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Non è certamente una novità il clamore che accompagna ormai da decenni una esposizione dedicata a Caravaggio, come nel caso di Caravaggio 2025 in corso a Palazzo Barberini in questi giorni, dove sono in visione, come mai accaduto prima, 24 opere tutte del Maestro (con un paio di attribuzioni discusse vedi la recensione di Massimo Francucci https://www.aboutartonline.com/reliquie-caravaggesche-aperta-a-palazzo-barberini-la-grande-mostra-caravaggio-2025/ ) e con al centro il famoso Ecce Homo, ultimo arrivato nel catalogo delle opere riconosciute di mano dell’artista. Né sono una novità le file di persone in coda in attesa di entrare nonché commenti, giudizi, valutazioni di esperti (e non). Tutte cose che fanno ormai parte di una sorta di messa in scena già vista, proprio come sta accadendo da qualche settimana anche a Firenze dove ha esordito lo scorso 27 marzo a villa Bardini un’altra esposizione nella quale il ‘nostro’ divide il richiamo con Roberto Longhi ed Anna Banti.
In tutto ciò rischia di non farsi neppure notare, esattamente per il motivo opposto, cioè l’assenza di clamore, di prese di posizioni polemiche o di scontri o accuse a questo o a quello, un volume, uscito qualche mese fa per i tipi dell’editore etabeta (Lesmo- MB- novembre 2024), anch’esso ben dentro le tematiche del caravaggismo, ad opera di Francesca Saraceno, che presenta un testo oltre che colto, scritto senza enfasi, starei per dire ben educato, tutto completamente dedicato ad un solo ancorché fondamentale capolavoro siciliano di Michelangelo Merisi, vale a dire Il seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio.
E siciliana è, Ça va sans dire, Francesca Saraceno, studiosa che esordì con Caravaggio. Emozioni e impressioni (ed. Etabeta, Lesmo (MB), 2022) un volume che già dal titolo lasciava intendere quali sarebbero stati oltre agli argomenti esposti, soprattutto i motivi da cui era nata – e come sarebbe stata dirimente quanto a ricerche e studi da effettuare da quel momento in poi – la travolgente infatuazione per la figura e l’opera del genio lombardo.
Si deve però non omettere di osservare ad inizio di indagine critica, che l’autrice, ormai nota studiosa e scrittrice d’arte, non è propriamente una storica dell’arte, nel senso che i suoi studi precedenti e i suoi trascorsi sotto questo aspetto non consentono un paragone con coloro facenti parte di quel mondo di accademici che almeno dal 1951 (l’anno della grande mostra longhiana che a Palazzo Reale diede il via -com’è da tutti riconosciuto- al fenomeno che oggi definiamo ‘caravaggismo’ ) si contendono – se si può dire così- in mostre, convegni, pubblicazioni ad abundantiam, il piacere ma anche la possibilità di occuparsi ‘scientificamente’ del Maestro, trascurando assai di frequente qualsivoglia altra intromissione in un campo che ritengono esclusivo. Certamente anche per questo, pubblicazioni come questa o altre che pure attenzione la meriterebbero, restano invece spesso ai margini del dibattito e del confronto. Ed è un male perché può capitare, come nel caso di cui ci occupiamo, che l’analisi de la storia la genesi e il destino di un capolavoro (come recita il sottotitolo del nuovo volume della Saraceno) potrebbe contribuire in modo importante ad aprire nuovi spazi di approfondimento e di ricerca in un percorso – quello dell’esegesi in questo caso di un’opera, ma in generale del ‘caravaggismo’- che è spesso stato accidentato, registrando aggiunte e sottrazioni, correzioni e ampliamenti, novità e ripensamenti, dove insomma se ancora molto è da considerare esplorato tuttavia poco si può ritenere giunto ad un vero pieno e soddisfacente compimento.
Va detto subito che quella cui assistiamo in questo libro è in realtà anche una gigantesca manifestazione d’affetto e del resto l’autrice lo dice apertamente proprio nella Premessa, allorché ci fa sapere che tutto ebbe inizio alcuni anni fa, quando ebbe modo di visitare il luogo dove il dipinto raffigurante Il Seppellimento di Santa Lucia era allocato, vale a dire la chiesa di Santa Lucia alla Badia in Siracusa (e qui rimase fino al 2020 per essere trasferito poi il 13 dicembre di quell’anno nella chiesa di Santa Lucia al Sepolcro dov’è tuttora).

