccaro).
Schleier ci lasciato un edificio possente e stabile di conoscenze sulla pittura del Sei e Settecento in Italia. Un edificio in cui sarà sempre difficile cambiare qualcosa, ma di cui sarà sempre possibile utilizzare ogni più minuta parte.
Riccardo LATTUADA Roma 10 Gennaio 2024
Ricordo di Erich Schleier e Mary Newcome
Lo vidi, giovane, la prima volta, a casa di Mario Lanfranchi, a Roma, in palazzo del Grillo. Nel 1979. Aveva poco piu’ di quarant’anni. Ed era affabile, curioso, lontano da ogni retorica. Frasi brevi, asciutte, e un grande occhio. C’erano con noi, in quel tempo felice, i giovani studiosi romani piu’ appassionati: Claudio Strinati, Maurizio Marini, Luigi Ficacci, Anna Coliva, Fabrizio Lemme.
E, soprattutto Luciano Maranzi, restauratore senza falsa dottrina. Giornate indimenticabili, fra antiquari e studi di restauratori, a caccia di quadri ignoti, sporchi, misteriosi.
Da un anno frequentavo la casa di Federico Zeri, santone prima che storico dell’arte, straordinario per battute e paradossi, fra i quali talora baluginavano preziose osservazioni su dipinti sconosciuti. In quei giorni teneva la conversazione un bel dipinto acquistato da Maranzi nella meravigliosa bottega di Mario Bigetti :una Cleopatra morente pagata 800.000 lire.
Al restauro rivelò’ di essere una prova assai notevole di un grande pittore, Giovanni Lanfranco, e fu chiamato Schleier, che di Lanfranco era il più grande conoscitore, a dire il suo verdetto. E Lanfranco fu. Dopo tanti anni, in diversi passaggi, il dipinto e’ approdato alla Galleria Nazionale di palazzo Barberini e ognuno può vederlo, pensando alla emozione di quella scoperta, che si riproduce ogni volta che un’opera esce dal buio, come a me è accaduto con la “Cattura di Cristo” di Rutilio Manetti.
Davanti ad alcuni dipinti nuovi di pittori antichi è come se la storia si rimettesse in gioco. E gli occhi di alcuni, come quelli di Schleier, penetrano in un buio fitto, e lo rischiarano, consentendoci di capire ciò’ che era ignoto.
Erich Schleier, nato ad Amburgo nel 1934, aveva studiato storia dell’arte e archeologia alle università di Amburgo, Friburgo e Monaco di Baviera laureandosi con la tesi su Giovanni Lanfranco. Dal 1971 al 1999 è stato curatore della pittura italiana presso la Gemaldegalerie di Berlino, dove andavo a trovarlo con somma soddisfazione. Ha pubblicato i suoi saggi sulle principali riviste internazionali del settore (The Burlington Magazine, The Art Bulletin, Paragone, Arte Illustrata etc.), studi riguardanti gli amati pittori emiliani, romani, napoletani e veneziani dei secoli Cinque, Sei e Settecento; ha curato il catalogo generale dei disegni di Lanfranco, nel 1983, e ha collaborato, come membro dei comitati di studio, a numerose mostre internazionali tra cui ‘Paintings in Naples from Caravaggio to Giordano’ , Londra-Washington-Parigi 1982/83; ‘Disegni di Giovanni Lanfranco’, Firenze, Uffizi-Roma, Istituto Nazionale per la Grafica 1983/84; ‘Civiltà del Seicento a Napoli’, Napoli 1984; ‘The Age of Caravaggio’, New York-Napoli 1985; ‘L’età di Correggio e dei Carracci’, Bologna-Washington-New York 1986/87; ‘Guido Reni’, Bologna 1988; ‘Guido Reni und Europa’, Francoforte 1988; ‘Pier Francesco Mola’, Lugano 1989; ‘Die Kunst in der Republik Genua’, Francoforte 1992; ‘Pietro da Cortona’, Roma 1997; ‘Mattia Preti’, Napoli 1998; ‘Roma nell’età di Bellori’, Roma 2000.
