di Mario LIPARI
Le teste mozzate: un breve viaggio attraverso l’arte con due decollazioni di Luca Ferrari.
Che siano santi martirizzati (fig. 1), protagonisti di tragici epiloghi classici o artisti che si ritraggono meditando sul proprio destino incerto, il tema della decollazione è un tema iconografico ricorrente nell’arte.



Usato sia come metodo di esecuzione capitale sia come pratica a scopo propiziatorio, questo gesto estremamente violento ha sempre interessato la storia umana, e sono molte le rappresentazioni storiche che testimoniano questo uso (fig.2).
Un esempio è in rilievo sull’imponente Colonna di Traiano (fig.3), eretta per celebrare la conquista romana della Dacia (106 d.C.) e che presenta, tra i momenti salienti rievocati sul fregio a spirale, la scena (purtroppo molto rovinata) della presentazione all’accampamento romano (visibilmente colmo di soldati) della testa di re Decebalo sopra un vassoio sostenuto da due soldati (fig.4).

Ma parliamo di una decapitazione post mortem. Il re dace, infatti, ormai circondato dall’esercito romano, preferì perire per propria mano; questa decisione è visibile in una scena precedente sullo stesso fusto, dove Decebalo viene raffigurato al centro della scena, nell’atto del suicidio, accerchiato dal plotone romano (fig.5).


Un atto di decapitazione di particolare rilievo storico, rappresentato anch’esso nell’arte, è ambientato durante la Seconda Guerra Punica (218 a.C. – 202 a.C.) con la drammatica presentazione della testa di Asdrubale Barca al fratello Annibale, mostrato nel dipinto di Giambattista Tiepolo (1728/’30) esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna (fig.6).
Volendo fare un ripasso storico, la guerra cominciò per iniziativa dei Cartaginesi, che intendevano recuperare la potenza militare e l’influenza politica perduta dopo la sconfitta subita nella prima guerra punica (264 – 241 a.C.). Contrariamente alla prima guerra, che fu combattuta e vinta essenzialmente sul mare, la seconda fu caratterizzata soprattutto da grandi battaglie terrestri e il condottiero cartaginese Annibale Barca fu indubbiamente la personalità più importante della guerra; avendo giurato da bambino “odio eterno” per Roma su istigazione del padre Amilcare Barca, generale nella prima guerra punica, egli riuscì a scatenare la guerra espugnando la città alleata dei romani, Sagunto, per poi invadere la penisola italica ottenendo numerose vittorie e minacciando la stessa Roma. Ma l’isolamento geografico dalla madrepatria e la difficoltà nei rifornimenti lo portarono alla sconfitta dopo oltre quindici anni di guerriglia.
Anche il ruolo del fratello di Annibale fu incisivo nel conflitto, Asdrubale, infatti, condusse con abilità la marcia del suo esercito verso l’Italia. I Romani, tuttavia, riuscirono a intercettare e ad affrontare riuniti Asdrubale. La battaglia del Metauro (combattuta il 22 giugno del 207 a.C. presso il fiume Metauro, oggi in provincia di Pesaro e Urbino nelle Marche) si concluse con la completa vittoria di Roma; lo scontro del Metauro vide Roma, per la prima volta, vincere una battaglia campale in Italia dall’inizio della guerra. L’esercito cartaginese fu distrutto e Asdrubale cadde combattendo sul campo. Annibale apprese del tragico destino del fratello solo quando la testa di Asdrubale venne gettata dai Romani nel suo accampamento.

Ovviamente, anche la mitologia è fonte generosa di queste scene cruente; tra le più rappresentate vi è la decapitazione della gorgone Medusa da parte di Perseo. Sotto la Loggia della Signoria a Firenze è possibile ammirare la scultura bronzea di Benvenuto Cellini (fig.7), dove l’eroe greco viene rappresentato nell’atto successivo alla decapitazione, con la testa di Medusa in mano. Commissionato nel 1545 dal duca Cosimo I de’ Medici, il monumento simbolo del manierismo, alto più di cinque metri, è posto su un alto piedistallo (copia che ha sostituito l’originale nel XX secolo) ornato da bellissimi bronzetti rappresentanti divinità connesse al mito di Perseo. La scultura è stata ideata in modo da guardare in basso verso lo spettatore. Inoltre, sulla nuca della statua, in posizione estremamente defilata, è presente un dolente autoritratto di Cellini (fig.8).