Va chiarito che non siamo però di fronte ad una ancorché solida passione che poi si consuma come può capitare a chi è dentro ad una reazione impulsiva. Crediamo, al contrario, che la Saraceno abbia avuto la capacità di raccontare in un libro quella complessa serie di sensazioni che davanti a capolavori come il Seppellimento solitamente scaturiscono, ma che pochi poi riescono a estrapolare e a raccordare peraltro rimanendo dentro una curvatura storico artistica inappuntabile in forza di uno studio appassionato e completo tanto quanto filologicamente ineccepibile. E se è vero che letterariamente risulta complicato ai più raccontare quello che è stato per anni nella propria coscienza magari per il rischio che non possa riguardare tutti, quando poi una storia, un evento, magari lontano, magari privato, diviene una narrazione che parla al lettore, che lo avvolge, che lo rende partecipe, allora significa che qualcosa è accaduto.
Tutto comincia nel 2017 quando Francesca Saraceno, come accennavamo, capita di fronte al quadro di Caravaggio:
“Sapevo, scrive l’autrice, cosa avrei trovato, ma l’impatto fu potente oltre ogni immaginazione. Sentivo che Caravaggio era ‘fisicamente’ dentro quel dipinto …”.
Di qui la “Cronaca di un incontro” -così il primo capitolo del libro- con la descrizione niente affatto scontata di una rappresentazione su cui, pure, si sono esercitati decine di studiosi ma che nel nostro caso fa i conti con una sensibilità ed un eloquio che a volte evoca il tono lirico:
“Un alveo di terra smossa, residenza imparziale, pronta ad inghiottire la vita. Degli innocenti come dei colpevoli”,
altre volte quello tragico:
”Nessun cielo si apre ad accogliere Lucia. La morte è morte per Caravaggio … una vita spezzata, una curva senza traguardo”.
Ovviamente da studiosa genuina la Saraceno non poteva esimersi dal riprendere quelle problematiche di carattere soprattutto storico e documentario (per quel poco che è possibile in questo caso), che ancora sono da chiarire quando si affrontano le questioni dell’ “Approdo di Caravaggio in Sicilia”, dopo la clamorosa quanto mai ben chiarita fuga dalle carceri maltesi, e più specificatamente dell’arrivo a Siracusa e del possibile rapporto con Mario Minniti, fino all’ “onore degli altari”, temi affrontati in un copioso capitolo cercando di riannodare i fili di eventi ancora in buona misura oscuri e su cui quindi ci pare opportuno fare un richiamo, tenendo in ogni caso presente l’avvertenza dell’autrice che stante la scarsità di sicurezze a questo riguardo, mette in guardia sul fatto che
“al momento null’altro si conosce di certo sul soggiorno siracusano del Caravaggio, né sulle reali circostanze che condussero alla commissione per il Seppellimento di Santa Lucia”.

A cominciare dalla circostanza, anche se è da non pochi studiosi ammessa come possibile, pur senza alcun riscontro documentario, che sia stato Mario Minniti -intercedendo presso il Senato della città- a procurare al vecchio amico del periodo romano la commissione per il dipinto che avrebbe raffigurato il Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa di Santa Maria al Sepolcro.
L’unico a parlarne, come viene ricordato anche dalla Saraceno, è il pittore /storico messinese Francesco Susinno, né ci pare sia stato riconosciuto scientificamente valido e quindi utile un documento presentato di recente dallo studioso Michele Romano (Cfr “Il seppellimento di Santa Lucia a Siracusa, la fortuna critica e il culto aretuseo”, in collaborazione con Dario Bottaro, per l’editore Le Fate, 2021) sulla presenza di Michelangelo Merisi a Siracusa, oltre che sui tempi della sua sosta e sulla commissione, documento poi giudicato senza tanti giri di parole “falso” da Michele Cuppone (Cfr. https://www.aboutartonline.com/e-un-falso-il-primo-documento-di-caravaggio-a-siracusa-i-documenti-proposti-da-michele-cuppone-smentiscono-ogni-ipotesi/) e dalla stessa Saraceno nel capitolo finale del suo libro.
Ma che Mario Minniti abbia davvero avuto quel ruolo dirimente oppure no non ci sembra sinceramente così rilevante: vero è che egli aveva un suo atelier piuttosto frequentato a Siracusa e tuttavia si deve probabilmente credere che anche altri fattori ebbero gioco e in misura non secondaria nell’assegnazione della commissione.