Prima di Schleier, come prima di Mary Newcome, sua moglie, morta poche ore prima di lui, molti momenti della pittura barocca, in particolare romana e genovese, erano oscuri.
Oggi sappiamo che Lanfranco è stato il fondatore del barocco romano portando la memoria delle cupole di Correggio da Parma a Roma e a Napoli, al seguito di Annibale Carracci e Guido Reni, e contribuendo a invertire il flusso del caravaggismo. A Mary Necome dobbiamo gli studi definitivi su grandi pittori genovesi, dopo gli studi di Ezia Gavazza: dagli affreschi di Bernardo Strozzi a palazzo Lomellino, agli studi monografici su Gregorio de Ferrari e Domenico e Bartolomeo Guidobono.
Entrambi meriterebbero il pubblico encomio e la cittadinanza onoraria postuma di Roma e di Genova.
Per capirne la intrinsichezza con l’ambiente romano sono notevoli le lettere di Schleier a Giuliano Briganti, senza competizione, e con il solo obbiettivo di raggiungere la verità nella conoscenza di artisti come Pietro da Cortona( cui Briganti dedicò’ un testo fondamentale), Fiasella, Mola, Vanvitelli, Schonfeld, in una curiosità pulsante e incontenibile.
Commuove tanta passione per l’Italia, nella corrispondenza da Amburgo, da Berlino, da Pittsburg, con le richieste di informazioni su colleghi studiosi, su pubblicazioni in corso (nel ‘66 è in attesa della fondamentale monografia di Ferrari/ Scavizzi su Luca Giordano).
Tempi memorabili per me che ero della generazione successiva e che vedevo gli studiosi come Arcangeli, Volpe, Briganti titolari di un sapere che si iniziava a frantumare in mille specialità proprio con grandi stranieri come gli Schleier, Richard Spear, Walter Vitzthum, Herwarth Roettgen, piu’ italiani degli italiani.
Schleier lo era anche di temperamento: poteva essere nato a Parma,e ne aveva aristocrazia e umore. Mi piace ricordarlo come un parallelo tedesco di Eugenio Riccomini, suo coetaneo, che se ne e’ andato qualche giorno dopo. Sappiamo di più di amati artisti grazie a loro.
Vittorio SGARBI Roma 10 Gennaio 2024
Per me Erich Schleier è stato in qualche misura determinante.
L’ ho conosciuto nella fase iniziale della mia carriera di storico dell’arte ma quel che più contò per me è come lo conobbi.
Appena laureato a Roma alla Sapienza (era il 1970), io non avevo alcuna idea di cosa fosse l’ambiente artistico romano, chi fossero le grandi personalità che lo dominavano e, in sostanza, come funzionasse questa attività. Non capivo nemmeno bene che differenza ci fosse tra un artista e un critico (o storico, per me era uguale) d’ arte.
Ma la fortuna, posto che lo sia stata, volle favorirmi perché entrai in contatto ( e qui arriva subito Schleier) con alcuni personaggi che di fatto stavano tutti a Roma, detenevano il potere culturale nel campo artistico e lo esercitavano con quella saggezza, amabilità, equilibrio e condivisione che mai avrei immaginato potessero veramente esistere.
Non vi parlo di un idillio, per carità! Odi ed invidie erano altrettanto se non più radicate, ed anzi autentiche violenze e vere sopraffazioni erano all’ ordine del giorno in modo analogo all’attuale. Però c’era una complicità ( siamo all’ inizio degli anni Settanta del Ventesimo secolo) in cui, bene o male, le persone che oggi diremmo addette ai lavori si conoscevano sul serio e non c’era il caso che uno avesse un amico (o anche un nemico) che invece non ha mai visto né conosciuto, tipo Facebook, tanto per intenderci. E sappiamo bene che sentirsi appartenenti ad uno stesso mondo (che non necessariamente è una lobby di affari, una loggia massonica deviata, una associazione parafascista o una famiglia mafiosa; anzi!) è comunque garanzia di vita costruttiva e comunque lieta.