Restando sulla Medusa, l’interpretazione più famosa di questo soggetto decapitato è sicuramente sullo scudo dipinto da Michelangelo Merisi da Caravaggio (fig.9) esposto alle Gallerie degli Uffizi, che, secondo la tradizione, sarebbe l’autoritratto del pittore in giovane età, congelato in questo urlo raccapricciante mentre fiotti ematici vengono irrorati da sotto il capo. Il motivo dietro alla scelta di questo supporto si può riscontrare nel racconto mitologico: per poter evitare lo sguardo terrificante, Perseo non guardò il mostro, ma la sua immagine riflessa su di un lucido scudo di bronzo. Un altro motivo potrebbe suggerircelo Giorgio Vasari: secondo lo storico aretino, nelle collezioni del Granduca Cosimo si annoverava un dipinto dello stesso tema, eseguito da Leonardo su uno scudo e poi smarrito. Non è da escludere che Caravaggio potrebbe averlo imitato.

Lo “scudo” dipinto da Caravaggio è un saggio stimabile delle capacità ottiche del pittore, che riesce ad annullare gli effetti della convessità del supporto. La luce, che proviene dall’alto, proietta l’ombra della testa sullo sfondo verde dello scudo. Lo spettatore ha dunque la sensazione che l’ombra venga riflessa su di un fondo concavo, con il risultato che la testa sembra fluttuante. L’espressione della Medusa è colta nel momento dell’urlo, scaturito dall’inatteso taglio della propria testa dalla cui base si riversa un fiotto di sangue. Gli occhi spalancati e sconvolti, il corrugamento della fronte, la bocca aperta che mostra la dentatura ed il suo interno, sono evidenziati dalla luce calda ed improvvisa. La luce, inoltre, evidenzia anche l’orrore prodotto dalla capigliatura composta dalle serpi. In quest’opera, però, non c’è interesse al racconto del mito. Quello che conta è la metafora della sconfitta delle tentazioni che indeboliscono l’essere umano.
Esistono due versioni di Medusa realizzate da Caravaggio: la prima si trova in una collezione privata in Italia, la seconda, quella degli Uffizi, è stata commissionata dal cardinal Francesco Maria Bourbon del Monte per il granduca Ferdinando I de’ Medici. Nel 1598 il Granduca era intento ad allestire le sale della Galleria di Palazzo Vecchio con lo scopo di sistemarvi la sua ricca collezione di armi. Venuto a conoscenza di questa intenzione, il Cardinale pensò di arricchire la collezione con un pezzo di alto pregio che potesse inserirsi nel contesto delle armi e dei tornei e, allo stesso tempo, far conoscere a Firenze le straordinarie abilità del suo protetto, Caravaggio.
Il tema della Medusa, caro ai Medici, non sembra essere stato scelto casualmente. La testa della Medusa (o Gorgone), infatti, aveva un valore simbolico in quanto allegoria della prudenza e della sapienza. Tale simbologia era conosciuta e presente in molti trattati di pittura dell’epoca; trattati come il “Dialogo dei colori” di Ludovico Dolce (1565) in cui si legge che la Medusa rappresenta la prudenza acquisita per mezzo della sapienza. Questo dono, con l’immagine di Medusa, aveva, dunque, un valore augurale. E la scelta del soggetto per lo scudo, sicuramente, si deve a Caravaggio, attento al tema spirituale e morale, su cui l’artista rifletteva molto in quegli anni.

Questo racconto mitologico ha influenzato particolarmente l’arte fino al contemporaneo, anche con rappresentazioni della sola testa detta “gorgoneion”, ripresa dal noto logo di moda Versace (fig.10). L’intenzione di Gianni Versace era trovare un’immagine che potesse collegare la Maison alle sue origini calabresi e al suo passato nella sartoria materna, ma anche che accompagnasse il suo nome lungo il sentiero che conduce alla fama eterna. E fu allora che il creativo scelse la Medusa, dopo essere rimasto affascinato dal ritrovamento di una testa in marmo, durante degli scavi archeologici, nella sua città natale, Reggio Calabria.
Una gorgone, un mito impregnato di fascino, controversia e misticismo, diventato presto sigillo biografico delle creazioni di Versace.
“Quando le persone guarderanno a Versace – dirà il designer- dovranno sentirsi atterrite, pietrificate, proprio come quando si guarda negli occhi la Medusa”.