A cominciare dal coté culturale del tempo e da come si era venuto formando, come vedremo, nonché dal sentimento religioso prevalente, con la presenza determinante in particolare di gesuiti, francescani, camillini, e soprattutto oratoriani (ai quali il Caravaggio ‘romano’ com’è noto era stato assai fedele e vicino). Non si tratta di una circostanza da trascurare; si sa infatti che la pala era destinata all’altare maggiore della chiesa extra moenia di Santa Lucia al Sepolcro, il luogo dove sarebbe avvenuto il martirio e la sepoltura della santa, chiesa che, dopo la concessione ai francescani osservanti, era passata in seguito a 4 Cappellani, per finire poi affidata per volontà del Senato proprio agli oratoriani locali (seguaci della regola dell’Oratorio di San Filippo Neri) e proprio nei mesi in cui Caravaggio era presente a Siracusa; si aggiunga a ciò naturalmente la fama che accompagnava l’artista lombardo ancorché fuggitivo e ricercato: “Se ne udiva grande il rumore e ch’egli fosse in Italia il primo dipintore”, avrebbe scritto in seguito il Susinno.
Insomma pur restando aperte – stante la più volte richiamata scarsità di fonti certe- una serie di problematiche storiografiche oltre ad inevitabili lacune e zone d’ombra, un pur limitato tentativo di delucidazione può essere tentato nella ricostruzione del contesto in cui si materializzò la commissione del Seppellimento.
E da questo punto di vista innanzitutto va chiarito che non era Siracusa -dove Caravaggio operò tra l’ottobre e il novembre del 1608- la città più importante e florida dell’epoca bensì, oltre e più di Palermo, Messina “prima città di Sicilia … seconda nel Meridione solo a Napoli” (dove il Merisi arrivò subito dopo Siracusa):
”Città ricca, rinomata e vitale, abitata da una società composita e variegata (nobili di antico lignaggio e ricchi mercanti, chierici e artisti …) vera capitale mediterranea…”
come scrive Andrea Italiano (cfr. Sulle orme di Caravaggio. Alonso Rodriguez. Principe dei pittori messinesi” (Giambra editore, Me, 2020, pag.5), dove peraltro grande rilievo ebbe anche il collezionismo.

Si pensi che nel palazzo del nobile e senatore messinese Antonio Ruffo della Scaletta era presente – unico caso in Italia- un dipinto di Rembrandt eseguito nel 1654, ed è un fatto documentato che il nobiluomo chiedesse a Guercino e poi a Mattia Preti la redazione di un altro quadro a mezza figura che si accompagnasse all’opera di Rembrandt (i dipinti dei due maestri italiani risultano oggi dispersi)
Vero è che nella città peloritana la pittura fine secolo era caratterizzata da una stanca adesione al ‘polidorismo’ (com’è noto, per sfuggire al Sacco di Roma del 1527, Polidoro da Caravaggio fuggì prima a Napoli e poi dal 1529 sbarcò a Messina dove rimarrà fino alla morte) ma più oltre il campo, per così dire, venne tenuto da Filippo Paladini il quale “fuggiasco dalla sua patria” (anch’egli per un fatto di sangue) e dopo un soggiorno a Malta “fissò la sua dimora in Sicilia” dove morirà nel 1614.
Considerato dal Susinno – che com’è noto affibbierà invece a Caravaggio appellativi come “mentecatto” o “inquietissimo cervello”- alla stregua dei “più eccellenti dipintori” e come colui che ”dipinse … le più meravigliose tele che ammiransi nel Regno di Sicilia” (Cfr. P. Russo – V. U. Vicari Filippo Paladini e la cultura figurativa nella Siciila centro- meridionale tra Cinque e Seicento, edizioni Lussografica, CT, 2007, p.46) Filippo Paladini declinerà “il naturalismo caravaggesco secondo una forma mentis ancora manierista …” (v. Sulle orme di Caravaggio … pp. 32-33), più o meno la stessa parabola di vari artisti locali, non escluso Mario Minniti.
Con ogni probabilità i due artisti si erano conosciuti a Malta dal momento che, come è stato scritto, “in un quadro denso e complesso di non facile definizione” (un altro dei tanti punti che andrebbe approfondito), tuttavia intercorsero certamente
“scambi e legami tra un cospicuo numero di artisti ‘regnicoli’ del meridione d’Italia, non sempre di primo livello, con folte schiere di pittori maltesi del tempo” (Cfr S. Costanzo, Pittura tra Malta e Napoli nel segno del barocco, Cleam edizioni, Na, 2011, pag. 20)
Minniti era rientrato in Sicilia nel 1605 (lo attesta un recente documento che chiarisce come in quell’anno fosse stato incaricato di dipingere un quadro per la chiesa di San Filippo nella sua città) ma quando nel 1608 Caravaggio vi sbarcò in fuga da Malta, si ritrovava anch’egli quale fuggiasco ospite in un convento di carmelitani, a seguito di un omicidio cui era implicato.