Io invece ho vissuto in un tipo di ambiente in cui la condivisione era fondata sulla colleganza e sulla attività, senza che nessuno fosse mai sfiorato dall’idea di ricattare e liquidare l’altro per una funesta e nel contempo risibile smania di posizionarsi stabilmente al vertice del potere inteso come autorità volta precipuamente all’ esclusione dell’altro e a fare del male.
La città eterna era dominata da figure carismatiche, di incontrovertibile competenza a autorevolezza, sia nell’ambiente universitario, come Argan e Brandi, sia in quello museale come le mitiche Bucarelli e Della Pergola, sia in quello privato come Zeri e Briganti, sia in quello delle Soprintendenze che però a me intimidivano e non le frequentavo granché.
Il tessuto connettivo vero di questa realtà piccola ma fervidissima assomigliava di più ad una specie di tarda bohème costituita soprattutto da una serie di studiosi stranieri ( adotto il termine usato allora, scusatemi!)) che di fatto stavano portando una vera e propria rivoluzione pacifica negli studi e nel comportamento di noi storici dell’arte . E dico noi perché cominciavo a dirlo, all’epoca
Erano tutti devotissimi ai grandi maestri italiani ma consapevoli di essere a loro volta maestri dotati di una vastità di competenze e di esperienze che gli italiani se le erano sognate ai bei tempi del Fascio. Del resto mentre Longhi e Argan sedevano al Ministero illuminando la colta figura di Bottai, loro erano ragazzini inconsapevoli ancora di quel che li aspettava.
Erich era del 1934, tanto per dire.
Quando li ho conosciuti io, tutti questi grandi erano più o meno tra la trentina e la quarantina.
Italo Faldi, che invece di anni ne aveva qualcuno in più (nato nel 1917) era ancora sposato con quella nobilissima e generosissima persona che fu Carla Guglielmi. Era lui che governava queste persone che andavano e venivano e non si poteva dar loro regola, a parte quella della Bibliotheca Hertziana. E gli eroi stranieri frequentavano con gioia la loro casa. Faldi, del resto, era una sorta di emanazione più tranquilla e signorile degli pseudodioscuri principi indiscussi dei conoscitori romani, Zeri e Briganti. Zeri poi era mezzo americano o almeno aspirante tale e difficilissimo a trattarsi. Briganti era accessibile e universale nel suo immenso sapere. Ed erano veramente bravi. Ma troppo in alto, per così dire.
Si viveva, invece, al piano di sotto in modo simile a quello dei pittori e letterati del decennio precedente (la Roma pop!) quando per incontrarsi ed elaborare le cose bastava andare a Piazza del Popolo e sedersi al bar.
Gli storici dell’arte formavano una confraternita a parte e avevano i loro centri di raccolta come la casa del mitico restauratore Luciano Maranzi, uno stravagantissimo e sommo esperto che di tutti era amico e confidente e a tutti aveva da insegnare qualcosa di assolutamente inaspettato, anche a Zeri e a Briganti.
Bastava andare a trovare Maranzi e la sua compagna Silvia Cerio, la figlia che il signore di Capri Edwin aveva agevolmente avuto, si favoleggiava, ultraottantenne, tipo Charlie Chaplin.
Io non so se mi sono mai formalmente presentato a Richard Spear, a Christoph Luitpold Frommel, a Herwarth Röttgen, a Stella Rudolph, a Steven Pepper, a Erich Schleier appunto, e a parecchi altri che non mi ricordo o almeno adesso non mi vengono in mente. Ma quel che è certo è che da Maranzi li avrei incontrati facilmente
In pratica era come se li conoscessi già. Così mi sembrava e tutti erano romani.
Così ci vedevamo quando c’era qualcosa da fare o da studiare, cioè ogni giorno. Non tanto a parlare delle opere ma a vederle insieme e io cominciavo a pensare: hai voglia a dire Longhi, Zeri, Briganti, Arcangeli, Volpe e così via ( dei lombardi e dei napoletani sapevo poco anche se ogni tanto apparivano dei fenomeni tipo Nicola Spinosa o Filippo Maria Ferro). Questi stranieri stanno sul pezzo e non c’è verso di schiodarli.