Quando affiorò il disegno finito del logo, l’immagine mitologica della testa della Medusa si palesava inscritta in una cornice circolare grecata, come un’antica moneta, quasi a testimonianza della perennità della moda Versace. Come modello si scelse la raffigurazione della Medusa Rondanini (fig.11), testa di marmo del periodo augusteo e copia di un originale greco, che differentemente dalla maggior parte delle immagini greche, dove è raro che i personaggi siano rivolti in avanti, lei guarda direttamente lo spettatore. Il suo sguardo è inflessibile, mostrandosi all’osservatore nonostante la sua natura mostruosa; fu in questa stessa posa che Versace impresse la Medusa nel suo logo.
Essendo la Bibbia una fonte inesauribile di ispirazione per gli artisti, immancabili sono le rappresentazioni di decapitazione nell’arte sacra, sia come martirio che come atti di eroismo. Ed è su queste due tipologie di decapitazioni che si concentrerà questo studio, attraverso due opere presenti nella collezione Credem e che sono state visibili, fino allo scorso novembre, presso la Casa Museo Bagatti Valsecchi nella mostra “Lo sguardo del sentire. Il Seicento emiliano dalle collezioni d’arte Credem” (10 maggio – 10 novembre 2024). Le opere in questione, entrambe dell’artista emiliano Luca da Reggio, sono il Davide con la testa di Golia (fig.12) e la Salomè con la testa del Battista (fig.13).


Luca Ferrari, detto Luca da Reggio, nasce a Reggio Emilia il 17 febbraio 1605; sulla sua figura e sulle sue opere ha pubblicato una importante monografia il Prof. Massimo Pirondini (Credem, 1999). In precedenza Girolamo Tiraboschi (1786) e Luigi Lanzi (1808) ne attestano un periodo di apprendistato a Bologna, presso la bottega di Guido Reni e l’erudito Francesco Scannelli (1657) ne testimonia il ruolo di seguace presso Alessandro Tiarini.
Tiarini (Bologna, 1577 – 1668) capace di esprimere una pittura dalla grande valenza naturalistica che tende a restituire l’episodio attraverso le sue implicazioni narrative, trasferendo il significato su un piano di vita quotidiano, costituisce l’esempio fondamentale per la formazione di Luca da Reggio. Quest’ultimo, grazie alla conoscenza della pittura veneta, favorita da una sua precoce attività a Padova (1635), tenderà ad accentuare nel suo operato la componente cromatica e l’aspetto spettacolare della raffigurazione.
Ferrari, artista la cui carriera, svolta inizialmente all’ombra del grande cantiere della basilica della Ghiara (1644 – 1648, Reggio Emilia), aveva ben presto attinto a grande fama in ambito veneto grazie a una fortunata produzione di dipinti “da stanza”: dipinti a una sola figura o con raffigurazioni di episodi classici o biblici, in cui trasformava i soggetti in rappresentazioni sontuose, piacevoli e allusive.
In questa produzione le due opere dell’artista precedentemente citate, pretesto per la realizzazione di questo lavoro, sono particolarmente incisive.
1 Davide con la testa di Golia, 1645 – 1650.
Nel diciassettesimo capitolo del primo libro di Samuele, nell’Antico Testamento, la storia di Davide si svolge intorno al 1000 a.C. e ha come sfondo la guerra tra i Filistei e il popolo di Israele guidato dal re Saul. È un momento dall’esito incerto per gli Ebrei: l’esercito dei Filistei sembra avere un grande vantaggio assicurato dalla presenza fra le sue schiere del terribile gigante Golia. Ogni giorno, da quaranta giorni, Golia lancia una sfida: sarà un duello tra lui e un campione dell’esercito nemico a decidere le sorti della guerra. Ma nessuno osa accettare. È a questo punto che entra in scena il giovane pastorello Davide. Davide si offre di andare a combattere contro Golia e, con l’ausilio di una fionda e di un sasso, lo abbatte per decapitarlo successivamente con la sua spada. Il capo mozzato di Golia sarà portato come trofeo della vittoria a Gerusalemme. Il più forte, come spiega sant’Agostino commentando l’episodio biblico, si è dimostrato non il gigante, ma il pastorello, perché è andato incontro a Golia confidando non in sé ma in Dio, armato non di ferro ma dalla propria fede.
Anche questo tema biblico di decapitazione è ampiamente usato nell’arte (fig.14) e Luca da Reggio non è stato da meno.