E’ altresì noto che entrò in contatto, o per meglio dire riprese i contatti con Filippo Paladini in un torno di tempo che nella città aretusa vedeva attivi altri artisti come Pietro D’Asaro alias il Monocolo di Racalbuto (perché cieco in un occhio) allievo del Paladini come amava firmarsi, nonché altri siracusani come Daniele Monteforte e Giuseppe Reati, che si deve ritenere con buon margine di certezza attivi nell’atelier che Minniti come si diceva aveva aperto da tempo (ma su questi temi vedi da ultimo gli studi di Michele Cuppone e Nicosetta Roio, in Caravaggio a Siracusa. Un itinerario nel Seicento aretusino, a cura di M. Cuppone & M. Romano, editore Le Fate,1^ ed. 2020, in particolare pagg. 8 -17 e pagg. 20- 21. Della Roio anche Caravaggio e il maestro della Natura morta di Hartford …., in L’arte di vivere l’arte. Scritti in onore di Claudio Strinati, Etgraphiae, 2020, pagg. 391 – 403).
Non è compito di queste note entrare più a fondo nella questione dei condizionamenti e delle affinità caravaggesche maturate indubbiamente dal Minniti ‘romano’ (oltre al Caravaggio, sono state sottolineate tangenze con Saraceni e Gramatica) o dallo stesso D’Asaro il quale, tuttavia, come suggerisce ancora la Roio, oltre che essere stato in contatto “con gli stessi ordini per i quali aveva lavorato il Merisi (francescani, cappuccini, carmelitani)”, mostrava nelle sue opere “allusioni simboliche e cristologiche” tipiche di certi temi merisiani.
E’ un fatto scontato che l’esperienza maturata nella Roma cosmopolita, allora centro focale della cultura e delle arti, si riverberasse poi in molti pittori più meno conosciuti che operavano in Sicilia che certo vennero influenzati dai mutevoli scenari che dalla rivoluzione caravaggesca fiorirono a sud di Roma e che certamente spianarono il terreno a chi ne era stato l’autore. Non poteva insomma trovare un clima migliore il Merisi, ora in costante pericolo e bisognoso oltre che di commissioni, di sicurezza e di garanzie di incolumità, tanto più in una contingenza in cui la chiesa controriformistica andava promuovendo in Siracusa modificazioni urbanistiche e architettoniche:
“edificazioni di conventi, chiese, monasteri … necessarie per riunire l’intera comunità locale nel riordino culturale della fede cristiana” (cfr. M. Romano, Arte e architettura in Siracusa. 1600 – 1693, in Caravaggio a Siracusa, cit, p. 24).
In una logica di questo tipo si inseriva perfettamente la composizione del Seppellimento, e nel capitolo giustappunto dedicato alla “Opera” le note della Saraceno appaiono non prive di interesse, specie in relazione a certe ipotesi che, sempre con la massima cautela, vengono da lei avanzate circa il luogo in cui l’artista situa la rappresentazione, posto che“la presenza di una porta e lo spazio antistante in cui la scena si svolge suggeriscono una ambientazione carceraria …”, o per altri versi “volendo azzardare una identificazione” laddove suggerisce di poter individuare “il personaggio che appare dietro la mano benedicente del vescovo … con la fronte aggrottata e lo sguardo rivolto verso la fonte della luce” come ulteriore autoritratto di Caravaggio. Ma quello che colpisce nelle parti del libro dedicate a “restauri, indagine e copie” è in primo luogo la denuncia delle traversie subite dal dipinto, da quasi subito ridotto in cattive condizioni a causa del clima caldo umido della Chiesa del Sepolcro e soggetto quindi nel corso del tempo a restauri non sempre adeguati.
Una verità confermata oltre che dalle fonti storiche anche dai diari di alcuni viaggiatori che sul finire del Settecento o dell’Ottocento non potevano non rilevare come il quadro sembrava ormai “l’ombra di un gran dipinto di Caravaggio” del quale “non appaiono ormai che le ombre”, fino al punto di arrivare a metterne in discussione perfino l’autografia, come è scritto in un libro tedesco che faceva cenno ad un dipinto “completamente rovinato, presumibilmente del Caravaggio”.
Dove però si concentra in particolare l’attenzione dell’autrice -considerando il rilievo filologico che assume- è sul tema delle copie (“almeno 11 quelle di cui oggi si abbia contezza e se ne siano potute reperire le immagini”), indagato anch’esso da altri studiosi ma che qui si ricompone in maniera che possiamo definire esaustiva dal momento che dall’osservazione e dal confronto delle varie redazioni e mettendo assieme come in un puzzle tutti i pezzi atti a restituire al capolavoro di Caravaggio l’impronta originaria, si è potuto ricostruire in modo attendibile come fosse l’opera ab initio, quando venne ‘scoperta’ dall’artista.