Ma c’era un mantra che inizialmente mi era sfuggito: il grande studioso straniero veniva in Italia per scrivere una monografia che lo avrebbe impegnato dalla giovinezza alla tarda maturità e in alcuni casi oltre.
La Rudolph scriveva Maratti, Röttgen il Cavalier d’Arpino, Spear Domenichino, Schleier Lanfranco.
Ma già allora si credeva che nessuno sarebbe riuscito a completare la monografia, anche se poi Röttgen a onor del vero c’è riuscito, eccome! Dopo appena quaranta anni di studio e adesso procede più tranquillo e se molto bene.
Lanfranco, lì per lì, a mala pena sapevo chi fosse.
Sollecitato da Schleier, a buon punto con la monografia che però non credo abbia mai terminato, vado con lui un bel giorno a vedere l’ Annunciazione di san Carlo ai Catinari e penso: si, effettivamente è il più gran quadro che io abbia mai visto (però ne avevo visti ben pochi all’ epoca!) e mi rafforzai subito dopo a Sant’ Agostino e in tanti altri posti.
Schleier non mi spiegava mai niente, ma sentivo che mi stimava e quasi mi voleva bene così come ne volevo a lui e parlavamo del Lanfranco e questo contribuì non poco a farmi capire come si esercita sul serio il mestiere dello storico dell’arte.
Era così assolutamente naturale nel suo coltivare il sapere più filologico e critico nella quotidianità della conversazione.
Ma poi ero sbalordito ( e lo sono ancora) del fatto che Schleier, che del Lanfranco sapeva tutto come Mahon di Guercino, non era per niente esclusivamente interessato al Lanfranco.
Era, al contrario, un prodigioso conoscitore di autori e ambiti che non c’entravano niente con Lanfranco.
Un giorno mi racconta che alla mostra del Seicento veronese si è accorto che sono esposti quadri riferiti a pittori veronesi, appunto, ma che sono invece del napoletano Paolo De Matteis e io, un po’ arrancando appreso a lui, dicevo che si, è strano confondere De Matteis con…. E poi non mi ricordavo neanche come si chiamasse il veronese in questione … Marchesini, Allegrini. E lui ci si divertiva: guarda che di Allegrini, che non è per niente veronese peraltro, ce ne sono due. Ma a chi ti riferisci, a Flaminio???!!
Per un certo periodo di discussioni surreali di questo tipo ne sono capitate parecchie e sono tutte depositate in perfetto ordine sparso nel mio cuore.
Era di un garbo, una grazia di comportamento, una serietà di eloquio e un rigore, oserei dire anche morale, raramente visti da me in vita mia, anche se non ho visto così tanto.
Leggevo e continuai a leggere tutto quello che Erich scriveva e ne ricavai una sensazione sconcertante: che non sbagliasse mai.
Adesso che la parabola è compiuta, questa impressione mi si è rafforzata. Trovatene un altro così! E di certo ognuno di noi ne avrà in mente qualcun altro analogo. Io però non sono così sicuro o perlomeno ci debbo pensare bene.
E penso, soprattutto, che sia stato uno dei più grandi conoscitori in assoluto del secolo ventesimo. Stare in suo compagnia era fonte di gioia e divertimento incomparabili.
E questo vale anche per sua moglie Mary Newcome, che mi fu tanto affezionata ed io a lei, e mi ha molto aiutato quando me ne andai a lavorare alla Soprintendenza di Genova e non facevo altro che sottoporle cose che trovavo o mi illudevo di aver trovato e lei, una delle massime esperte dell’arte ligure, sempre rispondeva.
Se ne sono andati insieme, ho saputo.
E mi sono commosso oltremisura.
Claudio STRINATI Roma 10 Gennaio 2024
Con Erich Schleier scompare uno degli ultimi massimi studiosi del Barocco romano e tale perdita ci tocca tutti profondamente.
Riaffiorano ora alla memoria gli incontri, gli scambi e i confronti che ho avuto il privilegio di avere con il grande conoscitore negli anni dedicati alla ricerca sul pittore Guglielmo Cortese, detto “Il Borgognone”.