Lo storico dell’arte Massimo Pirondini colloca l’esecuzione del Davide con la testa di Golia nel secondo periodo reggiano del pittore, negli anni in cui è impegnato negli affreschi dei due bracci orientale e meridionale della basilica della Madonna della Ghiara (fig.15).

In effetti, la larghezza della pennellata e il tono del colore rimandano agli affreschi della Ghiara (confermando la datazione di Pirondini, fig.16), mentre l’impianto luministico riprende soluzioni caravaggesche, con la diagonale d’ombra che attraversa il fondo (fig.17).

In questo dipinto accattivante il giovane eroe biblico è raffigurato dal Ferrari a mezzo busto, mentre regge con orgoglio la testa di Golia.
Davide, dalla posa rilassata ma plastica, si presenta con un ampio drappo rosaceo, che lo copre solo parzialmente, ed esibisce con fierezza una lunga spada. La figura si staglia su uno sfondo neutro, arricchito solo da una diagonale d’ombra che riprende le soluzioni caravaggesche già segnalate. In questa tela Ferrari riesce a coniugare il naturalismo di stampo emiliano con il colorismo veneto.


Immancabile, dunque, il confronto con la decollazione di Caravaggio sullo stesso tema, una tela esposta alla Galleria Borghese che presenta una diagonale di luce che riporta lo sguardo dello spettatore alla diagonale dell’opera di Ferrari. Il dipinto fu eseguito probabilmente a Napoli, dove Caravaggio, fuggito da Roma nel 1606 con l’accusa di omicidio, si trovava in esilio. La scelta del soggetto si deve probabilmente allo stesso pittore. L’eroe Davide, infatti, non manifesta un atteggiamento trionfante, piuttosto si presenta a noi triste e malinconico mentre regge e osserva il capo mozzato di Golia, nel cui viso l’artista raffigura il proprio autoritratto.
Il giovane protagonista, inoltre, impugna una spada sulla cui lama si legge la sigla “H.AS O S” e che molti studiosi ritengono essere il motto agostiniano ‘H[umilit]AS O[ccidit] S[uperbiam]‘, diventando un’impressionante testimonianza degli ultimi mesi di vita di Caravaggio. Tale particolare, infatti, renderebbe plausibile l’ipotesi secondo la quale l’artista avrebbe inviato la tela al cardinale Scipione Borghese quale dono da far recapitare al pontefice Paolo V per ottenere il perdono e il ritorno in patria.
Il dipinto del Caravaggio, quindi, richiama questo tema di decollazione, ma con un Davide diverso dal visibilmente vincente Davide del Ferrari che si può rivedere, invece, in una delle due decapitazioni di Golia di Tanzio Da Varallo (1616 ca.) esposta alla Pinacoteca di Varallo (fig.18). Mentre nella decapitazione del 1625 ca. (anch’essa alla Pinacoteca di Varallo) Tanzio riporta la malinconia del Davide di Caravaggio, risentendone anche degli influssi (fig.19).