Soprattutto viene messa a fuoco la figura del “presunto ‘diacono’ ” vale a dire “il personaggio al centro della scena, l’unico nel dipinto che Caravaggio sembri tratteggiare con maggiore attenzione” e rispetto alla quale però certi elementi:
“fanno supporre che quel panneggio scarlatto non rappresenti una stola e che il ragazzo non sia un diacono”.
Dopo aver passato in rassegna le varie ipotesi avanzate dagli studiosi che di recente e più di altri hanno scritto sul Seppellimento la studiosa sembra propensa ad avallare la tesi di Howard Hibbard da questi avanzata già nel 1983 secondo cui:
“il ragazzo con la testa reclinata e il manto rosso … potrebbe evocare la figura di San Giovanni”.
Ma la Saraceno si spinge ben oltre: collegando la figura dell’evangelista a quella della santa martirizzata arriva ad una conclusione tanto originale quanto certamente inaspettata che comporta una nuova rilettura dell’opera investendo lo stesso ruolo della Chiesa:
“… Giovanni rappresenta qui la comunità cristiana riunita intorno alla testimone Lucia nel suo ultimo evento terreno. Una comunità ‘filiale’ che, nel dolore ma anche nella fede, si stringe e si affida ad una stessa madre: la Chiesa”.
Forse per questo la figura della santa assume, nelle varie descrizioni che la riguardano, toni di un’estrema delicatezza:
“Lucia giace nella polvere … Piccola il viso incollato alla ferita mortale che le ha separato la mente e il cuore, il Verbo e il suo Tempio. Lucia appena accennata … il corpo quasi sfuma incompiuto … Lucia protagonista non partecipe del dolore che la circonda”.
Non devono essere risultate estranee sotto questo aspetto all’autrice le considerazioni di Umberto Eco nelle “Riflessioni sul dolore”, testo apparso nel 2014 ed ora riproposto dalla Nave di Teseo, in cui si evidenzia come “nel caso di Cristo” la raffigurazione iconografica lo presenti solitamente “imbruttito” considerata “l’immensità inimitabile del sacrificio compiuto”, mentre al contrario:
“nel caso dei martiri, per esortare ad imitarli, si mostra di solito la serenità serafica con cui sono andati incontro al martirio”, laddove “perfino una sequenza di decapitazione … può dar luogo a composizioni aggraziate”.
E’ quella che, nelle parole del grande studioso, viene definita come “pulcrificazione” in cui:
“più che il tormento conta la forza virile o la dolcezza femminea mostrate nell’affrontarlo”.
Ma non si può chiudere questa indagine sul volume di Francesca Saraceno senza dar il dovuto rilievo al capitolo dal titolo “Il prestito della discordia. Il Seppellimento di Santa Lucia al Mart di Rovereto”, dove viene afforntato un tema certamente da prendere in seria considerazione. La vicenda non pochi dei nostri lettori certamente la ricordano e l’autrice la ripercorre in modo obiettivo precisando le circostanze che portarono un quadro ridotto come sappiamo a percorrere avanti e indietro centinaia di chilometri per approdare ad una esposizione intitolata “Caravaggio. Il contemporaneo” dove l’opera siciliana era messa in dialogo con lavori di Alberto Burri “in una relazione puramente concettuale” come scrive la Saraceno e dove peraltro comparivano “opere di Cagnaccio di San Pietro e dell’artista Nicola Verlato e una serie di foto di Massimo Siragusa sulla vita e la morte di Pier Paolo Pasolini”.
L’evento, che scatenò molte polemiche, a cui peraltro seguirono e c’è da dire seguono tuttora altri simili di trasferimenti e prestiti di opere per motivi anche del tutto “estranei all’ambito strettamente artistico”, aprirebbe il campo a considerazioni che in questa sede possiamo solo accennare e che investono ruoli e responsabilità facilmente individuabili di quanti operano nel settore della salvaguardia e tutela dei beni artistici e ambientali che tardano ad intervenire (o proprio non lo fanno, come nel caso in questione) anche a fronte della “deriva commerciale che emerge ormai da anni dalla concessione di prestiti” ovvero della ”leggerezza con cui ultimamente si prestano opere per eventi alternativi”.
Le opere conclude la Saraceno riassumendo le idee di molti “spesso esprimono un senso compiuto solo nel contesto per il quale sono state realizzate”: un discorso che vale non solo per il Seppellimento di Santa Lucia e che però troppo spesso non viene ascoltato.
P d L Roma 4 Maggio 2025