Era il 2010 quando da giovane dottoranda contattai per la prima volta Erich Schleier, a cui si deve la riscoperta del pittore grazie agli importanti saggi degli anni Settanta, in particolare quello su “Antichità viva”, da lui stesso definito “uno dei contributi più riusciti”.
Non occorre evidenziare in questa sede la levatura e l’autorevolezza dello specialista, qualità note a tutta la comunità scientifica e che i colleghi potranno meglio circoscrivere, ma desidero ricordare, invece, tramite l’esperienza personale la disponibilità, la rara generosità e il supporto offerto ai giovani ricercatori che come me si affacciavano al mondo, a volte insidioso e in salita, della ricerca. In questo modo, infatti, si presentò fin dal primo felice incontro in occasione del convegno sui Mola a Mendrisio (2013), dove ebbi l’opportunità unica di discutere con lui di temi, tesi e possibili prospettive di analisi, grazie alla sua spontanea capacità di mettere le persone a proprio agio, indipendentemente e oltre le gerarchie accademiche, mostrando sincero interesse verso le intuizioni e le proposte di una giovane appassionata studiosa.
Erich Schleier è stato una guida a distanza attraverso una corrispondenza costante, la condivisione di ragionamenti e riflessioni, sempre percepiti come stimoli, e l’incoraggiamento a proseguire gli studi offrendo direzioni di approfondimento. A lui va il mio più profondo ringraziamento per i consigli dispensati e per il binario che inconsapevolmente, forse, ha contribuito a disegnare nella mia vita professionale.
Valeria Di GIUSEPPE Di PAOLO Roma 10 Gennaio 2024
Incamminatomi sulla via dello studio della pittura seicentesca nello Stato della Chiesa, in particolare di quella più interessata ai modelli del classicismo bolognese poi diffusasi con successo a Roma e nelle Marche, sapevo già che mi sarei imbattuto negli scritti dei più grandi storici dell’arte del Novecento. Nonostante avessi poi deciso di focalizzare le mie attenzioni su artisti meno noti, ma per più versi meritevoli di attenzioni, mi cominciai a imbattere nelle pubblicazioni di Erich Schleier, rendendomi conto ben presto che le cose più importanti su questi artisti, sia per fisionomia pittorica che per ricerca filologica, si trovavano tra le pagine dei suoi articoli, fondamentali per ricostruire il contesto reale della pittura del Seicento.
È stato così, ad esempio, per Giovanni Battista Boncori, sul quale mi sono esercitato nel mio anno in Fondazione Longhi; per Giuseppe Puglia, il Bastaro, i cui intrecci tra naturalismo e classicismo sono paradigmatici per molti degli aspetti più importanti dell’ambiente romano nella prima metà del Seicento; ma anche per le Sante del Pomarancio e per Gherardi, sul quale il mio articolo si è giovato di alcune segnalazioni fornitemi dallo stesso Schleier, i cui studi, posso già anticipare, sono fondamentali anche per le ricerche che sto portando avanti in questo momento.
Dopo un breve incontro a Bologna, con un rapido scambio di idee e di contatti, intesi ben presto di essermi guadagnato la sua stima, tant’è che mi arrischiai a domandargli se fosse disponibile a scrivere la prefazione al mio libro sul Bastaro: la risposta fu positiva e non sapevo che non gli fosse mai stato chiesto prima di scrivere un’introduzione a un testo.
Nonostante i nostri incontri di persona si contino sulle dita di due mani, per il fitto scambio epistolare, per consigli, pareri, ma anche controlli, scansioni e traduzioni, o solo per gli auguri, o per i numerosi testi inviatimi e mia volta fatti recapitare al suo indirizzo di Berlino, posso dire di aver perso due amici oltre che due guide insostituibili.
Mi ero preoccupato dopo non aver avuto risposta alla mia ultima mail di auguri, purtroppo, passati pochi giorni, sono stato raggiunto dalla triste notizia della scomparsa di Erich e di sua moglie Mary.