In quest’ultimo quadro, Tanzio si mette alla prova con una posa del tutto originale, dove il Davide è messo di profilo in obliquo, lasciando che il braccio, disteso a mostrare la testa di Golia, occupi tutta la diagonale della composizione e mettendo bene in evidenza, così, i muscoli possenti evidenziati dalla luce. La luce non nasconde neppure l’espressione del volto, carica di quella malinconia tipica di chi ha compiuto un gesto che andava compiuto, ma che realizza subito dopo la conseguenza, la morte di un uomo.
Vari studiosi hanno notato che il suo sguardo comunica “la pietà, lo sgomento per lo spettacolo della morte“, ponendo così davanti allo spettatore la rappresentazione di un personaggio la cui “giovinezza spensierata” è volata via all’improvviso. Insomma, non abbiamo davanti l’eroe trionfante, divino, ma è un Davide pieno di dubbi, con gli occhi leggermente gonfi che evitano di posarsi sulla testa del rivale ucciso. Questa consapevolezza contrasta decisamente con i tratti adolescenziali del protagonista dai boccoli biondi, quasi infantili, scompigliati dal vento. Un Davide vestito, peraltro, con abiti poveri, da pastore, e che a tracolla porta la fionda e i sassi con i quali ha ucciso il gigante, mentre la mano destra ancora impugna la spada adoperata per decapitarlo.
Tornando in ambito emiliano, anche il maestro Guido Reni rappresentò Davide con la testa di Golia, esposto agli Uffizi e datato al 1605 ca. (fig.20). Qui, però, il tema viene espresso senza sentimenti tragici e con elegante distacco.

Davide è atteggiato come un damerino, col cappello rosso piumato e il corpo illuminato da una luce lunare, appena coperto da un ricco mantello con i bordi di pelliccia; le luci definiscono con morbidezza il suo corpo, mentre l’oscurità si propaga dal fondo. Il giovane fissa pensoso il gigantesco capo mozzato di Golia: l’azione è già compiuta e il momento del dramma si è già sciolto in meditazione.
2. Salomè con la testa di Battista, 1650 ca.
Come già detto, dopo aver completato l’apparato decorativo nei bracci della basilica della Madonna della Ghiara, dedicati alle gesta di alcuni personaggi femminili dell’Antico Testamento, la produzione di quadri “da stanza” di Luca Ferrari si orienta verso la raffigurazione di protagoniste della storia sacra e dell’antichità classica. La Salomè, in atto di reggere il bacile con la testa di San Giovanni Battista, è una di queste.
Il contesto narrativo è da ricondurre ai Vangeli di S. Matteo (14:3-11) e di S. Marco (6:17-28). La storia è ambientata all’epoca della Giudea romana:
La giovane principessa giudaica (appartenente alla dinastia erodiana), Salomè, spronata dalla madre Erodiade, aveva avuto dallo zio-patrigno Erode Antipa (tetrarca di Galilea e fratello del padre di Salomè, Erode Filippo I), come ricompensa per aver danzato davanti a lui, la testa del santo Giovanni Battista. Il Santo era stato messo in prigione perché non approvava che il re Antipa sposasse Erodiade dato che Antipa era ancora sposato con la sua prima moglie, mentre Erodiade era precedentemente sposata con il fratello di Antipa. Salomè diventa così corresponsabile del suo martirio.
Al centro dell’opera si impone la figura a mezzo busto della Salomè, intenta a reggere su un piatto la testa recisa di Giovanni Battista. Il pittore la effigia agghindata in vesti ricche e provocanti; mentre incede verso lo spettatore con il suo macabro trofeo viene caratterizzata, oltre che da un aspetto matronale, da uno sguardo malinconico e pensieroso, come se il Ferrari volesse alludere a un tardivo ravvedimento del gesto compiuto. Uno sguardo diverso se messo a confronto con quello deciso, seppur non trionfante, della Giuditta con la testa di Oloferne (1630 – ’54, fig.21), sempre del Ferrari. Entrambe le donne sono rappresentate di bell’aspetto e con ricche vesti, ma differenti nel significato dietro al gesto della decapitazione, ma ne parleremo verso la fine.

Tornando allo sguardo della Salomè, quest’ultimo contrasta volutamente con l’abbigliamento provocante della giovane protagonista, caratterizzata dalla folta capigliatura ramata che le incornicia il volto pallido, donando alla rappresentazione un’atmosfera di tristezza. Aspetto ribadito dall’espressione dolente della testa del santo, le cui labbra dischiuse alludono a un muto rimprovero. Pur usufruendo della pennellata compendiaria e del cromatismo brillante, l’autore non rinuncia a uno studio psicologico che dinamizza la figura di Salomé e la rende presente non solo con la prepotente fisicità, ma anche con la sua verità patetica e sentimentale.
Sul tema della Salomè con la testa del Battista non possiamo ignorare due esempi “affollati” del Caravaggio: la tela collocata nel Gabinetto degli Stucchi del Palazzo Reale di Madrid (1608 ca. fig. 22) e l’opera fruibile presso la National Gallery di Londra (1609-10 ca., fig.23).


Entrambi gli oli, degli ultimi anni di Caravaggio, portano a una profonda meditazione sulla morte, incentivata dalla presenza del serioso aguzzino che nell’opera londinese poggia la testa di Giovanni sul vassoio tenuto da Salomè, mentre nell’opera madrilena si limita al solo sguardo.
Ma è con la grande decollazione del Battista dipinta per i cavalieri di Malta (1608, La Valletta, Concattedrale di San Giovanni, fig. 24) che Caravaggio rappresenta il tema durante l’esecuzione in prigione: con l’aguzzino che ha appena ucciso il Battista con il coltello e si appresta a decollarlo, il carceriere che, impassibile, indica in modo perentorio il bacile che viene sorretto da una giovane (probabilmente la stessa Salomè, ma per via del vestito molto sobrio c’è chi ha anche suggerito si tratti semplicemente di una servetta), un’anziana attendente che porta le mani al volto per l’orrore e due carcerati (nella parte destra) che osservano l’avvenimento da dietro le sbarre della loro cella.

Nelle sacre scritture vi è un altro racconto con una protagonista femminile intenta a maneggiare una testa mozzata, ed è altrettanto famoso. Parliamo della narrazione che portò Giuditta a decapitare Oloferne.
Il re assiro Nabucodonosor inviò il suo generale Oloferne ad assediare la città ebraica di Betulia. Una bellissima giovane vedova, Giuditta, decide di salvare il suo popolo uccidendo Oloferne. A tale scopo, indossa i suoi vestiti migliori per sedurlo. Nel corso della serata, Oloferne si ubriaca bevendo una grande quantità di vino, permettendo a Giuditta di decapitarlo con l’aiuto della sua serva Abra.
Abbiamo già citato il dipinto di Ferrari su questo tema, che nella posa risulta più dinamica e vigorosa della Salomè, ed è interessante mettere a confronto queste due protagoniste: Salomè, la femme fatale, e Giuditta, la femme forte. Il paragone tra queste due figure, infatti, mette in luce il coraggio e l’eroismo di Giuditta, una donna pia che salvò il suo popolo, e la strumentalizzazione di Salomè, una pericolosa seduttrice usata per una meschina vendetta grazie al potere della sua bellezza, e nell’opera di Ferrari Salomè diventa sempre più consapevole di questa triste realtà.

Guido Reni non si priva neanche di questo tema, con la Salomè della Galleria Corsini, 1638 – 1639 ca. (fig.25). La figura di Salomè si staglia su un fondo grigio e indistinto, dal quale emerge portando su un piatto la testa recisa del Battista, da consegnare alla madre Erodiade. La versione di Reni si focalizza sulla messa in scena del contrasto tra l’episodio narrativo (una fanciulla che porta una testa mozzata su un piatto) e il volto di Salomè, che punta gli occhi sullo spettatore mantenendo allo stesso tempo una fredda e impersonale distanza. Quest’ultima viene accentuata dalla sapiente tecnica pittorica utilizzata dall’artista, che fa emergere dalla tela le sue ricche vesti e il copricapo, attraverso pennellate lunghe e corpose.
In conclusione, non ci si può esimere dal confronto tra questi due capi mozzati dipinti da Luca Ferrari, la testa di Golia, un malvagio, e quella di Giovanni Battista, un santo, entrambi sostenuti dai loro stessi aguzzini: Davide e Salomè. Ma anche se trattiamo di due raffigurazioni apparentemente simili tra loro su questa tematica, non bisogna dimenticare le motivazioni che hanno portato a questo esito.
Davide è l’eroe fiero che, con la forza della mente, ha salvato il suo popolo, sconfiggendo un nemico più forte di lui fisicamente. Salomè è la seduttrice contrita che, con il potere della bellezza, ha collaborato al martirio del Battista, un uomo pio imprigionato, colpevole di essere stato giusto.
Mario LIPARI Catania 15 Giugno 2025
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