Dei nostri incontri ricordo con particolare commozione una stupenda visita alla Galleria Barberini nel corso della quale mi disse di aver contribuito in prima persona al ritorno dell’Amor Sacro e l’Amor Profano di Giovanni Baglione, considerato disperso in seguito ai tragici avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, che avevano coinvolto anche l’Ambasciata italiana a Berlino. Ricordo una visita ad Ariccia, in occasione di una mostra curata da Francesco Petrucci, ricordo ancora la sua partecipazione a un incontro lanfranchiano a Palazzo Spada su invito di Adriana Capriotti, grazie alla quale vedemmo in altra occasione i restauri delle chiese di San Nicola dei Prefetti e di Santa Lucia della Tinta, delle quali Erich si era occupato qualche anno addietro.
Per concludere questo breve ricordo commosso, ripromettendomi di continuare a cercare negli scritti il conforto che non posso più avere di persona, ci tengo a riportare qui una sua confidenza: la preoccupazione di non vedere dispersa la sua biblioteca e di trovarle una sistemazione in un luogo fruibile a tutti, possibilmente a Berlino, cosa che spero possa avverarsi quanto prima.
Roma, gennaio 2024
Massimo FRANCUCCI Roma 10 Gennaio 2024
Conosco Erich Schleier da sempre, ovvero da quando ho iniziato a studiare, a 21 anni, storia dell’arte presso l’Università di Roma Tre (2001).
La mia passione per la pittura italiana del Seicento mi ha spesso portato a consultare i suoi scritti, che ho sempre reputato tra le più alte espressioni di critica d’arte dei nostri tempi. Leggevo Erich con devozione, ammirazione, stupore e timore. Mi meravigliavo per le sue brillanti intuizioni, per le sue scoperte. Dentro di me sentivo che quella era la via maestra di ‘fare’ storia e critica d’arte. Mi rendevo conto che in lui, connoisseurship e studio scientifico viaggiavano in unione inscindibile. Erich era ammirabile anche perché, a differenza di molti, sapeva ammettere di aver sbagliato.
Quando nel 2007 assieme a Guendalina Serafinelli pubblicai sul Bollettino d’Arte la (ri)scoperta del casino di delizie di Giovanni Lanfranco, si mostrò contrariato nei miei (nostri) confronti. All’epoca non ci conoscevamo di persona, dal vero. Avevo osato ’toccare’ il ’suo’ pittore. Bastò tuttavia un nostro incontro casuale l’anno successivo ad Ariccia, a Palazzo Chigi, a far cessare subito ogni risentimento.
Ricordo che gli dissi:
“Professore, io sono onorato di conoscerLa. Ho imparato e continuo a imparare tutto da Lei. È il mio modello ideale di fare storia dell’arte”.
Lo invitai a visitare assieme l’interno del Casino Consorti a Bravetta, che io e Guendalina avevamo identificato col casino fatto erigere e decorare da Lanfranco. Gli spiegai che avevamo dovuto scrivere quell’articolo perché altrimenti il casino, all’epoca non ancora vincolato, avrebbe corso il rischio di essere demolito per la costruzione di un grande albergo. Lui rispose che non era affatto convinto che si trattasse del casino di Lanfranco, ma però accettò l’invito.
Ricordo che quando lo portai, alcuni giorni dopo, all’interno dell’edificio, lui toccò le pareti dove avevamo rinvenuto gli affreschi sotto diversi strati d’intonaco, e non disse nulla. Non disse nulla neanche quando scendemmo nello scantinato, e gli feci vedere le nicchie che comparivano anche nell’incisione del casino che Lanfranco aveva fatto eseguire ad Antonio Ricchieri sul finire degli anni ’20 del Seicento, a celebrazione della sua impresa. Ricordo bene, però, che quando al termine della visita salimmo insieme sull’altana, lui rivolse lo sguardo verso est, e guardando oltre villa Pamphilij, verso il Vaticano, vide il cupolone e disse: “Così Giovannino dalla sua casa vedeva San Pietro, dove lui stesso aveva dipinto!”.
E in quel momento, lui si commosse, e da lì cominciò la nostra amicizia che ricorderò sempre con enorme affetto.
Francesco GATTA Roma 10 Gennaio 2024